Austere – “Corrosion Of Hearts” (2023)

Artist: Austere
Title: Corrosion Of Hearts
Label: Prophecy Productions
Year: 2023
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Australia

Tracklist:
1. “Sullen”
2. “A Ravenous Oblivion”
3. “The Poisoned Core”
4. “Pale”

Ci fu un tempo in cui il cammino dell’uomo era condiscentemente illuminato dalle stelle. Un tempo in cui, guidato da questi freddi e austeri benché luminosissimi astri lontani, l’essere umano trovava certezza in quell’insondabile lassù, in quell’indescrivibile sovrumano che lo circonda e sovrasta, ed in quella distanza che sembrava attenderlo oltre la sua incompleta finitezza dando un senso e persino una speranza in un qualcosa che lo attendesse senza soluzione di trasparenza al di là; che potesse insomma conservare attraverso e nonostante l’inevitabile, evidente decadimento, tutti i suoi sogni – tutti i suoi ricordi, tutte le sue memorie più intime, i veri tesori custoditi per una vita intera nella sua mente.
Ma poi questo ingrato uomo ha compiuto il più insano dei gesti: creare le sue stelle, creando come un dio scellerato e cercando con la superbia dell’infante di gareggiare con esse in luminosità, umiliandole persino ed eclissandole con la luce delle proprie – delle sue città, dell’industria attiva giorno e notte come fornaci di malessere ed inquietudine un tanto al chilo; dell’intrattenimento e delle sue luride celebrità, nuovi fari e nuove guide in costante deprivazione emotiva di quella vita che resta tuttavia, sempre e per sempre nonché in barba ad ogni tentativo d’immortalità, un sottile filo a cui ogni esperienza resta appesa corrodendolo, assottigliandolo inesorabilmente nel mero gesto di esistere.

Il logo della band

Il cuore, con essa, si corrode: diviene poroso dapprima, in seguito ai primi inaspettati colpi infertigli che ne polverizzano una membrana esterna mai abbastanza dura, assorbendo quindi all’inverosimile estremo come una spugna malridotta, lacera -spesso ben oltre la sua capacità contenitiva- e si sbriciola poi una volta completamente eroso, tarlato e guastato sotto al peso tirannico delle emozioni susseguitesi dal primo entusiasta all’ultimo stanco battito. Ognuno di questi rintocchi biologici, ognuno di questi granelli di sabbia dentro le vene del tempo dedicatoci nell’attimo che è il gioco a scacchi di morte e vita, rimasto inguaribilmente macchiato ormai dalla fatica di paragonarsi a quelle artificiali stelle umane senza più alcun conforto di un aldilà agnostico o religioso che sia. Di una retribuzione o di un secondo ed ulteriore passaggio sconosciuto in quella vita che, del resto, proprio in base a quanto piena, vuota, ardua o leggera si presenti come conto da pagare alla restituzione di un favore di natura diabolica, può durare un solo secondo quanto i quattordici anni che separano dall’ultimo inedito segno di vita a nome Austere: quel “To Lay Like Old Ashes” (Eisenwald Tonschmiede) del 2009 che, fedele al suo titolo -oltre che alla sua lunga e slabbrata conclusione-, ha criogenizzato l’operato del duo australiano mostrandolo della stessa sostanza diafana di cui sono fatti sogni e ceneri in attesa di un vento che le porti con sé, altrove, nuovamente distanti per poter parlare alle orecchie di chi avesse disperato bisogno di loro.
Di acqua a cancellare ottimismi e aspettative ne sono in sostanza passate sotto i proverbiali ponti: da uno scioglimento mai troppo elaborato, come un lutto, una lunghissima pausa di riflessione e ricalcolo se vogliamo, ora che qualche conto può esser fatto, approdando al porto di Prophecy Productions e passando innanzitutto per l’operato di Tim Yatras -il nostro Sorrowin primis con i suoi eccezionali Germ (esercizio e presenza non così circostanziale all’interno dell’attuale discorso Austere) e con i due più leggeri album a nome Autumn’s Dawn; ma soprattutto con quel moderno caposaldo di perdizione ch’è “Torn Beyond Reason”, codificante un intero linguaggio non solo per lo stile insito nella composizione dei Woods Of Desolation, ma forse proprio e particolarmente nella performance vocale e percussionistica del Timothy James.

La band

In confronto alla co-creazione di un simile classico moderno, il compare Mitchell Keepin potrebbe sembrare, ad una corsiva scorsa al curriculum vitæ post-2010, non aver combinato granché se eccezione viene fatta per le nuove e funerarie lentezze soffocanti esplorate nei reami solitari degli Ill Omen e dei Funeral Mourning (peraltro entrambi capitoli anch’essi chiusi dal 2016 dei rispettivi “Ae.Thy.Rift” ed “Inertia Of Dissonance”). Eppure, proprio nell’operato dei due seppelliti progetti più tendenti alle variegate sensibilità Doom si deve, in un certo senso, un’altra metà -e non così meno importante rispetto alle divagazioni di Yatras– del nuovo bagaglio che porta al ritorno in pista degli Austere.
Le esplosioni di vento, memento d’omnia fert aetas, che aprono “Corrosion Of Hearts” potranno anche non sembrare infatti così atipiche se preso in considerazione il solo bagaglio lirico e concettuale -ma pure estetico e poetico- già impiegato dalla coppia di musicisti da “Withering Illusions And Desolation” fino allo stop, ma nascondono nella loro malcelata violenza un afflato che è al contempo rimasto cristallizzato nel tempo (come, vale a dire, se da quella conclusione in “Coma II” non fosse passato neanche un giorno intero) e l’inizio di un nuovo approccio che è invece molto più ricco, pieno, quasi ingombrante pur nella sua estrema volatilità stilistica: un disco fin dal volant acustico à la tramonto degli dèi nella commovente “Sullen” (in cui subito, in un ritornello maturo come non mai, si esplorano con pienezza le clean-vocals solo abbozzate in precedenza) fatto di sogni che strangolano e di possibilità che si sgretolano sotto il peso dell’incertezza e del dubbio. Una restitutio in integrum, che riprende tutto il potere magnetico dei migliori risultati del secondo album creandone un terzo che non vive assolutamente sulle sue spalle ma lo supera in tutto e per tutto, senza reliquato di nostalgie adolescenziali ma con una visione che si concretizza nella cinematica composizione splendente di “A Ravenous Oblivion” (il miglior brano Austere di sempre, dove la voce taglia senza alcun bisogno di triti stratagemmi Depressive), così come nella concretissima lentezza ipnotica della tela “The Poisoned Core” (dove invece le anzidette prove di Desolate alle prese coi bpm più sparuti iniziano a fare, come anticipato, una differenza che sa splendidamente di Nasheim e “Solens Vemod”) mostrando una freschezza di approccio che tanto ricorda le migliori esplorazioni e riletture dei Nyktalgia (o di un “Dying Ember”, per restare nell’alveo squisitamente proprio degli strumentisti coinvolti) quanto impossibile è da scovare in qualunque similare album degli ultimi tempi.
Vi è del resto in “Corrosion Of Hearts” una sorta di maturità intrinseca, che solitamente uccide la volontà emotiva nonché veicolare di emotività in opere simili di autori per intenzioni paragonabili, che dunque lascia perplessi e senza possibilità di replica: sicuramente l’ambizione sperimentale ed eclettica dei Germ ha lasciato la sua impronta nel ricalcolo delle possibilità degli Austere alle prese con nuovo materiale (tanto che un quarto album dei due, mentre il novello terzo viene dato alle stampe e avidamente consumato dopo quasi tre lustri di siccità, è già in finalizzazione di scrittura); eppure questa viene veicolata nella sua forma più pura e in un certo senso ridotta, naturalmente scavata e propensa a far male, tenendo tutto il talento di Yatras mostrato in miraggi speculari come “Breathe In The Sulphur / A Light Meteor Shower” (da “Wish”, 2012) o “Butterfly” (“Grief”, 2013) non solo in quel batterismo tanto dinamico, sofisticato e sensibile, non soltanto nel modo in cui vengono usate le tastiere lungo il disco (e in maniera speciale nella conclusione “Pale”), e nemmeno tanto nel cantato così variegato e pieno di possibilità – ma nella grandiosa somma delle sue immense parti.
Quella dell’agrodolce incedere di “A Ravenous Oblivion”, dell’urlo bansheesco e inaspettato che a metà spacca l’opener come un’anima, dell’ultimo sussurro straziato in “A Poisoned Core” e dei lontani canti puliti intrecciati ai lead pesanti come piombo della conclusione è insomma la nostalgia bruciante a cui non è possibile dare volto né nome: un desiderio che terrorizza al contempo perché con la sua tendenza protesa all’oltre, all’ulteriore passo verso qualcosa d’inafferrabile smaterializza tutto il concetto stesso di esistenza, di bagaglio personale intrappolato in sogni scritti e diretti da un’orchestra della paura, severa e fredda, dopo la cui ultima nota cala un sipario silenzioso e senza vita, solenne e arrendevole, forse miserabile ma con tutta l’eleganza di un cuore che si corrode: di quel grandioso, teatrale tendaggio fatto della cenere di utopie che, drappeggiate di una disperazione non priva di arida rimembranza, come stelle luminose guarda in basso e cade – come pietra su acque color smeraldo, affondando nelle profondità dell’eterno sconosciuto.

Perché gli Austere, oggi vero molto più di ieri, con il loro Black Metal atmosferico e ed estremamente voluminoso, esteticamente scarno eppure così pieno di lancinanti frequenze emotive, incarnano senza l’ausilio di carne ed incanalano davvero in musica, senza la necessità di una spiegazione, tutta la sublime disperazione dell’esserci pur non essendoci – l’impossibilità di esserci nonostante innegabilmente ed inspiegabilmente si esista. Come un cuore che si logora e perde sostanza per riacquisirla in una nuvola di grigi uccelli migratori già puntanti la rotta opposta, approccianti la meravigliosa tensione verso quel non luogo nella cui direzione siamo tutti con paura voltati. Là, laddove la vista non arriva più. Là, dove lo sguardo non può posarsi, luogo in cui i sensi perdono la loro supremazia nella sfera sensibile di qualunque possibile conoscenza che resta ancora e fondamentalmente umana. Là: verso ed oltre il grande abbandono, verso il più immenso oblio e sui passi del profondo, sconosciuto ed abissale ignoto.

Matteo “Theo” Damiani

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