Dødheimsgard – “Monumental Possession” (1996)

Artist: Dødheimsgard
Title: Monumental Possession
Label: Malicious Records
Year: 1996
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Intro”
2. “Utopia Running Scarlet”
3. “The Crystal Specter”
4. “Bluebell Heart”
5. “Monumental Possession”
6. “Fluency”
7. “Angel Death”
8. “Lost In Faces”
9. “The Ultimate Reflection”

Certi luoghi comuni sono sicuramente duri a morire, specie quello che vorrebbe il concetto di evoluzione come l’obbligatorio passaggio da una forma grezza ed embrionale ad un risultato finale per forza di cose sofisticato, grandemente inintelleggibile e precluso al popolino ignorante. Parecchie realtà nello sconfinatissimo e variegato circuito Metal (dai beneamati Savatage e Voivod ai qui altrettanto venerati Enslaved) sono state capaci di ribaltare tale fallata concezione a colpi di album via via più elaborati ma sempre in grado di arrivare a qualsiasi ascoltatore, ammesso che poi in questi vi fosse una qualche volontà di approcciarsi a qualcosa di erroneamente descritto come impenetrabile ai non eletti; molte meno d’altronde sono le band la cui discografia vanta, all’interno di un percorso di continua e radicale mutazione, una svolta netta verso lidi che l’opinione comune vuole di minore portata artistica, soltanto perché non corrispondenti al banale stereotipo dell’ermetismo sonoro con cui l’elitaria dialettica del Black Metal si è così ben sposata. Divenuti da quasi cinque lustri a questa parte l’incarnazione ultima di quell’inquietudine avanguardistica in chiave nera, sempre pienamente credibile persino quando portata alle estreme conseguenze nell’ancora oggi nebuloso A Umbra Omega”, i Dødheimsgard di vent’anni prima al contrario illustrano insieme ad un manipolo di altri scappati di casa, nello spirito di Hieronymus Bosch, come l’innovazione passi innanzitutto anche attraverso coordinate musicali dal sapore passatista, dimostrandosi al contempo attenti osservatori del panorama circostante e scaltri avventurieri dell’estremismo a sette note.

Il logo della band

Come accaduto proprio ad altri connazionali al punto di pubblicare il loro secondo lavoro in studio, nonché esordio sotto la stessa Malicious Records soltanto due giorni prima, così il makeover ancor più rapido ed evidente avvenuto tra “Kronet Til Konge” e “Monumental Possession” non può essere assolutamente spiegato senza tirare in ballo i comprimari arruolati dalle figure centrali in seno alla formazione. Le chiassose nottate all’Elm Street Pub di Oslo favoriscono l’incontro dei comandanti in capo Aldrahn e Vicotnik prima con Alver, bassista transfugo dagli Emperor di “Anthems To The Welkin At Dusk”, e poi con l’Apollyon prestato qui a voce e chitarra proprio mentre sta uscendo, anch’esso sotto il medesimo marchio discografico tedesco, il “Black Thrash Attack” ad opera di certi Aura Noir poi prossimi a fama internazionale: che a nord soffiasse aria di primitivismo dopo la completa scissione dai pionieri di fine anni ottanta lo aveva già capito in Svezia gente tipo Nifelheim (con lo scardinante primo ed omonimo disco del 1995) e Gehennah, ma è essenzialmente coi due gruppi aventi in formazione il futuro Immortal che la Norvegia, la stessa terra dove il Black ha raggiunto la propria indipendenza nel grande schema dei sottogeneri, si apre allo zeitgeist retrò profetizzato dai Darkthrone (pure loro coinvolti nel processo in alcuni episodi del sottovalutato “Total Death”) ma sviluppato soltanto dalla generazione successiva, quella carica di fame ed ispirazione tanto quanto lo era un lustro addietro il Fenriz messo alla porta in maniera abbastanza infantile per stessa ammissione dell’allora batterista.

La band

Forte dello spontaneo guizzo creativo mantenuto del resto per tutta una carriera, “Kronet Til Konge” si perde immeritatamente nello sconfinato catalogo d’incredibili pubblicazioni venute dopo il boom del ’94, pur rappresentando un’affascinante rilettura di quel suono grazie agli ipnotici giri di basso ed al confuso tappeto di chitarre impalpabili; “Monumental Possession”, seppure curato dal solito Bård Norheim insieme all’ai tempi onnipresente Garm di fama Arcturus ed Ulver e al Cerberus già ingegnere di suono su “Black Thrash Attack” e poi assoldato alle quattro corde sul rivoluzionario EP “Satanic Art” (prima di chiudere in qualche modo un cerchio con l’operato alle quattro corde nei Dold Vorde Ens Navn di “Gjengangere I Hjertets Mørke” del 2019), è un nuovo punto di partenza nel quale i molteplici legami tra Dødheimsgard ed Aura Noir (lo stesso Aggressor del resto si siederà dietro le pelli tre anni più tardi per registrare il polarizzante “666 International” sotto il nickname Czral) giocano un ruolo di primissimo piano. Le frequenze impastate del debut lasciano posto all’affilato sound che, unito all’impeccabile scrittura da parte di un nucleo compositivo evidentemente quanto naturalmente avvezzo a certe sonorità, rende l’album un caposaldo della corrente Black/Thrash di cui le frastornanti “Utopia Running Scarlet” e “The Crystal Specter” sono esempi pressoché perfetti: il preciso alternarsi di cassa e rullante e la fluidità dei lick delle sei corde vengono messi al totale servizio di riff e strutture dalla grande presa, laddove i concittadini succitati puntano sullo charme di produzioni grezze e piccole sviste tecniche. Lontani da simili strategie più estetiche che contenutistiche, brani quali l’eloquente “Fluency” o “Lost In Faces” evidenziano tutta la capacità dei Dødheimsgard anno 1996 nel dare l’illusione di un prodotto trasandato basandosi tuttavia esclusivamente sul tiro ben studiato dei singoli pezzi, dettato dagli scatenati up-tempo ma irresistibile allo stesso modo nell’esaltante incedere della rocciosa title-track, atipico canale di sfogo per la tensione accumulatasi con la precedente “Bluebell Heart”. Eppure, come in copertina l’ingenuo caprone di venomiana memoria non riesce a celare del tutto le inquietanti visioni del criptico pittore olandese, così dopo una prima metà di “The Ultimate Reflection” in odore di “Under A Funeral Moon” ecco emergere, per una rapida occhiata nell’abisso la cui profondità distorce il tempo allungandolo a dismisura, il preludio all’incubo meccanico in sopraggiunta di lì a poco: l’umanità ha fatto della fabbrica ieri la sua cattedrale ed oggi il suo cimitero, in cui gli scricchiolanti marchingegni paiono ammutolirsi religiosamente sul più bello assieme ai rantoli di una nuova razza venuta a prenderne il posto.

In maniera simile a non pochi colleghi dediti a proposte dalla singolare audacia, Vicotnik ed Aldrahn hanno spesso opposto al loro cerebrale, nerissimo operato una sana attitudine se non goliardica trasgressiva all’interno di un metodo che di ironico non ha assolutamente nulla, sbattuta in faccia ai presenti durante gli assai troppo rari live show ma per fortuna ben lontana da compromettere il discorso musicale portato avanti dai due. Sebbene i testi totalmente in inglese e e lo screaming talvolta sopra le righe dei tre membri alternati al microfono possano apparire insieme come una voluta perdita di serietà rispetto alle teatrali vocals d’aristocratica foggia norrena presenti nell’esordio, “Monumental Possession” continua a vivere nel contrasto tra le composizioni arrembanti ed il sotterraneo disegno artistico che andava già formandosi nei Dødheimsgard di venticinque anni or sono. Con l’arguzia necessaria a tali imprese, il gruppo nobilita la sporca materia Black/Thrash non attraverso modifiche sostanziali della stessa ma semplicemente suonando questo genere al meglio delle sue possibilità: offrendo così una visuale inedita su tale sottomondo come in precedenza lo era stata quella sul Black Metal tradizionalmente norvegese trasfigurato da “Kronet Til Konge”.
Ad oggi si potrebbe dunque tranquillamente parlare del disco meno calato nel percorso dei norvegesi, persino alla luce di un rivelatorio twist finale e di una base ritmica martellante dopotutto nemmeno tanto dissimile dall’immediato futuro, ma sarebbero comunque banali piccolezze da pretenziosi intellettualoidi; la stessa categoria con la quale, grazie ad un incrocio tra sacro e profano intitolato “Monumental Possession”, nel 1996 i Dødheimsgard hanno chiarito di non avere davvero nulla a che spartire.

Michele “Ordog” Finelli

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