Goatmoon – “Varjot” (2011)

Artist: Goatmoon
Title: Varjot
Label: Werewolf Records
Year: 2011
Genre: Folk/Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “Storming Through White Light”
2. “Noidan Verestä Männikkö Herää”
3. “Quest For The Goat”
4. “Varjo Valolta Suojelee”
5. “Valley Of Shadows”
6. “Wolven Empress”
7. “Abomination Of Winter”
8. “Echoes Of Eternity”

Elitaria, politicamente scorretta, non conforme; nel corso della sua storia iniziata ormai più di venticinque anni fa con il sangue versato da tre ragazzini nei boschi dell’alta Turingia, la corrente Black Metal in un modo o nell’altro schierata ha adottato vocaboli di grande portata estetica allo scopo di autodefinirsi ed autodeterminarsi con tono solenne, salvo poi dimostrarsi in larghissima parte assai meno audace di quanto tali altisonanti proclami lasciassero immaginare. Tra personalità dallo spessore ideologico di carta velina arrivate all’estrema destra retorica per mera shock tactic e palestrate realtà paramilitari in cui la musica assume un misero ruolo di attività aggregativa metapolitica, pochissimi sono gli ensemble i quali hanno provato la loro sbandierata mancanza di conformità con tratti distintivi quali una visione seriamente avanguardistica come quella dei Peste Noire o una perfezione formale sufficiente a considerare elité gente tipo i Nokturnal Mortum.
Dopotutto è persino facile affrancarsi dal lato più grezzo, rumoristico ed uniformante dell’ampiamente e spesso volontariamente confuso, cosiddetto NSBM quando possiedi la sferzante poetica riversata da Famine sempre nel 2011 in un L’Ordure À L’État Pur”, o sei disposto a maturare così tanto come artista da reputare limitante tutto il corredo propagandistico come fece due anni prima il Knjaz Varggoth di “The Voice Of Steel”; lo è invece molto meno quando il tuo progetto si è fatto punta di diamante della rivendicazione iconografica e testuale senza compromessi, per di più nel contesto di una nazione dal bagaglio storico in tal senso pesantissimo nonché quando, tanto per gradire, ti fai pure chiamare BlackGoat Gravedesecrator.

Il logo della band

Com’è ovvio che sia, la bizzosa indole dell’unico membro fisso si riflette nelle illogiche incongruenze della discografia della sua creatura prediletta. Mentre i tre anni trascorsi nel silenzio pressoché totale hanno permesso ai Goatmoon di passare dal quasi-culto dei Beherit officiato in bomber nero e pantaloni mimetici su “Death Before Dishonour” (o al prestito dell’ugola per i Ride For Revenge dal vivo) all’incendiario Black Metal rinvigorito da richiami folkloristici che anima l’ormai celebre manifesto Finnish Steel Storm”, al contrario le molteplici peripezie musicali e non del quadriennio immediatamente successivo paiono annunciare una marcia indietro verso la precedente ortodossia cacofonica, con la quale accompagnare la crescente radicalizzazione del polistrumentista e la posizione sempre più salda del progetto ai vertici dell’ambiente militante: non ci si fa mancare nulla, tra le prime calate dal vivo in situazioni a dir poco rocambolesche (si ricordi il chiacchierato Carelian Pagan Madness Tour con Absurd, Der Stürmer e i da sempre ambivalentemente sodali Satanic Warmaster, oppure l’incontro ravvicinato con la polizia tedesca accennato nella pubblicazione live “Hard Evidence”) ma anche alcune collaborazioni non certo all’insegna dell’ambiguità quali il delirante split-album con l’entità Power Electronics Xenophobic Ejaculation. Eppure, in mezzo ai feedback e al rimbombare dei tamburi, la mente dietro simili bravate e sbandate continua a coltivare le idee scaturite dal fortunato episodio del 2007 sperimentando già con l’omonimo mini di due anni dopo nuove strade da percorrere, fiera e rapace quanto i gufi notturni scelti come animale totem del Grande Nord.

BlackGoat Gravedesecrator

Non deve essere stato l’incipit a suon di trine ed armonie in acustico a colpire gli ancora sparuti veri cultori del monicker finlandese una volta cominciato “Varjot”, almeno per coloro che si erano esaltati sulla fulminante partenza della precedente hit “Alone”. A stento riconoscibile, se confrontata con la versione embrionale nell’EP a tinte monocromatiche verdi, è invece la scarica elettrica che apre “Storming Through White Light” ad illustrare l’evoluzione a metà tra ritorno al passato e salto nel futuro che ha investito l’operato artistico di BlackGoat Gravedesecrator nel 2011: le sudicie cantine infestate da frequenze lo-fi ai tempi del debutto rimangono un’esperienza ormai bella che chiusa anche per “Varjot”, mentre le pennate confuse e sovrastate dal flauto come era stato nel sophomore record si sciolgono simbolicamente prima in un muscolare riff mutato sulla sesta corda e poi in una strofa da intonare a pieni polmoni, sia che si creda in quel testo sia che banalmente si adori alla follia quella linea melodica semplice e splendidamente appaiata alle corrosive vocals.
I Goatmoon si sono lasciati alle spalle le foreste popolate dai solitari raminghi, e ora diffondono il loro odio dentro pub pieni di hooligan irretiti dalle ritmiche Oi! e dalla produzione tonante, affilata e squillante, nella quale si insinuano ed ottengono giusto risalto sia i contrappunti eteni del rientrante flauto sia l’epico scambio di guitar solos. L’irruenza Punk che usciva da “Kunnia, Armageddon” non viene dunque del tutto cancellata ma se mai qui rivisitata tramite un suono cristallino che ne gonfia i lead di chitarra secondo un approccio quasi da Hard & Heavy ottantiano appesantito, al suo picco di coinvolgimento tanto nella citata opener quanto negli irresistibili stacchi in quattro quarti di “Quest For The Goat”, dove il sing-along è davvero l’unica opzione possibile per chiunque sia realmente disposto ad ascoltare con le orecchie questa band. L’importanza del Black Metal in qualità di vettore della purezza scandinava non viene d’altra parte ignorato grazie a “Noidan Verestä Männikkö Herää”, legata in un doppio filo di tremolo picking al secondo full-length, mentre è il mood folkish lì soltanto accennato a generare la sopraffina sequenza composta dal caracollante tastiera su “Wolven Empress” e dai legni che conducono le danze in “Abomination Of Winter”, preludio alla strepitosa chiusura titolata “Echoes Of Eternity” dove, sulle note di un intreccio chitarristico che dura venti soli secondi ma rimane nel cuore per sempre, vengono infine battezzati i nuovi Goatmoon.

A chi ancora oggi, dopo lo sdoganamento di certe realtà a fronte di una serie di uscite dal valore ormai innegabile, persiste nel berciare sul tenere la politica lontana dalla musica come veto oppure si ostina a catalogarne l’autore quale beota nazionalsocialista apprezzato solamente da altri beoti nazionalsocialisti, “Varjot” continua a distanza di un decennio ad essere la migliore risposta possibile: un disco che rivendica quella rozzezza sì, qualunque sia la vera ragione di chi scrive musica simile, tutta saluti romani e croci celtiche, ma che al contempo si permette di mescolarla direttamente al Folk Metal anziché al Black come era stato fatto dagli antecedenti commilitoni. Da qui in avanti la musica dei Goatmoon diventa perciò un meraviglioso paradosso, un contrasto che proprio in quanto tale risulta incomprensibile e totalmente imparagonabile all’appiattimento artistico radicato nelle frange più ideologizzate; che urla forte e chiaro quanto in fondo sia da sempre e per sempre il conflitto interno, lo scontro di qualsivoglia natura dell’essere il motore primo dell’arte, e rende la praticamente one-man band di Helsinki una tappa obbligatoria qualora si volesse ricapitolare la via finlandese a queste sonorità – politicamente (?) schierate o meno che siano. Lo dimostra l’impatto puramente stilistico che il terzo lavoro in studio ha avuto sulle scelte produttive fatte dalla stessa Werewolf Records, e soprattutto lo dimostrano Sielunvihollinen, White Death (del medesimo Avenger qui impegnato in molteplici ruoli esecutivi) e parecchi gruppi simili tutti sorti subito dopo il 2011, figli illegittimi del medesimo BlackGoat Gravedesecrator che allora mostrò loro la via con “Varjot” e poi li osservò inarrivabile dall’alto di “Voitto Toi Valhalla”, opus magnum di un interprete che a distanza di dieci anni resta ancora unico sotto qualsiasi punto di vista.

Michele “Ordog” Finelli

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