Burzum – “Burzum” (1992)

Artist: Burzum
Title: Burzum
Label: Deathlike Silence Productions
Year: 1992
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Feeble Screams From Forests Unknown”
2. “Ea, Lord Of The Deeps”
3. “Black Spell Of Destruction”
4. “Channelling The Power Of Souls Into A New God (Interlude I)”
5. “War”
6. “The Crying Orc (Interlude II)”
7. “A Lost Forgotten Sad Spirit”
8. “My Journey To The Stars”
9. “Dungeons Of Darkness (Outro)”

I cancelli del tetro tempio di un male elementale attendono immoti in una sostanziale lontananza brumosa: smarrita e solivagante, nell’etere grigio che si disperde ai suoi piedi sopra la vastità scarna di un freddo e nero lago, vi è un’anima. Uno spirito anomalo, autobiografico se si vuole, le cui fattezze non hanno pari nel mondo conosciuto perché proveniente da un’epoca a sua volta ormai persa nei meandri del tempo senza tempo. Un tempo che, ad ogni modo, in qualche modo, sembra essere migliore – urla di esserlo. Un tempo a cui lo spirito perduto in questa strana regione metafisicamente sospesa tra il materiale e l’immateriale vuole tornare, a cui tende disperato verso la purezza di una mistica, di un abbraccio senza corpo che le sue membra non hanno mai provato. Forse invano. Non è ancora dato saperlo all’osservatore che lo squadra da una terza persona da principio distaccata e onirica, e poi con sempre più partecipazione emotiva e attiva mentre lo spirito cerca senza sosta tra bugie e verità le sue bugie e verità: quelle che gli permetteranno di sollevare la prima spessa graticola fatta di pesantissimo ferro battuto a separare questa landa desolata dalle profondità abissali di quel misterioso tempio che sorge più avanti, laggiù, avvolto nella nebbia e da flebili urla provenienti da foreste morte e ignote. E più chiavi sono perse per essere ritrovate mano a mano che la ferrea logica dell’ascoltatore si sgretola sotto il peso dell’ignoto e del nuovo, dell’inconcepibile e dell’inesprimibile, più le sue serrature si fanno più inviolabili, le sue alte mura impenetrabili sotto allo sguardo mefistofelico di quelle gargolle demoniache di pietra che sembrano chiedere con il loro silenzio un prezzo da pagare.

Il logo della band

Ma nella pozza dei sogni in cui si specchia un solitario albero scheletrico, i cui rami smagriti all’osso tendono ricurvi verso una qualche ancora inafferrabile e assurda altezza, le acque si anneriscono ed incupiscono sempre più e proporzionalmente, via via che questa anima persa, dimenticata e triste -questo stregone di scuro vestito ed incappucciato- si stanca di cercare quella strada di casa che poi lo attende, così poeticamente, proprio dietro l’ingresso del cancello arrugginito dal maleficio del tempo.
La prima formulata e compiuta magia di questo incantatore, un autore che sembra uscito (rinnegato e reietto a tutti gli effetti com’è) da una macabra fiaba popolare del nord, ha le fattezze di quella che porge la spiegazione di un mondo intero. Quello che osserviamo e ascoltiamo nelle immagini che la mente ricostruisce per conto suo ma grazie all’ausilio di questa bizzarra guida: solo nel mondo della logica, infatti, in quello della razionalità, delle convenzioni e della società che sembra avere una certa e zotica benevolenza artistica mista a timore reverenziale per questo creatore così vero (e che proprio per questo non può fare a meno di ridere di lui per esorcizzarne un potenziale così invidiato), esiste la sua stranezza tramite la quale si ha tuttavia il privilegio di sentire, se disposti, con immediatezza ciò che sempre sfugge alla non guidata comprensione altrui; dal fluttuare delle brume sulle radure contadine e povere del Telemark, allo spaventoso tuono dietro ai monti del Vestland, nel sibilo del vento e nella lacrima celata di un orco, per finire senza soluzione di completezza alcuna con le pause e tutti i silenzi che rivelano l’inconsapevole, il tragicamente inespresso nei rapporti umani che nel 1991 questo disperato spirito si ostina a mantenere. E se questo esantema, questa maledizione in forma aurale, questa nera stregoneria di distruzione è effettivamente arte quale è, nonché opera di un autentico visionario della musica, allora va quasi da sé che altro rispetto a quello della folla non potesse che essere il suo modo di intendere questo mondo in cui viviamo; che altro fosse necessariamente lo sguardo da sognatore smarrito che ha permesso di vedere -senza goderne appieno a differenza di chi ascolta (fortuna nostra, sfortuna sua)- con lente d’ingrandimento quelle enormi piccolezze che i giusti, gli intelligenti e tutti i più forti vincitori al gioco della vita mai potranno vedere. Altro è ciò che in eterno svela e al contempo nasconde quei gesti impercettibili, quelle parole non dette, gli incontri necessari e gli incontri fatali, l’invisibile scia luminosa lasciata per sempre nella mente da un rogo mentre le sue fiamme si alzano brillanti nel buio della notte, nel pericolo cifrato di cinquanta minuti in cui lèggere presagi di gioia e dolore, di vita e di morte. Ma dato che così profonda può essere l’estasi, la felicità come la disperazione innanzi a questo straziante attimo di contemplazione in nove tracce, chi l’ha creato è -come tutti i solitari dentro- condannato a soffrire: della sofferenza altrui e della propria, condannato a rimanere vittima sottintesa a sua glaciale volta degli errori e degli sbagli, della implicita violenza di una vita che non offre le sue istruzioni all’uso.

Count Grishnackh

“A Blaze In The Northern Sky” esce prima di due settimane, eppure nulla, nel marzo 1992, era forse mai suonato fino a quel punto Black Metal tanto quanto il primo Burzum. Benché sia incontrovertibilmente vero che il secondo full-length dell’allora trio di Kolbotn è effettivamente il primo album del genere per come sarebbe stato inteso in tre decadi ad oggi intere, “Burzum” è altresì quello che più e prima di ogni altro porta subito quel malsano esempio di commistioni ed influenze che, di fatto, il Black Metal norvegese fanno nascere verso un orizzonte completamente nuovo, che lo traghetta verso i suoi successivi sviluppi effettivi. Curioso e rivelatore d’altra parte è che, proprio di quelle influenze esterne (quali Death Metal, Thrash Metal e in parte Doom Metal), “Burzum” sia quasi totalmente privo e pertanto parto unico persino nel suo ristrettissimo ambito. Euronymous, dal canto suo, descrisse le due tracce nella versione finale già in giro su nastro da inizio febbraio 1992 -dunque anche prima dell’uscita ufficiale del celeberrimo primo disco della sconsacrata trilogia dei Darkthrone– la musica più nuova e oscura che avesse mai sentito in vita sua. La cosa ha assolutamente senso anche oggi, anche a trent’anni di distanza. Sebbene infatti, com’è tacito che sia, questo titolo non spetti assolutamente più all’omonimo disco in questione, è altrettanto vero che di quella oscurità, di quella novità estrema così precocemente percepita da un altro sicuro visionario della musica nera, le nove tracce dell’album di debutto del Conte Vikernes prima di diventare Varg sono padri putativi assoluti. Per moltissimi versi, in realtà, proprio il progenitore effettivo di tutto un modo di fare musica nel Metal: di una lentezza, di una ripetitività ipnotica e magnetica che qui nasce; di una sinistra tristezza e di una disperazione, un esistenzialismo e tutta una riflessione che, per la prima volta, è rivendicata ed entra nel genere diventando motivo e oggetto di catarsi nella musica estrema tutta, grotta di conforto per così analoghi ed anneriti, sconsolati animi che in un simile disco possono finalmente trovare quel conforto che è tutto figlio dei The Cure, dell’ambito Gothic Rock e Darkwave molto più che del Black Metal di Venom, dei Bathory e dei Celtic Frost (forse giusto questi ultimi, seppur su coordinate molto meno estreme, padrini ufficiali di questa tristezza tuttavia priva di un elemento tanto introspettivo da urla Kierkegaard quanto Lagerkvist – e dunque, nella pratica, squisitamente scandinavo).
Però “War” quel caprone giallo lo omaggia, in mancanza di un termine più appropriato, con la medesima, esplicita, testarda e spavalda noncuranza (e con l’arroganza infantile e quasi meschina, benché nel suo contesto assolutamente comprensibile) di Quorthon stesso nei confronti di quei tre diavoli di Newcastle; gli inglesi autori di “Welcome To Hell” e “Black Metal”, a suo dire, nel 1984 mai sentiti. In questo, e con tanto di suddivisione dell’album in side hate e side winter (come del resto l’altrettanto omonimo e primo “Bathory” si divise in side darkness e side evil otto anni prima), il Count Grishnackh si infila, non importa più dopo trent’anni se volontariamente -consapevolmente- o meno, dritto nell’alveo di una tradizione consolidandola ai suoi vagiti; e ironicamente, con qualunque altro mezzo in suo possesso, di questa tradizione Metal si fa beffe riscrivendola dalle fondamenta, scarnificandola e rendendola ossea, pallida, senza vita, spettrale, fatta di un minimalismo che nel 1992, non lo si dimentichi mai, ha ancora e semplicemente dell’assurdo. Ma come dimenticarlo, in fondo, dal momento che questa stessa semplicità è in larga misura rimasta irreplicata con la medesima efficacia pura e la stessa urgenza espressiva da altri autori nell’interezza di ben sei lustri. “Feeble Screams From Forests Unknown” non è in tal senso solo una opener-manifesto poetico e meta-narrativo dell’intera estetica di Burzum, in toto: è l’esempio musicale innanzitutto di questo alternarsi di carota e bastone in note, del pauperismo che monta come una tempesta facendo scuola in quella chitarra singola, marcia, scarna, povera, a ronzare vuota con le sue vecchie corde arrugginite in un solo canale auricolare prima dell’esplosione dell’intero comparto strumentistico come si trattasse di una orchestra completa di distorsioni e dissonanze maledette ma suonata da un solo ragazzo; un espediente che resta l’espediente da antologia, quello che come pochissimi altri è associato al suono Black Metal – e che qui trova la sua prima, effettiva realizzazione pratica per la posterità.
Ma questa è solo una, benché importantissima, delle profezie musicali contenute in “Burzum”. Si potrebbe proseguire con la visione, tra le altre e più immediate cose, del movimento Depressive Black Metal nella intera “Black Spell Of Destruction”: un’autodistruttività che preannuncia al contempo, e allo sguardo invece interno alla produzione marchiata Burzum, un modello di analisi tutto neoromantico di stupore verso il folklore locale di Kittelsen (che è quello di “Filosofem” e già dell’approssimarsi di Pesta col suo rastrello, della luce di “Hvis Lyset Tar Oss”); oppure potremmo pensare alla costruzione infinitamente basilare di “Ea, Lord Of The Deeps” (una ossessiva e ricorsiva natura Ambient esplicitata tanto nella “Channeling The Power Of Souls Into A New God” quanto nella scuola Cold Meat Industry per molti versi affiancata negli incubi e rumori di “Dungeons Of Darkness”), che insieme all’inizio speculare del classico assoluto “A Lost Forgotten Sad Spirit” ne è l’esempio primo: primitiva nei suoi giri, di una semplicità che ha del parossistico e dello snervante, eppure assolutamente inedita e perfetta con tutti gli orrori che contiene – seducente, infinitamente ammaliante col suo carico di maledetto e morboso splendore. E proprio i crescendo senza risposta, invece assolutamente quasi-progressivi, della musica del penultimo effettivo pezzo ne sono il contraltare, il bastone ferrato nel braccio che lo scaglia senza riserve su un intero genere musicale. La complessità strabiliante dell’accoppiata di evoluzioni da ritrovarsi in quest’ultima con “My Journey To The Stars” (non casualmente uno degli ultimissimi pezzi scritti per l’album a cavallo tra il 1991 ed il ’92, anticipante il caos di “Det Som Engang Var”) fa di quell’atmosferico non ancora nato una materia nuova e già cangiante in un debutto che non a caso è diventato un simbolo: un’icona che procede spedita come i tempi stentorei suonati dal proprio autore, facendosi strada nel mondo della musica nera -e non solo in quello-, creando i precedenti diretti che renderanno ancora più grandi e seminali tutti e tre i suoi successivi capitoli discografici – i quali, non deve sorprendere a questo punto, proprio con le infinite intuizioni nascoste nella eterogeneità di “Burzum” come di Burzum dialogano in continuazione. Cambiando lingua, cambiando i mezzi, allargando lo spettro di fedeli sensazioni di un’esistenza all’inverosimile, ma proprio nella conversazione tra opere mantenendo lo stesso carico di aliena, ultraterrena spiritualità più grande della vita.

Non può dunque più importare se davvero il ventiquattrenne Øystein Aarseth ha poi suonato alla fine quell’assolo giusto per divertimento su “War”, in nome di un’amicizia tradita (da chi, poi, mai potrà realmente sapersi) con l’ai tempi bassista dei suoi Mayhem intenti a scrivere con lui ogni linea finale di “De Mysteriis Dom. Sathanas”, o in nome di un’ideale, di una visione infinitamente grandiosa che andava e va oltre ogni possibile volto e nome; oppure se è vero che non ha nemmeno co-prodotto a sei mani il disco insieme a Kristian e quel cruciale Pytten scoperto non dagli altri assoluti prime-mover Darkthrone, bensì dagli Old Funeral e dagli Immortal mentre proprio l’ancora sconosciuto progetto e ragazzo ormai celato nella sua oscurità di nome e presagio Burzum ci lavora per produrre il primissimo full-length uscito dai Grieghallen – prima della leggenda inevitabile e di tutti gli altri, altrettanto leggendari album con quel suono unico per ognuno di essi eppure assolutamente inconfondibile dalla prima nota. Prima, vale a dire, che dal suono seminale di questo disco in particolare tutti gli altri rimanessero stregati, come “Under A Funeral Moon” (esempio principe fra mille) e la progressiva scarnificazione retroattiva nel genere dimostrano con evidenza. Non importa se sia stato Euronymous a cambiare erroneamente depths in deeps e ad aggiungere quel tocco di nero alla magia di distruzione del Conte. Non importa se le sue vendite o l’evidente narcisismo patologico siano stati la causa scatenante di quelle coltellate che un anno più tardi hanno segnato la fine di un’era e l’inizio di un’altra, o se quella cassetta strumentale del 1991 ha effettivamente bruciato sul tempo chiunque altro nel genere -e di stacco- nonostante la reticenza al riconoscimento anche da parte delle più grandi menti coeve nelle loro più o meno giovanili interviste: non può importare e non importa perché, molto più concretamente, questo disco è stato il rifugio, il confidente e compagno fedele di troppe notti insonni per troppi spiriti inquieti che ne sono usciti cambiati; perché un disco simile è sempre stato e sempre sarà l’epitome di una spiritualità troppo alta in musica, che certamente si riverbererà con ancora più forza nei successivi album (al paragone diretto dei quali inevitabilmente sfigura), ma anche quello che -concettualmente e praticamente- a quel tentativo disperato di trascendenza di quella figura sola in un mondo desolato, oscuro e morente, fantasma del passato che vede il vero volto del mondo in cui viviamo, e all’intera rivoluzione musicale ed ideologica dà finalmente un nome in sei indimenticabili lettere.

Matteo “Theo” Damiani

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