Peste Noire – “Le Retour Des Pastoureaux” (2021)

Artist: Peste Noire
Title: Le Retour Des Pastoureaux
Label: La Mesnie Herlequin
Year: 2021
Genre: Avantgarde/Folk Black Metal
Country: Francia

Tracklist:
1. “La Bataille De Sarcelles”
2. “Chiendent”
3. “Cacatov”
4. “Les Jolies Cannes”
5. “Haut Les Schlass !”
6. “Blues Arverne”
7. “Lettre À Personne”

“Leur nombre est grand dans cette plaine, est-il plus grand que notre haine?”

Il potere demiurgico della parola crea ed evoca immagini sconnesse, e con queste una serie di sensazioni, eventi, di battaglie e guerre senza un vero tempo accertato né pari come raffinato mezzo metaforico per un’anamnesi: evidenziare una contraddizione osservata in modo quasi filologico nell’esempio umano e psicologico del piccolo contadino della Francia più rurale alle prese con il modernizzarsi del mondo circostante. Questo mix così vicino d’esistenza e uomo, di lavoratore, di operaio solitario e cittadino, d’ingranaggio suo malgrado e ciononostante artista, creativo ed artefice in ugual misura tra loro, che mostra ad un menestrello un’incongruenza da scrutare anche in sé. L’antinomia, la contradictio vile che serpeggia e dona vita autonoma ed irripetibile ai Peste Noire proprio nello scontro sinergico degli aspetti anarchici e quelli per così dire socialisti, totalizzanti e livellanti; tra l’amore e l’odio, il basso e l’alto, il colto ed il volgare, il sacro ed il profano come la distruzione e la conservazione, di costruzione e rovina, perfezione e disturbo, affetto e risentimento in un frastornante bilico tra la forza della comunità e quella dell’individualismo sfrenato, del rincuorante cameratismo e della solitudine più nera.

Il logo della band

E se la parola ha invero un potere tanto forte, ascoltare diviene del resto l’imperativo per poter muovere il primo passo verso la comprensione; l’interiorizzazione senza pregiudizi di questa opposizione apparentemente mal conciliata, sgangherata verrebbe da dire, tra mentalità anarchica ed autosufficiente e quella nondimeno chiusa, conservatrice, tradizionalista, armata a difesa dei propri villaggi in cui il cantore Famine trova il suo primo pubblico e, insieme, il primo maestro povero a cui prestare orecchio ed imparare di sé. In una taverna in cui bere con quel contadino e portare avanti (si badi, mai a termine!) una ricerca grandemente appassionata che ha dell’interpretativo, del freudiano e del ricostruttivo, e che tra i fumi dell’alcol distillato localmente e fortissimo fa emergere tutta una serie di cosiddette scorrettezze politiche e morali, tutto il nazionalismo pratico e -a parziale sorpresa- anche l’attaccamento alla terra, alla proprietà privata: a tutto ciò che insomma può opporsi all’idea di uno Stato totalitario, l’opposizione alle pratiche dello stalinismo e del fascismo, al nazionalsocialismo tedesco, al trotskismo e ai Gulag; più ancora che l’ultraruralità patriottica e quasi-nietzcheana, l’attacco superomistico sputato a tutto ciò che è amministrativo, infinitamente regolamentato, burocratico, asettico e cinico, centralizzato e tecnocratico. E dalla confusione dei primi del ‘900 si torna agli sgoccioli di un Medioevo ormai lontanissimo, alla noblesse de robe di una nuova classe mercantile ed usuraia a cui il sovrano, il clero e la fila di novelli forti donano il potere economico per trasferire quello giudiziario dalla precedente casta guerriera ai piccoli signorotti e centralizzare così ogni possibilità di controllo, rendendo le province autonome sempre meno indipendenti. Accrescendo la violenza legittima, quella unilaterale e senza possibile risposta esercitata dallo Stato, una pompa di denaro e germi, per la protezione della vita e della pace, dell’ordine e della giustizia a diretto sfavore del piccolo popolo ingobbito e ridotto al silenzio, che non può rispondere.
Nel caos che ne consegue, eliminata con evidenza dalla concezione ogni barriera temporale, giunge nella buca una lettera di remissione del Re in persona; una di quelle che perdonano i crimini e gli omicidi per questioni d’onore a patto di abbassare la testa al potere, una tolleranza falsa e bugiarda a cui “Le Retour Des Patoureaux” sarebbe diretta, ardente risposta se soltanto lo spazio riservato al destinatario non trovasse inscritto lo stesso indirizzo del mittente.

Le Trouvère Famine

Dall’Île-de-France di Parigi alla municipalità di Sarcelles, dal freddo dell’Alvernia a La Chaise-Dieu e da country a contre: benché sia vero che una dicotomia d’elementi ha sempre giocato -come peraltro già accennato in apertura- un ruolo preponderante nell’economia poetica e stilistica dei Peste Noire in ogni loro forma, il sincretismo più che ruvido repellente di una specialità gastronomica locale a cui lo straniero deve fare il palato un poco per volta pena il vomito incontenibile, questa sembra raggiungere nel 2018 un punto di non ritorno nell’eloquente fin dal titolo “Peste Noire Split Peste Noire”: condanna à moi même di un autore-diábolos mentitore ed arlecchino il quale, briglie dell’eclettismo salde in mano, prende il suo Black Metal e lo fa evolvere, tramutare naturalmente quanto vistosamente in un Rap sporco, di periferia, prima usato come rifiuto allo [S]tato puro ed ora abusato da “Aux Armes” a “Domine”, con quella sete di conquista geografica dell’europeo crono-istoricamente moderno che diventa la spinta musicale all’approdo quando non alla costruzione di porti nuovi, su rotte inesplorate, in termini proprio di Black Metal o commistione con esso. La stessa tuttavia che, variatis variandis e con una non trascurabile esperienza ucraina tutta acustica, porta Messer De Valfunde ad operare oggi in senso diametralmente opposto: nel dialogo animato senza la patina della cartolina tra Pierre-Joseph Proudhon, Maurice Barrès, Henri Pourrat, George Valois, Jacques Doriot ed Henry Dorgères, la frattura tradizionale viene in un certo particolare modo sanata proprio nello scontro frontale tra mondi che diventano una cosa unica dal principio, e non nell’evoluzione polimorfica e graduale, ma in coalescenze di due elementi contigui in un terzo che, anche quando non ha interessantemente più i caratteri di entrambi, ne conserva tanto il canto hooligan e lo spirito d’élite. Si torna con il primo a “Le Dernier Putsch”, al nord della Francia più conservativo, alla tradizione di ribellione contro fisco, tasse, persino scuola dell’obbligo, quella dei militanti anti-Stato, anti-marxisti, alle hooligan fight moderne per difendere il diritto alla distillazione locale di alcol non statale; ma lo si fa con un Dorgères perso nella variopinta musica di strada a braccetto con un Valois morto nelle camere a gas naziste tra compatibilità ed impossibilità, in un bal de barrière da sobborghi ma soprattutto dalle retrovie meno globalmente produttive. È il Folk acustico e non, ma sempre dalla facies popolare francese, quella de la bal musette che incontra l’istrionismo Sopor Aeternus anno 1994, della canzone pop tradizionale che si carica delle chitarre Swing di “Chiendent”, dell’armonica inquietante di “Blues Arverne” mentre spira il vento di chi ha vissuto inverni autentici, e del contrabbasso di Frater Stéphane completato da trombe, flicorni, violoncello (“Cacatov”) – il contrario riottoso netto in termini elitari di un prestito colto dai reami frastagliati del Black Metal dei Peste Noire in assimilazioni degli elementi quando contigui e anche quando strutturalmente meno prossimi, dove identità frammentate si mescolano in una molotov riempita d’escrementi neri e Post-Punk che esplodono in detriti contro tutto, sparsi in ogni direzione come l’inchiostro secco si sparpaglia testardo su carta sporca.
Questa rivolta contro l’aristocrazia autoproclamatasi, nella nazione in cui è impossibile riconoscersi come in musica, raggiunge al calar del vespro i castelli con le lame alte e in gola, la “Haut Le Schlass !” che Famine e compari cantano con lo stesso accento localista, anti-cosmopolita ed anti-borghese (nel senso più radicale e linguistico del termine) vicino al popolo e ai villaggi di Doriot e Blanqui, a la Pucelle e ai martiri de la Commune con l’odio dei contadini contro lo Stato, la chiesa, la polizia e i tribunali in scissioni fatte di onomatopee e carattere fonosimbolico quando non fonosimbolista del cantato mentre la batteria dona chiarezza alla complessità artistica della composizione con accenti favoriti dall’assenza del più tipico muro di chitarre che esce così chiaro e straziante anche quando è lo-fi nell’impetuoso crescendo, riempito dalla terza dimensione del basso. E in ciò un altro piccolo prodigio d’ispirazione Devil Doll mischiata al delirio d’Icaro del decaduto Marchese De Morès: la line-up francese per fare musica francese, quella ucraina per fare musica europea; la prima spiritualmente arricchita dal fascino controverso ma innegabile di personalità e pensatori ambivalenti, sincretici, profondi e spesso contraddittori ma vivi, attivi e fortemente individuali nell’elaborazione che può tornare sui suoi passi per essere migliorata, affilata, resa più o meno coerente col proprio io e le proprie autentiche convinzioni e visioni della vita – ma sempre donare spunti di riflessione verso l’infinito. Gli stessi cenni con cui Famine, ormai Ludovic nella lettera che scrive a sé stesso e nessuno dal freddo fondo della fine, ma non prima di aver deliziato con un momento di puro camaleontismo musicale che in “Le Jolies Cannes” arriva a replicare alla perfezione lo stile (più che degli Alcest) di Neige, si fa prendere per mano dal suo concittadino Pourrat da La Chaise-Dieu per odiare ed essere libero in quelle “Blues Arverne” e “Lettre À Personne” che in maniera tanto speciale e senza veli mostrano tutta l’essenza di quel reazionismo macabro, della nostalgia bruciante per una società pre-industriale ed in ciò la fierezza del sentimento anti-sociale diametralmente contrario all’adattamento fascista -svuotato del culto virile per l’eroismo- al mondo moderno, egalitario, gerarchico e fisso alla maniera evoliana, guardando invece malinconico dalla lontananza di una cella gelida il trionfo dei centri abitati sulla periferia selvaggia ed inabitabile, ma ricordando e facendo ricordare finché si ha aria nei polmoni e vita nel cuore, con disperato negativismo, pessimismo stoico e populismo non demagogico, il vuoto nichilista che, nella scintillante capitale, si prova dentro.

In un viaggio etimologico tra titani e villani senza un vero intreccio ma con un percorso intervallato da stazioni come in scene di un dramma dagli sviluppi più dimostrativi che narrativi, senza paletti cronologici interni tra 1850 e 1950, i Peste Noire come e non meno del padre anarchico, patriota sovranista Pierre-Joseph Proudhon, ci cantano in “Le Retour Des Pastoureaux” della Francia en bas, di quella madre che ha dato al mondo Révolution e Croisade, il diritto al popolo di disporre di sé; della risposta forse senza speranza della periferia, e della desertificazione umana delle sue campagne con la logica annebbiata e ferrea di chi ha compreso ciò in cui crede oltre ogni superficiale abolizione fanatica di differenze trangugiata per uguaglianza nella scelta di un capo meno peggiore degli altri durante un periodo elettorale. Un sentimento anti-masse che non potrebbe essere più Black Metal di così e che si dischiude in una distinzione ancora una volta locale e di barrèiana memoria tra nazionalsocialimo e Socialisme Nationale come tra Progressive Rock e rock progressivo – contro Parigi, la meccanizzazione industriale, l’aspetto livellatore nell’apparato educativo e politico dalle motivazioni totalitarie di fascismo, nazismo, comunismo quali Stati militari, polizieschi: Stati-Dio dall’ideologia di massa che nulla possono avere a che vedere con tutto ciò che i Peste Noire rappresentano e vogliono da sempre rappresentare, non-conformisti degli anni ‘30 nel paragone a pernacchia tra La Mesnie Herlequin e gli standard della comunità codardi e in realtà veri portatorid’odio di una Sony Music a fare il favore di Spotify e filantropi vari. Succede così che una forma mentis che è animo provocatorio ma altamente riflessivo, pieno di poesia e guerra, di un commovente attaccamento al valore che si rifiuta di diventare un gendarmetto al soldo del degrado meccanico (il dovere morale di opporsi ai regimi, quelli che indebitamente controllano cultura e ogni aspetto economico-sociale della vita), si schieri coerentemente dalla parte della libertà sopra a tutto; che si stagli all’antipode dell’immobilismo comunista che la sacrifica senza remore in nome di un’egualianza armata ottenuta tramite sorveglianza distopica di specialisti del controllo, della spunta e del riportare – di falsi oppositori servili come il Satana dell’Antico Testamento, alla destra del dogmatico e capriccioso Yahweh, sulla Terra per controllare e segnalare virtù e malefatte da premiare o punire ad un sistema che è dominante, globalizzante e capitalista, dotati della natura quasi sadomasochista, divinizzante e delegatrice dell’oppositore politico con un’autorità superiore nel tramite di quegli standard a cui piegarsi – un atteggiamento, va probabilmente da sé alla lettura, estremamente fascista.
E Famine De Valfunde, ormai brillante cantautore Folk dai mezzi avanguardistici passato nel volgere di qualche misero anno da genio musicale a ragazzaccio da evitare e boicottare, si tiene invece costantemente aggrappato a quella visione di un mondo più antico, caldo, artigianale e per molti versi più intimo e a lui congeniale: di un Black Metal che è, nulla di meno, un osceno pezzettino di Inferno sputato in Terra, di terrore radicale e di pensiero oppositore nella sua essenza più pura verso la Salvezza. Questo, anche senza quel rischio insito nel rigettare la violenza fantasy e del più lontano passato ampiamente tollerate perché distanti a favore di quelle attuali, autentiche e visibili con i nostri occhi nel presente rompendo così quel sacro e confortevole confine tra ieri ed oggi, varrebbe da solo una condanna alla demonizzazione della musica del Diavolo. Ma sarebbe, ancora una volta, il più lampante e meno probabile dei paradossi.

“Nous jouons de la musique du diable ou comment ça se passe là?”

Matteo “Theo” Damiani

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