Dimmu Borgir – “Stormblåst” (1996)

Artist: Dimmu Borgir
Title: Stormblåst
Label: Cacophonous Records
Year: 1996
Genre: Symphonic Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Alt Lys Er Svunnet Hen”
2. “Broderskapets Ring”
3. “Når Sjelen Hentes Til Helvete”
4. “Sorgens Kammer”
5. “Da Den Kristne Satte Livet Til”
6. “Stormblåst”
7. “Antikrist”
8. “Dødsferd”
9. “Vinder Fra En Ensom Grav”
10. “Guds Fortapelse – Åpenbaring Av Dommedag”

Di tutte le categorie ideali nelle quali sarebbe possibile, anche se parecchio semplicistico, ingiustamente rinchiudere una qualsiasi manifestazione artistica, quell’infame etichetta di lavoro di transizione appare forse come la più deleteria che vi si possa affibbiare: per quanto estremo possa infatti suonare come esempio limite, a che pro si potrebbe riascoltare un “Blood Fire Death” quando si può senza condizionali rimestare nell’esponenziale ferocia di “The Return……”, oppure esaltarsi con l’incomparabile pathos di “Twilight Of The Gods”? In una carriera densa di capolavori come quella della ben nota leggenda svedese, un album piazzato a metà tra due percorsi musicali distinti rischia in effetti, nonostante una certa ed imprescindibile rilevanza biografica, di essere messo da parte a causa della maggiore profondità con cui i vari punti di forza convergenti sono proposti nei dischi rispettivamente ed immediatamente precedenti e successivi; quando invece una band passa da un debutto grezzo ed abbastanza rudimentale ad una trilogia dove la pomposità viene nel bene e nel male innalzata a grottesca cifra autoriale, risulta allora forse più semplice riservare un posto d’onore alla sempre bistrattata aura mediocritas di quell’opera mediana capace tuttavia di catturare il tocco primitivo degli esordi adeguatamente miscelato alle embrionali evoluzioni future, nonché a dare risposta alla domanda retorica in apertura.

Il logo della band

Peccato però che “Stormblåst” abbia subìto un destino ben diverso da quanto meritato, fatto di pochissime ristampe se considerato il suo autentico valore intrinseco ed estrinseco, e di un assurdo remake sostitutivo datato 2005: se non degradante come altre loro uscite moderne, dolorosamente innocuo come del resto sono i Dimmu Borgir dell’ultimo ventennio scarso – e questo, senza nemmeno dover contare l’evidente spirito farsesco alla base di simili operazioni. Non si può del resto ignorare il motivo dietro tali scelte, né di conseguenza glissare sull’indissolubile legame tra il secondo full-length del gruppo uscito ad inizio 1996 e la discussa figura di Stian Aarstad, appena entrato in pianta stabile nella line-up ed autore proprio in questa sede di alcuni plagi conclamati dei quali il resto della formazione si dichiarò totalmente all’oscuro anni più tardi: si voglia o meno credere ad una tale versione di comodo, resta comunque adamantino il fatto che, proprio in un’epoca come quella odierna, così segnata in territorio Black Metal da inaspettate quando non persino deleterie pretese di supposta apertura mentale nonché dalla sempre crescente esposizione del settore (il più delle volte, nel suo esclusivo comparto iconografico) alla mercé di agenti esterni col benestare di sedicenti fan progressisti, la parabola dell’atipico tastierista col cappello fregato a Slash potrebbe tornare utile se tenuta a mente ogni volta che si cantano aprioristicamente le lodi di simili intrusioni in un genere che dovrebbe così inglobare tendenze estranee ingozzandosene, anziché essere nobilitato nel profondo da esse.
Dal suo look improponibile nelle clamorose photo-session successive a quella riservata al disco, alla sua permanenza pressoché momentanea nel panorama nero del Metal estremo, non serve poi molta perspicacia per accorgersi infatti di come l’interesse di un giovane Aarstad per la musica cacofonica fosse con probabilità dettato dal successo del genere in costante aumento entro i confini norvegesi e scandinavi, piuttosto che da un sincero amore per le sue sonorità; eppure, per circostanze che paiono avere luogo soltanto nell’indefinibile, volubile e fortunatamente strambo mondo dell’arte, l’ormai venticinquenne secondogenito di Silenoz, Shagrath e compagni rimane comunque lo zenit indiscusso nel suo tempo dell’arcinoto ensemble con sede a Oslo, per assurdo anche -se non soprattutto- grazie alle tastiere roboanti del musicista incriminato.

La band

Mentre solo un anno e poco più separano il sophomore record dall’acerbo e comunque importante banco di prova stilistico “For All Tid”, l’ascolto dei suoi dieci pezzi evidenzia una maturazione nettissima proprio nell’amalgama tra le melodie principali ed il background ancora puramente attinente al Black Metal, seppur scevro dai suoi più stretti canoni: non solo un simile canovaccio stava venendo via via sdoganato permettendo ai giovani strumentisti sempre maggiori input creativi, ma una discreta fetta di questa presa di forza tastieristica proveniva proprio dall’inglese Cacophonous Records, nuova label dei norvegesi il cui humus sinfonico (si pensi tanto ai Gehenna della “Second Spell” dell’anno precedente e dei tre incantesimi più in generale, quanto ai Bal-Sagoth del debutto e del definitivo secondo disco, oltre ovviamente ai gemelli di fama Cradle Of Filth in procinto di pubblicare il loro spartiacque Dusk… And Her Embrace”) non poteva che arrecare benefici rispetto alla decisamente meno eterodossa No Colours. Ad accompagnare in studio i Dimmu Borgir vi è inoltre Kristian Romsøe, altra meteora nel panorama metallico norvegese che può tuttavia vantare un ottimo lavoro sia qui, sia sull’indimenticabile “Aspera Hiems Symfonia” degli esordienti Arcturus: in coppia proprio con “Stormblåst”, due album sicuramente perfettibili dal punto di vista del mero engineering sonoro ma assolutamente pionieristici nel coniugare la tradizionale produzione spartana e forte d’originalità made in Norway alle prime incursioni di un elemento che molti vedevano ancora (e vedranno in seguito) come del tutto incompatibile, quando non come mero sottofondo atmosferico.
A rendere “Stormblåst” un disco irripetibile non è però tanto il suo peculiare sound (un’anima comunque tanto importante a suo conto da rendere, come una maledizione piombatavi per l’asporto, totalmente privo di nerbo lo sfortunato remake di cui sopra) quanto più l’irrequietezza giovanile di una formazione ancora non del tutto delineata (Shagrath scambia qui le bacchette con la chitarra di Tjodalv mentre Tristan renderà il basso vacante subito dopo l’uscita), e comunque una innegabilmente baciata dall’ispirazione nella scrittura dei brani quanto fiorente d’idee ancora in parte da sviluppare con altri e ben maggiori mezzi. Sono -o meglio sembrano soltanto- lontani i tempi in cui un pochissimo dotato di physique du rôle Stian Aarstad appiccicava i tastieroni altissimi in volume nel mix su pezzi già ultimati: ora invece ogni attacco ed ogni cambio di riff suonano naturali e concepiti in un’unica sessione, sebbene la scrittura rimanga organica e vengano dunque ancora bandite le funamboliche evoluzioni compiute dai vari strumenti a partire da Enthrone Darkness Triumphant”, a sua volta già in procinto di uscire sul finire di maggio dell’anno successivo. Sono difatti i frangenti meno concitati a brillare in particolar modo, retti dal piacevole dipanarsi di trame semplici ed efficaci come quelle di “Broderskapets Ring” ed “Antikrist”; anche se limitarsi ad un singolo brano significa rivolgersi inevitabilmente alla stupenda title-track, un piccolo capolavoro le cui aperture sognanti lasciano nelle orecchie un sentore Folk sul quale purtroppo la band non è mai stata in grado di capitalizzare. Persino la strumentale “Sorgens Kammer”, piazzata invero fin troppo presto nell’ordine in scaletta, è calata ad arte nel mood crepuscolare dell’opera e offre addirittura alcuni spunti di riflessione sui tic che affliggono il genere: perché scagliarsi contro questo evidente rifacimento mentre invece non è dato di batter ciglio alla citazione della nona sinfonia di Dvořák, presente all’inizio dell’ultimo pezzo? Forse che il Metal, nella sua sempre assurda pretesa (o complesso d’inferiorità, nato da uno scherzo preso troppo seriamente all’inizio degli anni ‘00) d’essere erede naturale della musica classica, è disposto a tollerare saccheggi da quel mondo ma non da fonti in apparenza meno colte quali un videogame per Amiga?

Qualsiasi possa essere l’opinione personale su ciò che comunque resta evidente incoerenza, o su “Stormblåst” in generale, in fondo, l’incanto legato al monicker Dimmu Borgir verrà meno allo stesso modo in cui si è materializzato, ossia con terremoti in formazione a cui i due leader restanti cercheranno di porre rimedio cannando clamorosamente i sostituti: da Stian Aarstad, inadatto sotto molti aspetti ma innegabilmente dotato di un approccio less-is-more perfetto per la proposta di allora, Shagrath e Silenoz si troveranno quindi tra le mani Mustis, altro soggettone forse più integrato nel mondo Metal ma votato, al netto contrario del suo predecessore, all’eccesso strumentale e ai suoni da kolossal hollywoodiano (creditabile non per nulla come colui che sdoganerà una simile sensibilità nel Black Metal); situazione analoga sul fronte dei batteristi, con un Tjodalv spinto al parossismo e poi rimpiazzato da virtuosi intercambiabili del calibro prima di Nicholas Barker e poi di Hellhammer. Si arriva così a cerchio proprio al dibattuto “Stormblåst 2005”, il quale se da un lato mantiene tecnicamente abbastanza intatte le partiture originali (risultando così più simile ad un Enthrone Darkness Triumphant” che al bestseller “Death Cult Armageddon”), dall’altra sfoggia dolorosamente tutta la perdita di sensibilità della band proprio a partire da tastiere e batteria: miriadi di tonalità e di fill, provando a compensare qualcosa di scomparso da troppo tempo – e che tuttavia resta perfettamente udibile ad inerte memoria nell’originale “Stormblåst” del 1996, da venticinque anni e per almeno altrettanti ancora.

Michele “Ordog” Finelli

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