Giugno 2023 – Arkona

 

Rimanere immobili nell’occhio del disastro che si compie: restare, sopportare, spingere contro vento in un oceano di dolore e trarre persino forza e spinta ossimoricamente vitale, nonché creativa se vogliamo, da ciò che precede la fine di tutto è sempre stata per molti versi la cifra ultima, la paradossale raison d’être della musica che ogni dì scandagliamo su queste bizzarre pagine nere. Non è di certo un mistero che la tenacia e la cabarbietà, quando non il più pertinace abbandono che a ben vedere -in un sublime matrimonio degli opposti- così tanto ha con quest’ultime in comune, siano in fondo uno degli aspetti che più contraddistinguono i dischi che maggiormente abbiamo amato e con costanza proposto in questi ultimi dodici anni di permanenza virtuale. Una sorta di resistenza insita alle forze che sconquassano il mondo; quelle sociali, quelle economiche, quelle dogmatiche e banalmente triviali della vita di tutti i giorni – a tutto sembra adattarsi resistendogli, a tutto sembra piegarsi sopravvivendogli, rigettandolo con brama d’alterità aliena ad ogni cosa, questa musica.
E da questo contrasto continuo nasce la magia: quella che porta gli Arkona a cestinare presumibilmente una buona parte di un nuovo album, il primo e abbozzato successore di “Khram” già delineato prima del 2020, nel tentativo di ricostruirlo invece in luce di ciò che stava accadendo dentro e fuori di loro, creando il “Kob'” che -detta senza troppi peli- non ci stancheremo mai di ascoltare. Impossibile forse che con una riuscita simile il nono album in studio dei russi non fosse quindi il disco del mese dell’ultima completamente conclusasi mensilità; anche se va detto che, in quella che pare una splendida congiunzione concettuale serpeggiante in tutto il poker delle proposte odierne, chi lo segue immediato in una ipotetica seconda posizione -ve ne fossero, di posizioni- non manca davvero di nulla al suo confronto. Seguiranno poi altri due album a nomina singola che, probabilmente, ne avrebbero meritata anche qualcuna in più; ma la cosa più importante resta non parlarne bensì ascoltarli e viverli. Farli propri mentre questi dischi a loro modo sempre sensazionali ci parlano di loro, del modo in cui hanno preso vita dai propri autori e soprattutto di noi: di quel che di noi non avremmo mai saputo altrimenti.

 

 

[…] “Kob'” è l’ormai evidente impossibilità di farsi voce con quel linguaggio Folk quasi totalmente abbandonato in estetica ma sempre più forte in spirituale poetica che permette con pochissimi e selezionati tocchi, non privi di uno scheletro di musica popolar-folklorica inestricabilmente radicalizzato, di smembrare ogni suggerimento di un possibile ritorno alla spensieratezza, se mai vi è stata. Nessun agnus dei, qui tollis peccata mundi; ma una prospettiva che, come uno scialle nero, avvolge il tempo senza inizio né fine; che silenziosa attraversa i secoli facendosi moderna. Come una furia pagana inarrestabile che urla nell’oscurità oltre l’orizzonte visibile perforando il cielo di angoscia, amarezza e affanno mentre la terra s’addormenta inzuppata di sangue fresco, fondendosi con l’ultimo tramonto del sole cremisi, inarrestabile alla vista orripilante del più grande e terribile dei mali sulla Terra. Una stregoneria tanto finemente ordita; una maledizione di negatività dalle fattezze perfette, le cui braccia di carne sono quelle del più vero degli inferni, arrestabile solo dall’azione di sé stesso: l’uomo […].”

Quella tormenta acuminata di bagliori e ombre con cui ci avevano lasciato gli Arkona di “Khram” lascia dietro di sé un cumulo di rovine e cenere: i resti di un mondo una volta ricco di chiaroscuri ma ormai violentato e fatto a brandelli insieme all’intimismo dai risvolti magici che lo pervadeva, in favore di un’impenetrabile tenebra che sa di tragedia ineluttabile, odore di sangue rappreso e viscerale sciamanesimo. Il graduale ma pressoché completo allontanamento dal folklore musicale nel senso più stretto che li ha portati ad ammantarsi di sfumature ancor più uniche e minacciose è ormai delineato nelle forme drammatiche e svuotanti di uno stile che in “Kob’” è straordinario; l’eclettismo subentrato da “Yav” e presto affilatosi mortalmente è ormai scuro e maledetto, strumento in grado di cesellare e dipingere canzoni che -come la monumentale “Ydi” e la perla progressiva “Mor”– sono tutti microcosmi dotati di una potenza e di una varietà impensabile per la quasi totalità delle formazione estreme attualmente attive. Gli Arkona dimostrano quindi ancora una volta (e forse come mai prima d’ora) la grandiosa visione artistica a cui sono giunti in questa seconda maturità, che li annovera senza possibilità di smentita fra quelle band originariamente appartenennti al mondo Pagan e ormai lanciate verso possibilità e ambizioni ben al di là di qualsiasi paletto e restrizione.”

Una pandemia e una guerra dopo l’ultimo disco ritornano i russi Arkona proseguendo le loro esplorazioni dallo stile del precedente (ed eccellente) “Khram”, un lavoro già di per sè decisamente cupo e oscuro che getta le base per il qui presente “Kob'”: a sua volta album che denota un’ulteriore estremizzazione di queste influenze molto vicine al Black Metal più atmosferico e soltanto a tratti melodico come in passato, ma più disarmonico e distonico. Le sfaccettature pagano-folkloristiche sono comunque sempre presenti nelle lunghe composizioni degli Arkona manifestandosi oggi anche attraverso la dosata ma importante componente elettronica oppure tramite i testi, questi ultimi particolarmente aggressivi e stracolmi di rabbia. L’assoluto pregio di un disco similmente complesso è che le canzoni, soprattutto se prese singolarmente, sono di altissima qualità; si potrebbe muovere come unico appunto che, forse, nel contesto di un album intero, queste tendono a perdere un po’ il proprio carattere singolare dando sfuggitamente l’impressione che manchi un filo conduttore interno – o meglio, una vera idea di progressione che vada a caratterizzare, rispetto al passato, ogni singola traccia nell’immediato. Forse, in ciò, esageratamente monolitico e meno preferibile; ma all’ascoltatore la sentenza.”

“Il fantastico paradosso incarnato degli Arkona, ovvero il saper giungere a composizioni a dir poco titaniche mantenendo tuttavia una certa quadratezza nelle singole sezioni così come nella strumentazione utilizzata, continua ad affinarsi pure nell’attuale 2023 compattando ulteriormente il già stupendo lavoro svolto sui predecessori “Yav” e “Khram”, limandone gli angoli ancora legati all’estetica Folk Metal in voga nella scorsa decade in modo da lasciare sul tavolo operatorio soltanto la tenebrosa, autentica atmosfera degli antichi culti slavi. Tra il fascino contrastante degli inserti elettronici, la solita agilità su manico e spartito del demiurgo Sergey ed una Masha vocalmente oramai al di fuori di qualunque concezione umana, l’ora di sangue rosso e magia nera racchiusa in “Kob’” vola via come niente fosse garantendo però il solito sentito trasporto immancabile negli ultimi album della tribù russa, assicurato come da copione non da trucchetti da principianti quali canzonette in levare buone giusto per i festival estivi oppure arrangiamenti inutilmente cervellotici dietro cui perdere la bussola; bensì dalla concreta carnalità sonora e concettuale di una proposta che rimane (e rimarrà) senza eguali.”

I progetti Gris e Sombres Forêts, nella loro incarnazione combinata a tre teste che prende il nome Miserere Luminis coniato nell’ormai lontano 2009: un ritorno del trio Annatar, Icare e Neptune era inaspettato, ma per certi versi il suono del nuovo “Ordalie” (Sepulchral Productions) lo è ancora di più e dona livelli che da molto, troppo tempo faticavano ad essere raggiunti nel sempre troppo osannato Québec.

Se i Katatonia di “Night Is The New Day” e i The Angelic Process di “Weighing Souls With Sand” potessero avere un sorprendente figlio creativamente legato al linguaggio espressivo del Black Metal, quest’ultimo suonerebbe più o meno come “Ordalie”: un supplizio non privo di luminosità tale e quale a quella di una fiammata prepotente che viene da dentro, da cui fuggire in qualche modo o restarne polverizzati; una collaborazione tra menti devote alle forme più atmosferiche e dolorose del genere che prende tutto il meglio degli anagraficamente gemellari “À L’âme Enflammée, L’äme Constellée…” e “La Mort Du Soleil” sommandone le parti e limando dove a loro modo eccedevano, reinventandolo ed allontanandolo al contempo da quell’omonimo “Miserere Luminis” del 2009 che sembrava essere un one-off di sperimentazione a sei mani tra Gris e Sombres Forêts. Tra pesantezza Post-Black Metal e un’amara melodicità tendente verso il basso, la preziosità di questi quattro (e più) nuovi brani lo dimostra benissimo: i Miserere Luminis sono ormai un progetto vero e proprio, non è chiaro se sostitutivo delle band di cui è figlio, ma in qualunque caso nuovo, attuale, e decisamente non minore.”

Sinistro e suadente come l’abbraccio della notte, vitale e minaccioso come le fiamme che v’irrompono: per il piglio astratto e gli scenari svolazzanti di “À L’Âme Enflammée, L’Äme Constellée…” passa il sentiero dei Miserere Luminis nel 2023, che, sguarnendo di rumorismo le squadrature Post- del primo e omonimo full-length ma preservandone il cuore, gonfiano di una produzione più calda i cinque passaggi della nuova opera. “Ordalie” si inserisce infatti nel filone atmosferico del Canada più elegante e dotato di quell’unica delicatezza e profondità d’animo forgiata e preservata dagli stessi individui che si celano dietro al progetto, al contempo facendolo risorgere, rinvigorendolo, e rinnovando un linguaggio ormai distante temporalmente una decade: dettagli ritmici di enorme classe, una coralità da musica da camera votata sempre e comunque al dolore ed un incedere tratteggiato di arabeschi, lingue di fuoco, fascino misterico, intrecci e riverberi ai quali è impossibile non volgere lo sguardo trasognati, rimanendone inevitabilmente imbrigliati.”

Senza ombra di dubbio e a gran ragione gli oggi Miserere Luminis (e i Gris) sono tra le formazioni di culto nel sottobosco del Black Metal atmosferico, in particolare nella forma in cui sonorità delicate, quasi candide benché decadenti, vanno a mischiarsi ad una componente estrema che gioca molto su emozioni prossime alla genuinità di dolore e disperazione. Nonostante siano passati non meno di quattordici anni dall’omonimo debutto (ancora compreso come un visionario album collaborativo), il nuovo “Ordalie” è un disco incredibile che già dai primissimi secondi avvolge nel suo insieme di coerentissimi mood e per quarantacinque minuti permette di viaggiare nell’accogliente desolazione che i Miserere Luminis puntano a trasmettere attraverso le proprie composizioni. Si tratta quasi di un déjà-vu risalente a qualche mese fa quando parlavo degli Austere di “Corrosion Of Hearts”: ovvero che nonostante gli anni di inattività il livello artistico di queste band vive su un altro pianeta rispetto a tutto ciò che abbiamo ascoltato in tempi recenti su similari coordinate. Solitamente non amo glorificare affatto i cosiddetti dinosauri del passato in musica, anche quando estinti di recente – però posso dire con la massima sincerità che è una vera fortuna avere avuto l’onore di ascoltare un altro disco marchiato Miserere Luminis.”

La scia di disarmonia di questa musica all’orrida visione del suo circostante a cui resistere passa anche attraverso i vicini di casa invece tutti canadesi Thantifaxath: il sensazionale e misteriosissimo trio giunto in giugno al suo secondo full-length doveva replicare la sorprendente bontà del celebrato “Sacred White Noise”. Il nuovo “Hive Mind Narcosis” lo patrocina sempre Dark Descent Records – ci sono riusciti?

Le estreme conseguenze dell’EP transitorio “Void Masquerading As Matter” sono qui alla luce di un sole accecante e ardente; quello di un “Hive Mind Narcosis” che suona tremendamente arido quanto strabordante di scelte estrose in incastri e registri sciorinati: un assottigliamento del layering che tende da un lato a penalizzare quella tensione drammatica ed elettrostatica su cui reggeva il raffinato sebbene complesso debutto, ma che insegue in sezioni ipnotiche dai costanti cambi di tempo e ossessivamente ricche di geometriche variazioni armoniche una nuova ed interessante ragione d’essere. Viene dunque progressivamente meno quel tanto particolare ordine nel caos a favore di una visione ancora più intransigente e sui generis, dalla digestione non di certo agevole: chi grida al miracolo ad un primo ascolto lo fa presumibilmente con devozione incondizionata, ma chi è in cerca di una chiave per aprire le strette maglie del secondo full-length dei Thantifaxath potrebbe ritrovarla fra gli agghiaccianti crescendo di “Burning Kingdom Of Now” e “Surgical Utopian Love”, nell’onirica ed estraniante seconda parte di disco, o in quello spirito disgregante e decadente ma luminoso e dall’indubbio fascino che pervade silente le partiture dell’opera.”

E gli ultimi, in un certo qual senso, saranno i primi: perché nel loro genere, togliendo di mezzo ogni distorsione al calar delle tenebre, il Neo-Folk unico al mondo dei finlandesi Tenhi non ha rivali, paragoni né precedenti. “Valkama” segue l’ormai quasi leggendario “Saivo” di dodici lunghissimi anni in cui è successo di tutto, dentro e fuori alla band. Che quindi, come per gli Arkona, il disco sia stato completamente scartato e quasi totalmente riscritto non sorprende…

Conservare e rilasciare qualsiasi cosa fosse stata scritta nelle dirette vicinanze di “Saivo” sarebbe stato falso, un tradimento dell’etica intoccabile, ultraterrena eppure radicata nell’esistenza delle tre persone che, prima ancora che musicisti, compongono i Tenhi; uno smacco ad una discografia che nel suo filone è da ritenersi più unica che rara. E difatti, volendo volutamente giocare di retorica, “Valkama” non è in questo dissimile a “Kob'” degli Arkona: tanto quanto il disco dei russi già presentato, quello dei finlandesi prende a piene mani dal suo predecessore in termini di soundscape originario, cinematografico ed intimistico, notturno e crepuscolare, ma passandolo attraverso la lente del trauma per andare emotivamente a parare in nuovi reami in cui tutto si fonde e si rovescia non dissimilmente agli indizi chiari del passato disseminati nella pregevole copertina, dove tutti convergono – coesistendo, ma assumendo tutto un nuovo valore simbolistico. Mezzi moderni per esprimere emozioni antiche come il tempo; e mezzi noti per esprimere nuove sensazioni e un nuovo viaggio – non è in fondo questa, riassunta al minimo, l’epitome del Neo-Folk tout-court?

Alcuni altri nomi che hanno pubblicato in giugno meritano ad ogni modo, con i loro nuovi lavori, la vostra attenzione per diversi motivi: i nostri amati Duivel, stregati autori del roboante debutto “Tirades Uit De Hel” nel 2020, tornano a dissacrare ogni concetto di sacro e rispettato con il nuovo pandemoniaco EP “Heiligschennis” (definizione di breve ma intenso firmata in CD per Ván Records, ascoltabile qui) – provate a resistere anche solo a “Onanerend Voor De Zwaveltroon”; sempre restando in tema di mini-album da volti noti a qui apprezzati, i Mosaic dalla loro sempre più amata antica Turingia hanno rilasciato un compagno completamente Neo-Folk al bellissimo “Heimatspuk” dello scorso anno, intitolandolo “Heimatweisen”, mentre il graffiante, scabro e popolare, locale mondo musical-lirico degli Anguana si (ri)presenta al mondo con “Suman”, riportando in pista alcuni membri del Venetic Black Metal Front di cui sono parte anche gli adorati parenti Brünndl (dai quali aspettiamo con ancor più trepidazione segni di vita, dal momento che sembrano nuovamente in gioco da qualche tempo e in procinto di svelare novità seguenti il sempreverde disco omonimo del 2016…). Infine due full-length che non ce l’hanno fatta a finire tra le maggiori preferenze: None dall’Oregon, con l’interessante “Inevitable” (fuori per Hypnotic Dirge Records come freddo omaggio ai più tristoni e lentoni tra voi), e i cinesi Vengeful Spectre con il “殞煞 二” (tradotto: “Vengeful Spectre II”) gentilmente regalato dalla connazionale Pest Productions a chi il suo Metal estremo lo vuole grosso, nero ma tendente al Death e abbracciante il folklore arcaico dell’estremo oriente, non senza una buona dose di cinematograficità.
Perché resistere al diverso con l’altrettanta diversità della propria unicità è in fondo quanto di meglio possiamo chiedere alle infinite possibilità poetiche di questa tremenda musica che tanto ci fa sentire a casa.

 

Matteo “Theo” Damiani

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