Artist: Blut Aus Nord
Title: “777 – The Desanctification”
Label: Debemur Morti Productions
Year: 2011
Genre: Avantgarde Industrial Metal
Country: Francia
Tracklist:
1. “Epitome VII”
2. “Epitome VIII”
3. “Epitome IX”
4. “Epitome X”
5. “Epitome XI”
6. “Epitome XII”
6. “Epitome XIII”
Il processo di rottura, di consapevolezza e ascesi intrapreso nel 2011 con la trilogia 777 dal solo Vindsval e dal suo transfer artistico Blut Aus Nord arriva pochi mesi dopo “Sect(s)” ad uno snodo cruciale, svuotante e rivoluzionario in termini, che assume l’emblematico titolo di “The Desanctification”: corpus transitorio tra quello che da un’ottica privilegiata dal passare del tempo può essere definito come una sfera ribollente luci e demoni cangianti sospesa in un perpetuo equilibrio tra il percepibile e il trascendente, va a rappresentare in movimenti e sensazioni il peso dell’ineluttabile irreversibilità di un ciclo di trasmutazione spirituale arrivato ormai ad un punto di non ritorno. Assumendo tutta la profondità di un’opera la cui costruzione si fa sempre più complessa e impregnata di suggestioni simboliche fitte di riferimenti religiosi sincreticamente archetipali in un’ottica umana a tutto tondo, gli scenari qui tracciati dal musicista francese sono quanto di più caratterizzante e unico sia stato prodotto nella sua discografia fino a quel momento, nonché tra le uscite più particolari e trasversali del panorama Black Metal del nuovo millennio, disorientando ancor più del naturale predecessore nel suo privare sistematicamente di punti fermi e raggiungendo picchi di disperato intimismo precedentemente forse solo toccati in “Mort”: un’emanazione artistica insomma fuori dal comune che, in modo inatteso e intangibile, tira le fila di tutto ciò che è stato fatto da “The Work Which Transforms God” in poi, ne destruttura gli strumenti e rielaborando linguaggio e obiettivi va infine ad incastonarlo al centro di uno dei progetti più estrosi, ambiziosi e privi di schemi della musica contemporanea.
Cosa può dunque esserci dopo l’apocalittica epifania raggiunta in “Sect(s)”? Come può anche solo concepire la sensatezza della ricerca di una via, una scappatoia, una risoluzione, l’essere che per un istante ha percepito l’innata limitatezza di sé? Tutta la rete sociale, culturale, storica, logica e perfino teologica nella quale -e per la quale- i movimenti di ogni singolo individuo si compiono e sembrano assumere un significato si lacera irrimediabilmente sotto gli occhi impotenti del suo stesso artefice e l’illusione di una serenità vissuta nella bolla di un’effimera libertà implode nell’ecpirosi di una menzogna chiamata “libero arbitrio”. A vacillare non è più soltanto il tessuto comunitario ma perfino la figura di Dio e, a ritroso, quella di colui che ha avuto l’ardire e la necessità prima di immaginarlo, poi di percepirlo e venerarlo: l’uomo stesso. Da quell’attimo di tragica comprensione tutto si riduce ai minimi termini, all’istinto e all’ingenuità di un bambino che si domanda dove il mondo sparisca quando tiene le palpebre serrate e che, dopo decine di migliaia di anni, capisce che riaprirle non lo aiuterà ad ottenere una risposta; ciò che nelle sei tracce del primo capitolo assume i connotati di un rabbioso moto d’ira e raccapriccio in seguito ad un’irruente e sconvolgente scoperta, qui si attenua nella disillusione più svuotante e nel terrore cieco della solitudine e dell’inafferrabile comprensione esistenziale.
Se gli obliqui e adattabili ingranaggi dell’Industrial vengono storicamente utilizzati in musica per portare avanti un iter critico e concettuale di deumanizzazione, confrontando dunque la fallace mollezza umana alla macchina e all’innovazione tecnica, scientifica e urbana, spesso vissuta come aberrazione e simulacro di un’agognata perfezione in un compenetrarsi carnale cronenbergiano di due esseri altrettanto incompleti, “The Desanctification” interpreta qui (come in tutti i lavori dei Blut Aus Nord più maturi) il genere in un magma di influenze e immagini trasversali disciolte nelle miscele più impensabili, eradicando e rielaborando con procedimenti antiparalleli persino gli intenti del linguaggio originario. E per rappresentare il rapporto che intercorre fra uomo e dio in un momento di profonda disillusione, in un moto di radicale nichilismo altrettanto fatale, ha luogo il passaggio che da deumanizzazione diventa una metodica e puntuale desantificazione: una desacralizzazione spietata di sé, una decentralizzazione del proprio ruolo e una conseguente rivoluzione dei principi morali e logici che prende piede in risposta al fatale errore della vita terrena.
Laddove un apparato concettuale così intricato e profondo viene rappresentato in una quantità di elementi extra-musicali estremamente limitati e che si riducono quasi esclusivamente al seppur magnifico artwork ad opera di Valnoir, sorge spontaneo domandarsi come possa e riesca un disco uscito pochi mesi dopo il precedente a veicolare immagini e pensieri recanti una così netta spaccatura ideologica: l’occhio della divina provvidenza, incrinato, si ribalta riversando sangue ardente e, sebbene l’enumerazione in capitoli dell’Epitome proceda ordinatamente riprendendo emblematicamente proprio dal settimo capitolo del percorso, la sensazione è che il concetto di sequenzialità sia ormai appannaggio di una visione superata, non ascrivibile allo storicismo abramitico e solo vagamente figlia di una circolarità norrena già dissezionata in altre uscite a nome Blut Aus Nord. La percezione di stasi e profonda stagnazione di “The Desanctification” abbraccia solo in minima parte la dissonanza arida e detonante di “Sect(s)”, andando oltre quel principio di azione-reazione di impronta deterministica che palesa i limiti dogmatici; tutto ciò che procede qualche mese prima per memorie muscolari si discioglie ora in movimenti profondi e fuori fuoco, riecheggianti spazi più ampi e vuoti in cui la viscerale melmosità dei Godflesh si sovrappone questa volta a vibrazioni elettrostatiche ellittiche e avvolgenti in un’ossessiva e sfumata IDM presentata come la versione oscura, maledetta e quanto mai astratta di Autechre e Amon Tobin. Questa stratificazione dai connotati splendidamente Dark si traduce in brani ipnotici, densi e spiraleggianti, in cui ogni rivoluzione porta con sé una minuta variazione, un crescendo che poi decorre, o una nuova traccia che si insinua per degenerare in cacofonia. Progressioni organiche e schemi rigidi perdono di significato insieme al concetto di tempo ormai per sempre abbandonato, privo di significato per il narratore Vindsval, a questo punto della trattazione aggrappato con forza all’hic et nunc posto all’origine del diagramma di Minkowski, nell’origine centrale di quella clessidra temporale sospesa tra i triangoli sacri di passato e futuro, percepiti come fin troppo umani per poter competere con il fascino del vuoto cosmico lì nel mezzo sospeso.
Di pari passo, il modo in cui il Black Metal si diluisce e si avvinghia al fluire eterogeneo delle otto tracce viene come conseguenza al processo di perdita di riferimenti: contrasti e giustapposizioni antitetiche si smarriscono nel divenire e la componente del genere Metal estremo per eccellenza, per quanto permei il lavoro nel suo approccio metafisico e strutturale irriverente e sovversivo, va a privarsi di quegli sprazzi nervosi e squadrati sfruttati anche nell’immediato passato del progetto, donando una nuova foggia a quel riffing atonale e bieco a metà tra la corrente Religious stabilmente definitasi in quegli anni e uno spettro in frequenze maggiormente vicino al Death Metal. Nel momento in cui infatti alla figura terrena si associa l’abominio, la discontinuità, e -al contrario- si tende al vuoto totalizzante in cerca di una risposta, si inverte bruscamente la naturale tendenza antropopoietica: i legami di dipendenza profonda fra simili o nei confronti di un essere superiore passano dall’essere necessari al divenire banditi rigidamente e la dissonanza umana cede il passo a spazi opachi e altrettanto sterili, ma in qualche modo più vicini a quella completezza identificata nell’assoluto cosmico e totalizzante ancora intangibile e che si esplorerà definitivamente nella sezione conclusiva della trilogia. La diretta conseguenza è la caratterizzazione delle chitarre verso toni più avvolgente e morbidi, la scelta di un suono più pulito atto a risaltare le singole componenti pur nella loro formidabile coesione e l’insinuarsi di linee melodiche che non rendono affatto più malleabile o solare il sound, ma gli conferiscono il fascino misterico, ritualistico e fluttuante dei vocalizzi di una Lisa Gerrard.
“The Desanctification”, capitolo dunque centrale di una triade dialettica mesmerizzante e sconvolgente che si completerà l’anno successivo nella volatilità nera e libera di “Cosmosophy”, è l’antitesi infuocata che fa della ciclicità l’espressione di un tumulto represso e che mette a repentaglio ogni base strutturale; un passaggio transitorio fino alle sue profonde fondamenta, ma unico ed irripetibile a sé, dalle plurime sfaccettature e dalle infinite chiavi di lettura, in una concezione dai più livelli interpretativi concatenati in ottica orientale non distante dalle molteplici vie del Dhammapada buddhista; nonché un’uscita che, insieme agli altri due frammenti, si staglia sola nel panorama musicale –Metal e non- come esempio di avanguardia pura volta ad una visione d’insieme coerente ed elegante. Un capolavoro che assume le forme di un viaggio doloroso fra i pulviscoli del disfacimento esistenziale e artistico, tra le ceneri ancora ardenti e dai riflessi aurei che si depositano come lacrime incandescenti sulle carni di un individuo che fa le veci di un’intera razza e che, rinnegata prima la gabbia di ossa e pelle a favore del vuoto e del tutto, si ritrova infine a rifiutare anche il terreno arido del nichilismo più intransigente. Alla disperata ricerca di una scheggia di luce nella notte.
– Lorenzo “Kirves” Dotto –