Immortal – “Diabolical Fullmoon Mysticism” (1992)

Artist: Immortal
Title: Diabolical Fullmoon Mysticism
Label: Osmose Productions
Year: 1992
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Intro”
2. “The Call Of The Wintermoon”
3. “Unholy Forces Of Evil”
4. “Cryptic Winterstorms”
5. “Cold Winds Of Funeral Dust”
6. “Blacker Than Darkness”
7. “A Perfect Vision Of The Rising Northland”

Nel primo dì di luglio del 1992, una terza improvvisa fiammata irradia i cieli stellati del Grande Nord illuminandoli a giorno persino durante le brevi ma oltremodo buie notti artiche estive. I pochi abitanti di quei luoghi reconditi non possono comunque dirsi sorpresi, avendo loro stessi già intravisto movimenti loschi tra il numero 56 di Schweigaards Gate ad Oslo e le tortuose strade montane che dalla capitale conducono alla parimenti fiorente Bergen. Ciò che semmai li spaventa è la caratteristica di questi incandescenti tizzoni infernali di provenire dal medesimo, ancora circoscritto falò e ciononostante emanare bagliori sempre diversi: fuochi fatui preannuncianti una qualche calamità da cui proprio per la sua natura mutevole ed adattabile a differenti ecosistemi sarà estremamente complicato salvarsi. Erano stati quei tre viandanti ad inizio primavera a far cadere sull’erba le prime, più grandi e fatali scintille, le quali risaltavano nell’oscurità come l’espressionistico bianco su nero delle loro copertine; poi, dalle nebbie, era comparso a stretto giro quel solitario pellegrino per ravvivare le fiamme con taniche di benzina da utilizzare in chissà quale blasfemo misfatto; ora invece, al sopraggiungere di un altro trio destinato anch’esso a trasformarsi ben presto in un’asse a due poli dalla simbiosi pressoché unica, le lingue di fuoco prossime a devastare una nazione intera da lì ad un largo biennio per poi spostarsi oltreconfine iniziano a prendere la forma del rogo fuori controllo, e dal bicromismo elettrico di chi li aveva preceduti si tingono pertanto di un rosso acceso, pulsante ed orridamente vivo.

Il logo della band

Nonostante ciò gli venga soltanto di rado riconosciuto, quelle tinte cremisi con le quali si manifesta al mondo “Diabolical Fullmoon Mysticism” rappresentano in verità uno snodo fondamentale nella delicatissima fase post-partum dell’appena nato Black Metal: ovviamente “A Blaze In The Northern Sky” ne aveva già da solo garantito il battito vitale racchiudendo in sé, e di riflesso nel genere, tutto il male insito dentro l’uomo di cui si erano volontariamente ed esplicitamente fatti portatori i Darkthrone, al quale in seguito l’entrata in scena di Burzum avrebbe aggiunto ombra e profondità altrimenti irraggiungibili, ma d’altronde è l’ormai trentennale esordio degli in confronto assai meno mitizzati Immortal a completare in un certo senso l’opera intessendo muscoli e legamenti di questa creatura misteriosa – fortificandone lo scheletro eretto dai primi e riempiendo di carne e sangue i vuoti lasciati dalle tridimensionalità aperte grazie al fu Count Grishnackh.
La concretezza figlia dei giorni passati in cantina sotto i truculenti monicker Amputation ed Old Funeral è perciò il tratto distintivo messo sul tavolo da Demonaz ed Abbath, fin dal giorno uno impegnati a mantenere integro il legame tra lo spirito elitario e schivo dei tutto sommato ancora sparuti coevi e la terrena bestialità dei tardi anni Ottanta, onorata dagli allora fratelli Doom Occulta non solo mediante il mezzo musicale ma anche nella spiccata propensione all’effetto speciale, all’eccesso scenico in contrasto alla sfuggente estetica impressionista dei primissimi commilitoni. Solo e soltanto nel 1992 ha difatti senso di esistere l’improbabile paragone tra i norvegesi e le icone del compiaciuto intrattenimento nella musica popolare Kiss, tanto nell’infuocato soffio del frontman scandinavo in onore al demone del tuono Gene Simmons quanto nel malcelato tributo alla celebre Kiss Army racchiuso nel nome del fanclub dei tre debuttanti.

La band

Avvolti tra le spire del settimo parto della francese Osmose Productions, peraltro qui al suo primo contatto con il sottobosco norreno che le garantirà un posto di riguardo nella Storia con l’iniziale maiuscola, vi sono ad ogni modo riferimenti anzitutto strettamente musicali, i quali come del resto in troppe altre occasioni quando si parla di questa band vengono prima messi in secondo piano dall’ingombrante impianto estetico a base di borchie e face painting – e poi apertamente negati accorpando la maggioranza dei lavori al caos di “Battles In The North”. Invece dell’ultraviolenza incontaminata figlia della più pura adesione ai canoni stabiliti dall’amico Euronymous, “Diabolical Fullmoon Mysticism” risulta piuttosto un ipotetico punto d’intersezione tra il retaggio Death Metal degli Immortal e la loro malcelata devozione ai Bathory di fine Eighties, quelli allo stesso tempo epici e sulfurei nei rallentamenti su “Under The Sign Of The Black Mark” e nelle indimenticabili evoluzioni di “Blood Fire Death”. Forse per via di limitazioni tecniche del comunque più che discreto drummer Armagedda, estromesso subito dopo la release ma in seguito rivisto dietro le pelli sia con gli I di Abbath sia con il Demonaz solista, le bordate di velocità vengono ridotte al minimo sindacale e confinate soprattutto alla burrascosa doppietta iniziale, dove in attimi rivelatori quali i concentrici giri di chitarra nel cadenzato ritornello di “Unholy Forces Of Evil” si percepisce in effetti l’ancora bruciante passione per i Morbid Angel ed altri araldi del metallo mortale che un tempo spopolava pure in terra norvegese; sarà senz’altro l’arrivo del ben più virtuoso Horgh a lasciar briglia sciolta ai due mastermind nella girandola di riff mandata in stampa un lustro dopo col nome di “Blizzard Beasts”, album con cui il debut condivide anche delle frequenze alquanto ribassate (benché qui meno secche e delineate) che per nulla ne suggeriscono la provenienza dai Grieghallen del futuro demiurgo Pytten.
Sopravvissuti al turbolento atto introduttivo, è dunque Quorthon ad assurgere ad ispirazione maggiore per il resto delle composizioni: impossibile ad esempio, mentre le casse diffondono le baldanzose sei corde acustiche o il solo stridente di “Cryptic Winterstorms”, non lasciar correre la mente all’Odino che nell’88 cavalcava sulle lande nordiche in attesa di un buon giorno per morire. Non manca di certo lo spazio per una magnifica “Blacker Than Darkness” la quale cambia nuovamente il mood attraverso il suo Thrash imbastardito dalla compiaciuta malignità del trio, ma si tratta in fondo solo un rapido tuffo nelle gelide acque dei fiordi prima della traversata dalla sala prove al pantheon del metallo nero, sulle note di quella che è soltanto la prima delle grandissime closing-track che gli Immortal hanno saputo regalare al pubblico nella loro carriera. L’aggiunta di una saggia voce pulita e l’innesto repentino di tastiere avvolgenti non fa che sbrogliare una volta ancora il filo che collega i giovani strumentisti al leggendario bardo svedese, ed “A Perfect Vision Of The Rising Northland” più che un brano è un vero, autentico manifesto della bestiale orda che da lì a pochissimo, con un “Pure Holocaust” proveniente da un’altra dimensione, siederà sul trono della musica estrema tutta. This winter is forever ci ringhia addosso un Abbath molto diverso da come lo conosceremo nel giro di un altro album, quasi a proclamare che i prossimi mille anni sarebbero stati (anche) loro.

Perché del resto gli Immortal ci sono sempre stati. C’erano a metà anni Novanta quando si doveva tirare fuori la più radicale interpretazione dell’ormai delineato codice Black Metal; c’erano alla fine del secolo quando bisognava dimostrare che evoluzione non facesse per forza rima con intellettualizzazione, e c’erano anche ad inizio millennio assieme a pochi altri per dare degna sepoltura al primato norvegese con “Beyond The North Waves”: un po’ la spirituale chiusura del cerchio rispetto alla perfetta visione posta a conclusione dell’esordio concepito un decennio esatto addietro. La saga di Abbath e Demonaz, come quella di pressoché ogni altri artista, non ha in fin dei conti genesi fortunatamente col miglior episodio della loro carriera bensì con quello che invece meno di tutti cerca di dissimularne le fisiologiche influenze, e che perciò finisce col manifestare già da principio non tanto il futuro quanto il significato di un gruppo all’interno della propria cerchia crono-geografica.
Compito degli Immortal era e rimane infatti quello di ricordare a chiunque, fan o addetti ai lavori che siano, cosa in effetti sia il Black Metal, senza le sovrastrutture mentali di Fenriz e senza le provocazioni di Hoest; e di conseguenza far impallidire così al loro confronto chiunque voglia appropriarsi di tale linguaggio senza meritarlo, il quale potrà giusto rotolarsi dalle risate di fronte al mitologico video di “The Call Of The Wintermoon” (a suo modo un reperto storico dell’epoca, oltre che lezione assai utile all’odierno Abbath su come nulla sia più sinceramente divertente della pretesa serietà) per poi passare lesto alla prossima band preferita per appena un pomeriggio. A questo scopo e nei suoi voluti limiti, “Diabolical Fullmoon Mysticism” continua ad essere un punto di partenza del tutto perfetto nelle sue ingenuità come nella sua enorme carica visionaria: chiaro nei suoi malvagi intenti ed orgoglioso del proprio ruolo di rozzo ariete in una discografia tra le migliori uscite dalle fredde lande settentrionali, il cui blasone va addebitato anche alla spregiudicatezza dei suoi autori nell’aver osato porsi come una semplice, onesta Rock band mentre intorno a loro chiunque, potesse permetterselo o meno, voleva essere qualcosa oltre.

Michele “Ordog” Finelli

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