Destruction – “Eternal Devastation” (1986)

Artist: Destruction
Title: Eternal Devastation
Label: Steamhammer Records
Year: 1986
Genre: Thrash/Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Curse The Gods”
2. “Confound Games”
3. “Life Without Sense”
4. “United By Hatred”
5. “Eternal Ban”
6. “Upcoming Devastation”
7. “Confused Mind”

In trentacinque anni possono cambiare tantissime cose, persino nel settore musicale che più di tutti si vorrebbe estraneo alla massificazione del pensiero ma che, date le modalità di aggregazione ai limiti del tribale così tanto diffuse tra i suoi stessi sostenitori, si ritrova attraversato da correnti interne prossime a trasformarsi in ciechi dogmi ed alterare la percezione del reale, dell’effettivo valore di un prodotto e del suo peso specifico nello scenario circostante.
Accade allora che una band tra le migliori in assoluto del movimento Thrash a livello continentale e mondiale, capace prima di unire il quasi sofisticato savoir faire americano ai più putrescenti miasmi metteleuropei e poi di indovinare all’istante persino l’inaspettato ritorno di fiamma del genere post-“The Gathering”, venga ciononostante declassata a manipolo di casinisti giunto alla fama mondiale soltanto per mera fortuna e per l’associazione ad altri due act al contrario più talentuosi e in qualche modo pionieristici. Che vengano accusati di aver inciso esclusivamente un paio di dischi davvero rilevanti ad inizio carriera (stesso discorso, almeno nella ristretta visione del fruitore medio, per gli invece stimatissimi Exodus ed Anthrax), o di aver riadottato certe sonorità giusto in tempo per il boom di inizio millennio o, ancora meno significativamente, di essere delle personalità difficilmente gestibili, oggi i Destruction non godono certo della miglior considerazione possibile presso gli scellerati opinion leader del pubblico più borchiato di tutti, il quale sembra essersi dimenticato non solo di alcune prove più che decenti rilasciate nell’ultimo ventennio -ed ai tempi assai ben accolte- ma anche del compito svolto da Schmier e compagni nel mostrare fin dove si sarebbe potuta spingere una musica estrema ancora in fase di primigenia evoluzione se accompagnata dalla giusta dose di malignità.

Il logo della band

I Destruction del 1986 quella malignità ce l’hanno tutta, anche ad ascoltarli oggi, e cosa più importante la sanno veicolare attraverso (e forse nonostante) una crescente dimestichezza con gli strumenti – atto di sfida ai complessi d’oltreoceano ed al contempo tratto che li differenzia enormemente dagli ancora sparuti commilitoni teutonici. Già il mini “Sentence Of Death” rivela oggi come ieri, sotto il sound dozzinale e l’impianto iconografico entrambi chiaramente venomiani, un sincero amore per l’atletismo esecutivo dei Raven e dei Judas Priest più adrenalinici; e pur essendo la base fondamentale del metallo battente in senso lato, l’unione tra la comunque considerevole perizia tecnica della N.W.O.B.H.M. ed il grezzo retroterra punkeggiante sdoganato dai teppisti di Newcastle genera in questo caso un esordio tanto folgorante quanto riverito nel giro di meno di un lustro al nord quale “Infernal Overkill”, testimonianza di come anche le strutture compositive brevettate in Albione ed esportate al di là dell’Atlantico possano essere infettate dalle esalazioni di zolfo che stanno uscendo dal sottosuolo dell’Europa continentale.
Il terzo passo, giunti a questo punto, è la definitiva discesa del trio di Weil Am Rhein sul medesimo terreno di gioco praticato dai nordamericani, proprio nell’annata che ne sancisce la maturità attraverso gli stessi accorgimenti messi in pratica dal gruppo: spariscono l’ortodossia Punk votata alla velocità e le dichiarazioni di assoluta fedeltà al Demonio (atto, questo, cruciale nella ricezione del disco da un lato all’altro dell’apprezzamento tra i fan), sostituite da partiture meno raffazzonate, ricorsi a mid tempo tutt’altro che sporadici e testi calati nell’attualità ormai tipica del Thrash (si passa, sempre nella limitata portata di tre tedeschi appena ventenni, da sacrifici rituali ed invasioni infernali a temi quali l’eutanasia e la futilità delle guerre di religione). Del resto i tempi sono cambiati, e se in Germania c’è qualcuno che può tenere il passo generale dei vari Slayer e Dark Angel, quelli sono davvero i Destruction.

La band

Tuttavia, se dal punto di vista compositivo “Eternal Devastation” rappresenta l’effettivo distacco ultimo dei tre dal primitivismo ancora imperante nella Bundesrepublik, è al contrario la sua produzione a fare di esso un’opera riconoscibile al primo istante di ascolto, oltre a renderlo una più che sicura influenza sull’originale sound design scandinavo divenuto in seguito paradigma di un intero genere: con la sola eccezione forse dei primi due capitoli a marchio Bathory, mai si era udito un suono di chitarra così ronzante su quella che a conti fatti resta non soltanto una pubblicazione ufficiale, ma un secondo full-length peraltro fuori per una label d’importanza per il genere quale Steamhammer, e non un demo registrato in qualche squallido garage di periferia.
Pietre miliari di uno stile retto da impalcature sonore performanti talvolta a scapito del carattere poi ricercato nelle diramazioni nere, i primi lavori dei Destruction raccolgono persino ai giorni nostri critiche feroci per quelle frequenze artigianali catturate al loro picco massimo sul secondo disco in oggetto, spesso da parte degli stessi audiofili che ora lamentano la serializzazione delle uscite ad opera delle grandi major e dei vari Andy Sneap della situazione; invece, “Eternal Devastation” trae forza ed autorialità proprio dai fischi e dagli scricchiolii partoriti dalla motosega a sei corde di Mike Sifringer, il quale con tali imperfezioni frutto o meno del caso si conferma una figura di primo piano nella concezione non certo immacolata delle tonalità acute ed aspre del classico Black Metal scandinavo degli originatori d’oscurità nordica Mayhem e Burzum. Al fianco delle peculiarità produttive vi è d’altro canto un terzetto all’apice massimo dell’ispirazione compositiva tra furore giovanile e maturità, autore di brani fattisi capisaldi per ogni appassionato grazie ad un songwriting evoluto seppur nella sua intuitiva semplicità, vero primo mattone posto a costruzione del ponte che, sempre nel contesto nazionale, va dal caos dei giovani Kreator alle derive technical dei Mekong Delta: l’agilità con cui il riff di “Curse The Gods” si trasforma da cadenzata marcia a galoppo sfrenato, le tante piccole acrobazie proprio dello stesso Sifringer su “Life Without Sense” ed i suoi sfoghi solistici che aprono la nerissima “United By Hatred” come “Eternal Ban” sono oggi forse ordinaria amministrazione per qualunque band Thrash Metal, eppure, calati come devono essere nel 1986, fotografano aspramente il tangibile momentum di un innegabile vuoto tra i Destruction ed una scena ancora lontanissima da capolavori come “Agent Orange” ed “Extreme Aggression”.

Mentre infatti Tom Angelripper era fresco dell’interlocutorio Obsessed By Cruelty” e Mille Petrozza si apprestava a realizzare la summa dell’assoluta feralità teutonica, il Black Metal prima che sia tale ed intitolato Pleasure To Kill”, la truppa del bizzoso Schmier toccava con “Eternal Devastation” delle vette da cui sarebbe stato molto più facile rotolare giù che non spingersi oltre. Se la trasformazione in quartetto e la cupezza emergente dal successivo “Release From Agony” aprono ulteriori possibilità, ciò che viene dopo finisce tra le pagine più nere del genere tutto, e servirà una reunion fatta di tanto mestiere e qualche tocco autocitazionistico per riportare il glorioso monicker a livelli accettabili, prima di perdere di nuovo quella chitarra alta e grattata ripresa nei notevoli “All Hell Breaks Loose” e “The Antichrist”.
Ciononostante, mentre l’utenza generalista continua immancabilmente a ridere alle battute sul succo d’arancia, innumerevoli blackster escono di testa adesso come negli anni novanta per i baccanali lo-fi messi su disco soprattutto in Norvegia e Svezia; nel 1986 quel suono però esisteva già, ma per ironia della sorte fu usato su pezzi che di Black tutto sommato non avevano niente, rendendo “Eternal Devastation” un’opera troppo mal prodotta per i palati raffinati e troppo ben scritta per le bocche buone, almeno stando allo spietato giudizio emesso da un’audience che certi album ha dimostrato di non meritarseli più da ormai parecchio tempo.

Michele “Ordog” Finelli

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