Thorns – “Thorns” (2001)

Artist: Thorns
Title: Thorns
Label: Moonfog Productions
Year: 2001
Genre: Industrial Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Existence”
2. “World Playground Deceit”
3. “Shifting Channels”
4. “Stellar Master Elite”
5. “Underneath The Universe (Part I)”
6. “Underneath The Universe (Part II)”
7. “Interface To God”
8. “Vortex”

2001: il grande Altro assume le sinistre, tubolari e codificate forme di uno spazio nero, dalla consistenza della pece ed inconcepibilmente spaventoso, di un caos contorto e sfrigolante di scariche elettrostatiche a dare vita alle informi membra di un simbionte forgiato e plasmato dalla mente umana ma ricolmo di una coscienza propria, un dio sbagliato, un demiurgo, concepito e al tempo stesso creatore; così i distopici scenari che colui che risponde come Snorre Westvold Ruch all’anagrafe due decine di anni fa evocava con la maestria di un tetro artefice sono a conti fatti più il frutto di un’intelligenza fine, si potrebbe dire quasi superiore, tremendamente consapevole del tempo che le scorre attorno, piuttosto che di una comunque malcelata e sicuramente eclettica volontà di proiettarsi costantemente oltre in un processo di connaturata e perciò mai forzata sperimentazione, prima concettuale e poi, solo conseguentemente, tecnica.
La sua figura genuinamente sospesa in un limbo d’ingenuità incredibile e naturale alienazione ha assunto nel corso degli anni contorni leggendari e quanto mai sfumati in quel pantheon di ragazzi assurti ad acherontiche semidivinità che, nella parte meridionale di una quasi inverosimile Norvegia, danno un nuovo significato all’aggettivo estremo applicato alla musica: dalla riconosciuta paternità galantemente condivisa con Euronymous di un certo modo di suonare la chitarra discostatosi dall’onnipresente palm-muting del precedente periodo, che trasportando la nascente, seghettata oscurità scandinava e giocando su rapidità e rumoristiche ipertonali offrisse una nuova e inesplorata gamma di sonorità malvagie e scenari freddi e corrotti, passando per il demo “Grymyrk” (oggi venerato nell’underground come la prova fisica unica della forte influenza di Blackthorn nella sua cerchia) prima sotto il nome di Stigma Diabolicum e poi mutato in Thorns, fino alla breve ma rivoluzionaria militanza come membro dei Mayhem ed il conseguente utilizzo di alcuni suoi riff, divenuti portanti e ad oggi iconici senza il dovuto credito, in svariati brani (tra cui proprio “From The Dark Past”, di ultima ma non per importanza ispirazione anche per la categoria su cui questo articolo fa la sua dovuta comparsa) di quel “De Mysteriis Dom. Sathanas” che fin dalla sua uscita fa proseliti ed estende le sue scheletriche ed esanime braccia su gran parte delle formazioni che si incamminano sul doloroso ed eterodosso sentiero del Black Metal durante l’ultimo lustro del millennio e ben oltre.

Il logo della band

Ma se la spinta rivoluzionaria dei primi anni ‘90 vede nella ricerca del sound più malvagio, veloce ed estremo possibile il suo ancora primordiale ma lampante obiettivo estetico, il panorama nel quale Snorre finisce catapultato terminato il periodo di celebre prigionia non è più la Norvegia chiusa e conservatrice della sua turbolenta adolescenza; lo scambio per corrispondenza di tape attorno alle quali si creavano voci, leggende e aneddoti, appartiene ormai al passato e i booklet dei CD non riportano più gli indirizzi di casa dei musicisti, bensì le prime caselle di poste elettronica: la rete si è allargata sui canali più intangibili e rapidi, ma altrettanto sotterranei e reverenzialmente velati di mistero, del web alle soglie del secondo millennio, nuovo e sconfinato deserto dell’irreale. E siccome per certi rarissimi estri, ritenersi grandi di una grandezza latente risulta essere un modo di vivere imperdonabilmente troppo comodo per legittimare il proprio talvolta assurdo operato, una volta riottenuta la libertà, Ruch si ritrova invece a trasporre la stessa urgenza espressiva in quei versanti più intrinsecamente avanguardistici e industriali in forte ascesa, scatenati a monte dalle apocalittiche e meccaniche stoccate dei Mysticum di “In The Streams Of Inferno” e poi in qualche modo intercettati, introiettati, rivisti e riassimilati dal poliedrico Sigurd Wongraven nella visione artistica in costante mutazione oppositiva, estetica e musicale, che va ad abbracciare la sua Moonfog Productions creando un panorama di menti comuni ma via via sempre più esogamico nei confronti di influenze elettroniche, urbane e futuriste custodite e votate alla nera morte in musica.
Con l’iniziale e ben più semplice intenzione di pubblicare nel roster di Satyr il vecchio materiale mai realmente rilasciato, Snorre vi si ritrova gradualmente coinvolto in misura sempre maggiore, inanellando innanzitutto nel 1999 due presenze di rilievo marchiate FOG (oltre ad una particolarissima cover di “The Pagan Winter” uscita nella celebre compilation “Darkthrone Holy Darkthrone”) e che fanno da necessario preambolo a quello che sarebbe stato l’attesissimo debutto su full-length, cruciali banchi di prova per dare il via ad un nuovo personale ciclo all’insegna del più terrificante vuoto cosmico, umano e sociale: lo split-album “Thorns vs Emperor”, nel quale spicca dapprima la completa ridefinizione del plasma in sound e venature di “Ærie Descent”, e -forse per assurdo persino più sensibilmente, seppure in sottaciuta e sordida veste di collaboratore attivo dietro le quinte nonché ospite per alcuni brani- il corrosivo, inumano e schizoide quarto capitolo della discografia degli stessi Satyricon, la summa di una visione apocalittica contraria ad ogni umanità ed incapsulata dall’etichetta discografica (dopo le crociate collaborative dal profondo Nord targate 1994-96) nella violenza a tutto tondo del realmente fin de siècle “Rebel Extravaganza”.

Snorre W. Ruch

La formazione di cui Snorre si avvale per dare una definitiva forma tangibile alla nuova totalità delle proprie visioni va di conseguenza a raggruppare semplicemente il meglio di ciò che la Norvegia ha da offrire nei rispettivi ambiti: un sempreverde Hellhammer alle pelli in stato di grazia, già a suo agio in contesti fuori dagli schemi e dalle peculiari pieghe futuristiche con Arcturus e Covenant (qui possibilmente persino più atipico), e un tandem vocale che vede alternarsi dietro al microfono il fedele Wongraven in combutta con Bjørn Dencker, maggiormente noto come Aldrahn, istrionica ed estrosa voce proprio dei Dødheimsgard che, con il transitorio EP “Satanic Art” del 1998 e soprattutto il successivo album “666 International” del 1999 avevano aperto il più folle e scardinante spiraglio non soltanto nella loro carriera ma in un certo modo di intendere l’avanguardia estrema nel Black Metal che avrebbe inevitabilmente contagiato ed indirizzato la misantropia, al culmine a cavallo tra i due secoli, dei compagni di label. Ma la stravaganza dai lineamenti grotteschi e melodrammatici, fatta di contrasti di luce e atmosfere plumbee che caratterizzano gran parte delle partiture della band già capitanata dal duo AldrahnVicotnik, suona quasi antitetica al sound eccezionalmente oppressivo di cui i Thorns si fanno portavoce assumendo le sembianze di un inquietante lepidottero testa di morte cremisi, dalle minacciose escrescenze gigeriane: uno spazio vuoto e inumano, asettico e terrificante, tremendamente squarciato da chitarre distorte e crepitanti in suono ma ossimoricamente nette, chirurgiche (abrasive quanto quelle dello speculare quarto Satyricon) e pesanti come macigni (il riff schiacciante della conclusione “Vortex”), da impulsi elettronici che si propagano nell’etere come messaggi sinaptici di un tessuto nervoso in continuo stimolo, mai alle redini della composizione sempre cruciali nel delineare lo spettro sensoriale e profondamente dinamico della composizione.
La forma canzone viene definitivamente violentata a favore di un continuum che si protrae nelle tre dimensioni spaziali e in quella temporale come scariche di suono e rumore in perpetuo e imprevedibile movimento, talvolta ripresa e più spesso scartata, dispiegandosi in otto brani tanto vari quanto imprescindibilmente legati tra loro, in grado di far coesistere una dopo l’altra l’abissale e straniante “Shifting Channels”, con i suoi sintetizzatori più oscuri mai sentiti nel 2001 nel Black Metal tutto, cadenzata da clangori ossessivi e rumorismo ai limiti della Dark Ambient di coeva scuola Cold Meat Industry in modo non troppo dissimile da quello che avrebbe fatto Vindsval nei Blut Aus Nord a partire da “The Work Which Transforms God” (2003), e l’irresistibile apoteosi trionfante di “Stellar Master Elite”, micidiale stilettata e travolgente manifesto della prova da pelle d’oca di un Satyr seconda solo a quelle del penultimo brano e di “World Playground Deceit”, che presta ogni sua dote interpretativa e vive i testi di disumano distacco che scrive come mai altrove, fatta esclusione per quelli che vi dialogano strettamente correlati in “Rebel Extravaganza”.
Ma erano già bastati forse i primissimi secondi della destabilizzante opener “Existence”, con la sua partenza in medias res intrisa di pandemonio sintetico e scale estrose sulla tradizione di Olivier Messiaen, per capire di essere davanti ad un’uscita fuori dal comune fin dal 2001; cosicché, arrivati al quarto d’ora diviso in due capitoli di “Underneath The Universe” ci si ritrova inerti e seriamente pronti a tutto, smarriti in orrorifici ambienti dove si boccheggia a fatica per carpire una boccata d’aria e in cui nessuno può tuttavia sentirti urlare, tremante e spaesato fra gli isolati riffing in mid-tempo che anticipano le parti meno caotiche, meno tirate, più atmosferiche e tuttavia provviste della medesima sensibilità degli elvetici Darkspace, del tutto ignari dell’ennesima furia dissonante che “Interface To God” sta per scatenare.

Da molti imperdonabilmente definito persino in ritardo sulla ipotetica tabella di marcia che avrebbe visto le altre band norvegesi già incamminatesi lungo la via delle sperimentazioni elettroniche e che la pone a conclusione di un trittico delle meraviglie con degli appena precursori “666 International” e “Rebel Extravaganza”, l’omonimo e ad oggi unico disco dei Thorns di Snorre Ruch, colpo unico e maestro della meraviglia del suo autore, riesce in realtà non soltanto a donare una personalissima, probabilmente irreplicabile e terrificante interpretazione di come le pieghe più industriali si possano applicare al Black Metal in maniera apparentemente impossibile, ma a sfruttare per farlo fino in fondo le potenzialità di una produzione perfettamente calibrata, in grado di incanalare il batterismo perfino del poliedrico Hellhammer verso un tocco d’asetticità distopica, d’incubo meccanico e artificiale, accostandolo a sprazzi di drum-machine e digitalizzazioni; unendo mondi e facendoli implodere irrimediabilmente, impregnando e facendo convivere la componente avanguardistica incredibilmente sui generis con una rielaborazione irripetibile, ancora oggi sovversiva e rimasta totalmente aliena a chiunque altro in vent’anni, di quell’inconfondibile filo spinato acuminato e traboccante oscurità infinitamente più grande dell’uomo per sempre appartenente al finire degli anni ‘90. L’occhio, il vortice a cui nulla sfugge, nonché uno dei momenti nella storia in cui il Black Metal è stato più nero che mai.

Lorenzo “Kirves” Dotto

Precedente Mörk Gryning - "Maelstrom Chaos" (2001) Successivo Lunar Aurora - "Ars Moriendi" (2001)