Ygg – “Ygg” (2011)

Artist: Ygg
Title: Ygg
Label: Oriana Music
Year: 2011
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Ucraina

Tracklist:
1. “…I Know, I Hung In The Branches In The Wind… (Intro)”
2. “Ygg”
3. “Wyrd, Verdandi, Skuld”
4. “Hymn Of The Nature”
5. “Blood”
6. “The Ritual”
7. “…Moaning, Lifted Them Up And Fell From The Tree…”

Ciò che rappresenta l’inizio del percorso degli ucraini Ygg assume i caratteri rossi della sofferenza corporale e spirituale di un primigenio atto sacrificale la cui origine si perde in una notte priva di stelle, di un’interminabile lotta contro gli sferzanti venti del destino nel tentativo di rimanere aggrappati all’esile ramo della lucidità, fino all’ottenimento saldo e consapevole di una nuova conoscenza di sé in vista di una definitiva seppure travagliata rinascita. Sullo sfondo, il preambolo tragico dell’ineluttabile crepuscolo degli dèi, i cui fiammeggianti raggi inondano di bagliori vermigli le incisioni vergate di sangue secco sull’albero che un giorno fu simbolo di sapienza e vita; oggi funestamente spolpato nella sua essenza, scavato ed eroso dalle bestie, putrefatto e corrotto fino all’ultima diramazione della più possente delle sue radici.

Il logo della band

L’esile filo che lega fra loro i tre cantori viene tirato, snodato e riavvolto a doppia trama, tanto precario e vicino al proprio capo quanto già teso verso un fato glorioso, che vede come perno concettuale e ontologico quella pietra miliare che è “The Voice Of The Steel”: il quinto disco dei Nokturnal Mortum, ancora oggi a ragion veduta venerato come uno degli apici assoluti del panorama estremo est-europeo, deve gran parte di quella vena progressiva che ne caratterizza la struttura portante proprio all’operato magistrale del basso di Vrolok, che poi nel 2011, probabilmente mosso dalla sensazione di aver concluso magnificamente un ciclo cominciato oltre una decade prima e che termina infine con la sua partecipazione sul celebrato full-length, decide di lasciare la formazione guidata da Varggoth per veicolare, sempre nella fidata compagine di Oriana Music, sotto l’influenza spirituale del circolo Blazebirth Hall (spesso indebitamente quando non volontariamente confuso in obiettivi e natura dagli ascoltatori e curiosi occidentali, per un’evidente barriera di natura linguistica ambo i lati, con il connazionale Pagan Front russo) e in alleanza con Odalv alla batteria e all’allora membro fondatore dei Khors, Helg, alla chitarra, quell’animo musicale dai tratti distintamente slavi in una foggia meno marcatamente folkloristica, ma dallo spirito ancora più dilatato e drammatico, soffocante ed annichilente nella sua spiccata atmosfericità.
In terre in cui lo spirito di Varg Vikernes ha infatti musicalmente operato più irreparabili danni che altrove, ed il cui culto evidente si traduce ancora oggi molto spesso in esercizi di stile e devoti manifesti di un epigonismo a tratti sterile, gli Ygg ripercorrono e proseguono invece con persino maggiore eleganza ed encomiabile perizia i solchi angosciosi e profondi tracciati dai limitrofi Walknut nello splendido e (in)dimenticato “Graveforests And Their Shadows” del 2007, veicolando la passione per le progressioni ipnotiche ed emozionali a ritroso scatenate dal Count Grishnackh in un contesto prettamente e fieramente autoctono; ironicamente, proprio nell’anno di uscita delle suggestive e arcaiche note di “Fallen”, la band di Kharkiv riprende non solo quei sottili e fini utensili atmosferici, piegati e affilati in soggettive tanto particolari da essere riconosciuti finanche solo ad uno sguardo d’insieme, ma si rivela capace di trasporne l’anima spirituale, meditativa e trasversalmente narrativo-mitologica, fino a donarle un soffio vitale dalla genuinità e dalla potenza tale da renderla sospesa nel tempo, incorruttibile allo scorrere degli eventi e in grado di scuotersi di dosso tutte le rigide implicazioni di un’analitica contestualizzazione storico-politica: le inclinazioni più ariose e dilatate si dispiegano con approcci radicalmente antitetici a quelli di un Atmospheric Black Metal che fra vecchio continente, Nord America ed Australia sta in quel momento divenendo una delle prime declinazioni più propriamente globali e complessamente interconnesse della nera fiamma, e vedono nel proprio territorio natio, tradizionalmente, culturalmente, testardamente ma anche comunicativamente chiuso e ristretto ad un pregiudiziale sguardo esterno ma forse proprio per questo florida culla di sensazioni e visioni incontaminate e primitive, il ben più che sufficiente punto di partenza e di simmetrico arrivo per esprimere il proprio estro in una circolarità che assume i tratti preziosi, ineluttabili e fatali di una cosmogonia etnograficamente condivisa che è millenaria.

La band

Un’introduzione seguita da sei composizioni serrate, monolitiche ma ricche di aspre sfumature e marcate pennellate drammatiche, delineanti un paesaggio dilaniato da furia elementale, ira divina e debolezza umana, compatto e soverchiante alla maniera dei connazionali Hate Forest ma altrettanto vicino alle visioni naturalistiche dello stesso Roman Saenko nel capostipite “Autumn Aurora” dei Drudkh, in un mélange che tuttavia arriva all’orecchio come nuovo e spiccatamente personale: fin dalla prima traccia in cui subentrano gli strumenti elettrici, manifesto artistico della formazione recante l’omonimo titolo, le fredde e taglienti chitarre a valanga vengono frizionate dalla perpetua complicità di un basso che, come argilla bianca cosparsa sulla corteccia secca, rende saldo, organico e vitale il sound in una complementarietà vincente e che gioca su forti contrasti in fatto di bilanciamento. Il suono atipico e vibrante dello scacciapensieri, in altri contesti spesso relegato ad acustico espediente di cornice, permane ad esempio anche terminato l’evocativo preambolo, tornando più volte nel corso dello svolgersi dell’intero platter nell’inedito e riuscitissimo utilizzo che contraddistingue i passaggi più aspri di “Hymn Of The Nature”, accostandosi con le sue note tonde e piene al pregevole operato delle tastiere a cura di Astargh (già secondo chitarrista proprio su “The Voice Of Steel”, commilitone di quel batterista Bairoth che qui, anch’esso aiuto ospite nelle registrazioni, presta invece le sue doti ritmiche alla percussione della versione slava del bodhrán sciamanico): a volte sotterraneo ma di fondamentale importanza per un loro utilizzo cangiante e perfettamente integrato, capace di variare del fine imbastimento melodico che conserva un gusto à la Nokturnal Mortum verso i gelidi rintocchi di natura Ambient nella coda della maestosa “Wyrd, Verdandi, Skuld”, usciti direttamente dalla Norvegia degli anni ’90, fino alle stilettate elettroniche che si depositano come fiocchi di neve sul devastato scenario disvelatosi nella chiosa finale. Oltre un’ora di musica che, a dispetto dell’omogeneità ricercata della proposta, si dispiega con rapidità e naturalezza sconcertanti fra progressioni in continua evoluzione che non scadono mai nel ripetitivo, bensì riescono a mantenere viva la tensione con un’efficacia che ha dell’incredibile per una band la cui alchimia è ufficialmente al suo debutto, grazie ad accurate e mai sconnesse raffinatezze folkloristiche e atmosfere in grado di virare celermente verso acuminati picchi di nerezza, in un continuo crescendo di oscurità che passa dai rallentamenti essenziali della squisita “Blood” all’implacabile incedere del picco d’intensità “The Ritual”.

Il debutto degli Ygg è pertanto un disco che, potenzialmente, segna un prima e un dopo nel Black Metal est-europeo, per la maestria con la quale attinge da una paletta di colori e sonorità distintamente slave trasponendole in un contesto così atmosferico, privo di quell’approccio forzatamente raw ed impoverito che caratterizza una larga fetta delle uscite provenienti da quelle latitudini geografiche, che non si rendono necessarie in quanto forte di uno spirito saldamente radicato nella propria terra, ma coadiuvato da una mentalità moderna e sperimentatrice. Un talento raro e cristallino, forse fin troppo poco riconosciuto alla sua uscita e ancora oggi celato ai più persino dopo un capolavoro sconvolgente e inarrivabile sulle sue coordinate come l’ancor più spirituale, coraggioso ed emozionante “The Last Scald”, uscito nel 2020 dopo quasi dieci anni in cui l’eredità al trono del trio di Kharkiv è rimasta vacante; sperduta ma fortunatamente ritrovata proprio in quel fumoso e desolato paesaggio che fa eco al mesto gracchiare dei corvi, nel finale e necessario compimento di un fato spietato che passa per il filo incrinato di una lancia ancora piantata al suolo, per i vacui vessilli di gloria mutati in drappi strappati al vento come tragiche bandiere insanguinate di dolore, conoscenza e morte.

Lorenzo “Kirves” Dotto

 

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