Gehenna – “Malice (Our Third Spell)” (1996)

Artist: Gehenna
Title: Malice (Our Third Spell)
Label: Cacophonous Records
Year: 1996
Genre: Symphonic Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “She Who Loves The Flames”
2. “Made To Suffer”
3. “Touched And Left For Dead”
4. “Bleeding The Blue Flame”
5. “Manifestation”
6. “Ad Arma Ad Arma”
7. “The Pentagram”
8. “Malice”
9. “The Word Became Flesh”
10. “Before The Seventh Moon”

Nella masnada di corpi celesti scaturiti dal big bang deflagrato nei cieli nordeuropei ad inizio anni novanta, nel tempo la maggior parte è riuscita bene o male a dosare la crescente, fisiologica popolarità in maniera omogenea tra le varie entità afferenti al sottogenere di riferimento. Questo, almeno, può esser considerato generalmente vero sino all’avvento di internet come megafono del chiacchiericcio derivato, ad esempio, dalle arcinote storie di sangue e fuoco le quali hanno decretato il dominio incontrastato di Mayhem, Burzum ed Emperor su act di genio pari o comunque limitrofo quali Hades o Kvist. Eccezione scontata, sebbene necessaria alla regola, è d’altro canto il dibattuto filone sinfonico dove, per una miriade di differenti ragioni non soltanto di natura musicale, si è imposto fin da subito il duopolio tra Dimmu Borgir e Cradle Of Filth, ancora oggi il punto di riferimento in alto tanto per chi perse la testa dietro quelle sonorità rinfrescanti quanto per chi ha finito col detestare la corsa all’eccesso barocco in cui si è ridotto l’ambiente ad inizio del nuovo millennio.
Ebbene, nessuno di quel giro ha forse sofferto i limiti di questa polarizzazione mediatica più dei norvegesi Gehenna, protagonisti in soli tre anni di un mutamento stilistico che in qualunque altro periodo storico li avrebbe consegnati al comunque affollato pantheon delle glorie norrene ma che, in realtà, finì proprio con il limitarli ad essere considerati una valida aggiunta o alternativa da ripassare di tanto in tanto rispetto alle meraviglie partorite dai due summenzionati juggernaut campioni di incassi, qualsiasi incarnazione i musicisti di Stavanger decidessero di adottare.

Il logo della band

Dall’austera copertina medievale ed equestre del primo EP alle sue partiture per lo più rilassate mantenute poi nel secondo parto, il primo su full-length, a distanza di anni è difficile non paragonare i grandiosi “First Spell” e “Seen Through The Veils Of Darkness” ai corrispettivi “For All Tid” e Stormblåst”, dimenticandosi così in retrospettiva dell’annetto di ritardo accumulato in entrambi i casi da Shagrath e Silenoz come dell’indiscutibile inferiorità del loro esordio. Ma proprio quando il quintetto del Rogaland decide di dare una svolta alla sua identità, alzando il tiro con un album dalle composizioni maggiormente variegate ed in grado di appellarsi un po’ a chiunque abbia un debole per l’oscurità espressa dalle sette note amplificate e distorte, ecco allora che il momento per una simile scelta non potrebbe essere peggiore: “Malice”, terzo incantesimo della band nonché affinamento di scrittura che qui non significa affatto rinuncia all’atmosfera, esce a nemmeno un mese di distanza proprio da quel Dusk… And Her Embrace” degli ex-compagni di label, kolossal di produzione Music For Nations che, talmente totalizzante nel suo vincente binomio sonoro ed estetico, avrebbe cambiato completamente le regole del gioco nonché fatto passare sotto silenzio (e questo pur senza nemmeno ricordare troppo) il nuovo parto di Sanrabb e compari, i quali vedendo ancora una volta i loro sforzi bruciati dal corso degli eventi risponderanno, con suprema ironia della sorte, dando alla luce “Adimiron Black”; a sua volta preludio, insieme al mini “Satanic Art” dei Dødheimsgard, alla stagione di fuliggine e ferro battuto, organismi sintetici e depravazione urbana, che avrebbero fatto la fortuna artistica di una certa Moonfog Productions.

La band

Opera dalla versatilità limitata dall’impegnativo titolo integrale scelto, “Malice” riesce ad essere perfettamente coerente sia quando interpretato come seguito di “Seen Through The Veils Of Darkness” sia quando letto come anticipazione di “Adimiron Black”. Certo vengono mantenute in tutti i pezzi le keyboards di Sarcana, compositrice di primaria importanza qui come nelle prove precedenti, ma il suo strumento non rappresenta più l’attrazione principale ed al contrario vengono portati al suo stesso piano i cordofoni distorti, comparto in cui avviene la vera innovazione rappresentata dal full-length: se fino ad ora i Gehenna avevano giocato sullo stesso campo dei ben più famosi compagni di etichetta Dimmu Borgir, allestendo un tappeto di frequenze squisitamente ronzanti sul quale far scorrazzare le tastiere, adesso i riff godono di pari importanza rispetto ad esse e mettono in chiaro come la svolta in atto di lì ad un biennio fosse, pur magari con minore nettezza, ampiamente pronosticabile. Il solido guitar work si interseca alle linee dei tasti bianco-neri e spinge la dinamica a livelli inusitati per la band, sfociante in scambi e duetti che sono lampi di eleganza tipo il concitato refrain dal sapore quasi orientale dell’iniziale “She Who Loves The Flame” oppure, a parecchi bpm di meno, le melodie che rendono “Touched And Left For Dead” una piccola gemma in bilico tra la malinconica potenza espressiva dei Summoning e le visioni astrali degli Arcturus; e proprio i connazionali appena usciti con “Aspera Hiems Symfonia” sembrano fare sovente capolino dalle successive “Bleeding The Blue Flame” e “Manifestation”, divagazioni a zonzo tra le stelle di Norvegia che ne restituiscono il fascino notturno magnificato da Garm e Sverd, dal regno concettuale di Odium e Limbonic Art, e così ben ibridato con la rinnovata concretezza esecutiva di Dolgar e Sanrabb.
Ma mentre queste caratteristiche pongono “Malice” in diretta continuità rispetto al passato, i futuri Gehenna emergono prepotenti non soltanto mediante le sfuriate in onore allo zeitgeist Thrash scandinavo che fanno da cornice alla camaleontica “The Word Became Flesh”, ma soprattutto dal caliginoso, totalmente inaspettato cuore di tenebra dei quattordici minuti a nome “Ad Arma Ad Arma”. Ciò che comincia sulla falsariga dei precedenti capitoli si evolve invece poco a poco secondo un songwriting graduale di rara finezza, nel quale prima i fischi cibernetici del synth e poi l’asettico ticchettio della doppia cassa anticipano il ritorno del malcapitato ascoltatore nella stessa fabbrica di macchine ribelli da dove erano fuggiti, ormai resi folli da tutto il male che l’industrializzato 21st century schizoid man è capace di fare a sé stesso, i Dødheimsgard alla fine del loro Monumental Possession”: entrambe le formazioni affronteranno il trauma solamente due anni dopo, e lo faranno all’ombra del nuovo stendardo per eccellenza del Black Metal norvegese più nero di sempre alla fine del millennio.

La gloria di una scena la fanno del resto le seconde linee. Non vi è alcuna retorica in un simile pensiero, bensì la consapevolezza della necessità di quei manovali le cui pubblicazioni, in numero come in bontà artistica, compongano un mare magnum in grado di elevare i capolavori firmati dai grandi monicker di primo piano consacrando la loro influenza e al contempo dialogandovi, rispondendovi ed espandendone le possibilità. Quella vista in Norvegia è stata appunto questo, e per quanto oggi sia facile sbandierare il proprio amore verso realtà allora confinate al ruolo di gregari dei vari Satyricon ed Immortal grazie all’eterna memoria della rete, occorre sempre tenere attiva la curiosità onde evitare che anche il sottobosco delle cosiddette cult band venga contagiato dal cieco conformismo intellettivo che ha finito con l’ammantare troppi discorsi spesi attorno alle discografie delle celebri icone del genere. Il rischio, servisse ricordarlo, è quello di permettere la stessa situazione capitata a “Malice”, clamoroso platter sul quale gli stessi Gehenna parevano nutrire grosse aspettative ma che si perse nel mucchio senza essere riconosciuto per quello che meritava. L’aria di operazione fallita venne rafforzata dalla pesantissima defezione di tre quinti di line-up, con Sarcana soltanto ospite nel seguente full-length ed il drummer Dirge Rep visto di lì a poco negli Enslaved; e a venticinque anni di distanza il terzo incantesimo non si è ancora levato di dosso l’infame marchio di album minore, salvato dal totale dimenticatoio solo dal controverso cambio di pelle che, agli occhi di molti, lo ha fatto rimanere nella storia come l’ultimo atto dei veri Gehenna. Persino i tanto amati e setacciati nineties hanno dei tesori ancora da disseppellire e “Malice”, il lavoro meno noto tra i più amati del gruppo meno noto tra i più amati, si presta benissimo tra le altre cose a questo nobile scopo.

Michele “Ordog” Finelli

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