Arkona – “Imperium” (1996)

Artist: Arkona
Title: Imperium
Label: Astral Wings Records
Year: 1996
Genre: Pagan Black Metal
Country: Polonia

Tracklist:
1. “Skrajna Nienawiść Egoistycznej Egzystencji”
2. “Epidemia Rozczarowania I Nędza Duchowa”
3. “Każdy Los To Cień”
4. “Jesienne Cienie Czekające Na Kolejną Reinkarnację”
5. “Wściekłość Która Nadchodzi”
6. “Pluję Na Twą Marność Psie!”
7. “Pogarda Dla Wrogów Imperium Wszechmocy”

Le prime fiammelle divampano andando a bordare il sentiero dei polacchi Arkona: una via sulla quale le imperiose ombre di antenati indomiti si proiettano fra le macchie scure e rossastre della sofferenza perpetrata da un dogmatismo percepito come corpo esterno e alieno, e le glorie degli antichi fasti echeggiano in drammatica lontananza, sfumate e appena percepibili nell’argenteo scintillio della volta stellata. Storie di tragedie cauterizzate con il fuoco e di cicatrici ancora ben visibili negli animi di un popolo inaridito da una tirannia spirituale prendono vita in un debutto che, ad un tempo presente che lo separa di venticinque anni da noi, viene riconosciuto a ragion veduta fra i capisaldi di una scuola polacca di fare Pagan Black Metal, capace di offrire perfino un più ampio spaccato di quello che è un modo di intendere la nera fiamma diffusosi proprio da quegli anni e in qualche modo preservatosi con fierezza e testardaggine puramente slava in un contesto più generalmente est-europeo.

Il logo della band

Per comprendere la genesi di un primo full-length nel quale ancora oggi, a cinque lustri di distanza, molti vedono un apice compositivo e geniale irripetuto nella discografia (in un’ottica che indubbiamente si lascia trasportare da sterili e non richiesti paragoni cavalcati dal sempreverde entusiasmo old school, ma che rende comunque un non falso merito alla pregevolezza e all’unicità di un’opera con cui gli stessi Arkona preferirono non entrare in competizione per i successivi cinque anni), può essere utile andare a ripercorrere le orme dei musicisti della formazione prima che quel grande turning point costituito dalla cosiddetta seconda ondata di Black Metal calasse definitivamente la sua falce sul mondo della musica estrema, affondando il colpo e marchiando tutti quei ragazzi dall’animo introverso ma dallo spirito in rivolta. A ritroso sarà dunque facile trovare Khorzon, Messiah, Lord Winter e Pitzer alle prese con un progetto dai chiari intenti sperimentali portati avanti con esuberanza e intraprendenza giovanile come i Mussorgski, fondati ad inizio decennio e nel 1995 debuttanti con un “In Harmony With The Universe” che tra derive industriali, elettroniche e velleità Metal ad ampio spettro arriva persino a destreggiarsi su una drum-machine smitragliante in un approccio meccanico e robotico antecedente quel “In The Streams Of Inferno” che, dall’anno successivo in poi, andrà a dare definita forma alle inumane squadrature dell’Industrial Black Metal.
Ma ambizioni sperimentali smaccatamente intergenere e influssi classici posti sul piedistallo (chiaro il riferimento a Modest Petrovič Musorgskij, compositore russo del XIX secolo) poco possono di fronte al fascino irresistibile del novantiano influsso norvegese; o meglio: proprio il fatto che un’intesa e una solida base artistica, costituita da una consapevolezza dei propri mezzi e una discreta varietà di influenze, fossero già solidificate in quattro dei cinque componenti che andarono a mettere anima e corpo nel nuovo progetto dagli intenti questa volta dichiaratamente Black Metal, si rivela un punto nodale nella forgiatura di una propria dimensione ancor prima dei due demo del 1994, il classico “An Eternal Curse Of The Pagan Godz” ed il misconosciuto “Bogowie Zapomnienia”, ma soprattutto nella finale plasmazione in “Imperium”.
È dunque così che l’incedere implacabile delle sette tracce e i tonanti sintetizzatori dalle venature epiche ma sempre minacciose, pur debitori dei bagliori del nord, non cedono mai alle magniloquenze sinfoniche totalizzanti che proprio in quei primi sette mesi del 1996 infittivano gli scaffali più neri d’Europa consacrando il periodo d’oro di Gehenna e Dimmu Borgir, avvicinandosi sì maggiormente alle tonalità di derivazione fokloristica di Enslaved e Satyricon, ma cercando una terza via che, passando da Kvist, Helheim, da un piglio di matrice classica e una predilezione per un suono asciutto e diretto, potesse inquadrare la personale immagine di Black Metal solidificatasi nelle menti della giovane band di Perzów.
Ammirazione condivisa nei confronti degli act scandinavi, suggestioni pagane a tutto tondo e una comune visione nei confronti dei fondamentali del genere danno dunque lentamente forma in terra di Polonia a quello che sotto il vessillo di etichette come Pagan Records e la stessa Astral Wings divenne qualcosa di altamente distintivo e caratteristico: un filo che parte da “…From The Pagan Vastlands” e “Sventevith” dei Behemoth, che passa tramite l’ingombrante presenza di Rob Darken (probabilmente mai consacratosi con un’uscita di regale spicco ma d’indubbia influenza tra “Thousand Swords” con il monicker Graveland, “…Taur-nu-Fuin…” con gli Infernum e il suo apporto nei Veles), ma che arriva ad una svolta e si consacra in una definitiva maturazione nel 1996, proprio con la seconda uscita su full-length della band di Adam Darski e i debut di Sacrilegium e, appunto, Arkona.

La band

A coronare e donare una fatale e immortale immagine a quell’insieme multiforme di influenze e al coinvolgente sentimento di devozione per la propria terra che da metà degli anni ’90 in Polonia fa dunque sbocciare definitamente i propri germogli malsani in musica, vi è la voce infervorata di Messiah, che mossa da quelle che appaiono come visioni disperate, scandisce i tempi di testi aspri e contorti, sciorinando con sferzante amarezza le sue spietate profezie: la cristianizzazione come limitazione dell’immaginazione e del proprio spirito di potenza, l’ira flagellante che prende forma in un sogno che non si dimostra univocamente antireligioso, bensì oscilla fra il ristabilimento di un’identità individuale tout-court di un’umanità lacerata e i cui fili del destino sono tirati allo stremo e un nichilismo imperante che si muove tra i paesaggi ingrigiti da gretta aridità. L’esplosione sanguigna che squarcia l’atmosfera sospesa e grave della fuga di organo in “Skrajna Nienawisc Egoistycznej Egzystencji” presenta così, fin da subito, i tratti già peculiari e trascinanti dei polacchi: toni cupi e drammatici e una tendenza all’utilizzo di linee scarne ma dalla coesa tendenza orchestrale; un approccio dunque meno impetuoso e compatto di quello intrapreso in “Grom”, maggiormente incentrato sul grigiore di brani estranianti e che vivono delle affilate ed eleganti perturbazioni da uno stato di morte celebrale. Un letto di frequenze concesso dai cordofoni svuotati totalmente dei medi e che gracchiano sotto la guida ferma dei sintetizzatori, ma che non si risparmiano successioni di riff memorabili e alla ribalta in brani come “Jesienne Cienie Czekajace Na Kolejna Reinkarnacje”, inno all’egoismo umano ed elogio all’inverno inteso come svuotamento totale di preconcetti a favore di una ritrovata via individuale, o il travaso di bile impreziosito di epicità “Wscieklosc Ktora Nadchodzi”: vera e propria stilettata in pieno volto che non si risparmia dei ricercati contrappunti sinfonici.
Ma per quanto le tastiere di “Imperium” ricoprano un ruolo fondamentale e spesso salgano alla ribalta nel corso del brano, non vi è mai un desiderio di completa e totale preponderanza; non è mai presente quel predominio assoluto, doppio e totale che i Nokturnal Mortum sceglieranno, in chiave folkloristica e ancora unica nel suo genere, nell’imprescindibile “Goat Horns”, così com’è anche assente quella avvolgente e magica pregevolezza di arrangiamenti che va a caratterizzare i passaggi del già citato “Wicher”, prediligendo i registri più cupi e tragici che caratterizzano invece una “Epidemia Rozczarowania I Nedza Duchowa” o la finale “Pluje Na Twa Marnosc Psie!”. Ma quella che è un’innata vena sperimentale volutamente ridimensionata per attenersi ai binari dell’intransigenza su pentagramma emerge dall’utilizzo invero libero del basso, non mero accompagnamento ritmico ma spesso lanciato in sezioni devianti dalle linee principali che generano intersezioni dal vivace dinamismo, e da giochi di distorsioni differenti sui cordofoni in generale, che in occasioni come “Kazdy Los To Cien” producono riverberi ipnotici in timide ma importanti soluzioni dal sapore Negură Bunget ante-litteram (i transilvani debutteranno infatti con “Zîrnindu-să” di lì a due mesi).

Dall’uscita di “Imperium”, come già detto insieme ad un’altra manciata di uscite in grado di dare forma ad uno stile Pagan dal timbro distintamente slavo il quale, a partire dalla Polonia, va negli anni successivi a presentarsi in molteplici declinazioni nei paesi limitrofi, gli Arkona continueranno mossi da evoluzioni artistiche evidenti ed elaborate, ma sempre coerenti: dal successivo rifiuto dei sintetizzatori a favore delle trame intricate, martellanti e quasi distopiche di “Zeta Reticuli: A Tale About Hatred and Total Enslavement”, fino all’accoppiata della reale svolta “Nocturnal Arkonian Hordes”“Konstelacja Lodu” a spalancare stilisticamente le porte a quelli che saranno i tre dischi degli anni ’10 del nuovo millennio; la veemenza e l’ardore delle declamazioni di un dipartito Messiah incise tra i solchi del debutto ancora risuonano nei plumbei e vasti scenari di desolazione evocati dalla formazione polacca, composta da artisti completi, capaci di contribuire alla forgiatura di un linguaggio e al contempo di rifulgere una comoda staticità puntando ad un trasformismo che ancora oggi è in perpetuo divenire, declinando fedelmente quegli ideali radicati e flagellanti di fanatismo iconoclasta, vuoto cosmico e trasversale suggestione folkloristica.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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