Artist: Beltez
Title: “A Grey Chill And A Whisper”
Label: Avantgarde Music
Year: 2020
Genre: Black Metal
Country: Germania
Tracklist:
1. “In Apathy And In Slumber”
2. “The City Lies In Utter Silence”
3. “Black Banners”
4. “A Taste Of Utter Extinction”
5. “The Unwedded Widow”
6. “From Sorrow Into Darkness”
7. “A Grey Chill And A Whisper”
8. “I May Be Damned But At Least I’ve Found You”
9. “We Remember To Remember”
Estremamente difficile dimenticare il nome Beltez dopo l’assoluta prova di forza intrisa di morte e sconforto registrata con il sorprendente “Exiled, Punished… Rejected”, praticamente un debutto spirituale per l’affermazione di una band che giunge all’ascolto nel 2017 decisamente diversa qualora confrontata stilistico-qualitativamente con ciò che aveva mostrato di saper regalare precedentemente alla gestazione del suo terzo full-length; del resto, e ancor più sensibilmente in risultato che forse non sulla mera e già eloquente carta, il collettivo di Colonia è ormai stravolto per criteri di songwriting (passati dalle sole mani di Dominic Kappelhoff al lavoro di gruppo con Jens Klenke ed altre tre menti all’arrangiamento) e con il successore in studio del terremotante ultimo album è ormai altresì chiamato a sgomberare l’attico dal tanfo stagnante dell’ipotetico colpo di fortuna e del sospetto di una casualità. La scelta degli strumenti con cui adoperarsi alla scrittura di un diretto superamento in intenti, delle bandiere color fuliggine tenute alte durante la creazione di quel “A Grey Chill And A Whisper” che mostra ancor più ambizione e complessità strutturale, nonché maggiore fluidità rispetto al precedente e più intricato parto nel corpus della band, figura e suona qui come una risposta in continuità che non compie inutili giri di ruota nel pantano, bensì s’inerpica ancor più in alto sulle robuste e fitte fronde di un albero che ha invero radici profonde, secolari – che è manifestazione umana di un terrore traumatico, recondito e senza tempo.
Nel caso del quintetto tedesco è infatti il mondo della letteratura narrativa e della scrittura creativa d’autore, del micro e macrocosmo creato dall’abilità di penne fantasiose ed intelligentemente metaforiche il grande motivo di sodalizio con il mezzo di un Black Metal doloroso e resiliente, contemporaneo e da incubo, melmoso e dal sound spesso, abbondantemente rigonfio di panico, serpentinato dall’oscurità monolitica di scelte stilistiche, timor tonale ed armonico persino più prossimo agli adombramenti Death Metal che non tipicamente nero nella sua accezione atmosferica a cui con evidenza i Beltez guardano. I colori pressoché assenti, il trionfo del grigio velatamente trapuntato di emotività che sbuca da lead chitarristici dal sentore sibillino proveniente da cattedrali Ascension (come non ricordare, nel tentativo di descriverli a parole, l’assolo di estremo gusto e riuscita sul finire della imponente quanto trascinante “The City Lies In Utter Silence”) è ammorbato dal tono medio e vorticoso dell’inconfondibile scuola Morbid Angel (seppure privato della sua e tipicamente associatavi schizofrenia ritmica) già ampiamente convogliata nel Black Metal dilatato dalle band più famose e pesanti durante il dilagare orizzontale del calderone Post- (viene in mente la Britannia dei Wodensthrone di “Curse”, quantomeno) ma rimaneggiate con l’oratoria di granito e ferro, nonché reso qui ancor più paludoso benché venga al pari ripulito nelle sue frequenze più anarchiche, che fuoriescono così maggiormente quadrate e controllate, uniformi e fangose ma grandiose nella loro soverchiante aggressione che finisce per essere sì statuaria (un potenziale innegabile che trova il suo archetipo strutturale tanto in quello dei The Great Old Ones più diretti quanto nei Mare Cognitum meno prolissi e più inventivi), ma riletta secondo un tipico flavour dall’arroganza irruenta e tagliente tutta tedesca poi filtrata in una serratura Dark che è più vicina ancora alla sensibilità di proposte apparentemente aliene al genere come i Fvnerals, e invece più prossime come gli Ultha, ma con ben altra dinamica.
Una produzione dalla resa potente acuisce fin dal primo, ossimorico urlo di disperato inneggio al silenzio la densità delle composizioni costantemente saturate di basso in progressioni che seguono la violenza titanica di gran parte delle soluzioni su cui i Beltez vanno oggi a parare quando non rallentano (pregevoli nell’incipit a contrasto di “Black Banners” col favoloso finale della precedente opener-track), momenti che in particolare crescono di sensibile valore solo con l’aumentare del numero di ascolti perché inizialmente così uniformi nella loro appartenenza ad un blocco ritmicamente opposto alla furia dell’altro (che vi fa da contraltare ben più soventemente) da risultare sulle prime quasi assuefanti. La verità è invece che sono questi a regalare ancor più grande carattere proprio al ricorso pressoché continuo a soluzioni soverchianti in blast-beat (spesso, va detto e sottolineato soprattutto riguardo ad una parte centrale di lavoro in cui questo è croce e delizia, fin troppo esagerato sia in quantità numerica che monotematicità espressiva di cui i Beltez fortunatamente non sono affatto portabandiera – alibi specialmente evidente nella tranche iniziale e finale del disco), ed alcune delle più preziose performance vocali sono spese proprio mentre i bpm orditi dalla batteria calano vertiginosamente; stesso discorso vale per le inquietanti distensioni Dark Ambient, tanto quando prese a sé nella spettrale introduzione -che fa rimpiangere la band non abbia scelto di impiegarle ulteriormente- quanto integrate cum grano salis nelle canzoni come nel caso di “A Taste Of Utter Extinction” o all’inizio della successiva “The Unwedded Widow”.
In strutture apocalittiche generalmente calanti e dall’architettura fatiscente, deliziosamente fané, a continuo crollo su sé stessa coerentemente con le atmosfere plumbee e cineree quando non ferrigne, il concentrato ricurvo e scultoreo di riff macina perentorio chilometri in secondi – i ritmi chirurgici per tenuta tritano mura e granito come fossero franata sabbia e volante polvere dispersa in aria che viene risucchiata dal vuoto interiore che la composizione fredda ed annichilente dei Beltez trasuda (le reiterazioni ipnotiche della decadente “The Unwedded Widow” ne siano nuovamente esempio) prima che le sezioni possano farsi sempre più claustrofobiche in un gioco al massacro che si ferma giusto in tempo, dando tutto il possibile all’avventore prima di divenire eccessivamente ridondante e prevedibile, o perdere di mordente.
In uno sforzo notevole di coesione complessiva ferrea, nonostante spesso il timing musicale sia eccessivamente dilatato seppur per comprensibili motivi di narrazione che, tuttavia, sono talvolta curati a scapito della fruizione ottimale del disco in ogni suo passaggio (la storia, a sua volta intitolata “Black Banners”, è un romanzo di orrore fantascientifico breve appositamente scritto dalla connazionale Ulrike Serowin per essere letto ed ascoltato tramite il disco congiuntamente scritto dalla band in un’unica entità), assolutamente avvincente risulta infatti la scelta di legare ogni capitolo al precedente senza pause, facendo in modo che una sezione strumentale sfumi nell’altra con una naturalezza che non ricorre tanto a tagli coperti da fade per tradire mancanze in fatto di scrittura composita e visione, quanto invece la lungimiranza notevole che risiede nell’osservazione di brani anche lunghi e complessi come singole propaggini della stessa vicenda umana che i Beltez vogliono narrare al di là di quella adattata e poi incastonata nelle liriche. E se in tal senso il passaggio che lega i ritmi di marcia funebre e militaresca di “Black Banners” ad “A Taste Of Utter Extinction” è decisamente emblematico, la sezione centrale del disco vede il gruppo farsi più riflessivo e malinconico in un percorso ad ostacoli che vengono appositamente montati per poi essere totalmente spazzati via a partire dall’interludio “From Sorrow Into Darkness”, che insieme all’interezza della precedente traccia fa da ponte verso il nulla trascendente in cui la band si lancia da quel momento senza più un attimo di sosta esecutiva, tra l’esiziale intensità di motivi catacombali nella title-track “A Grey Chill And A Whisper” (con le sue assassine parti interne rallentate, così quanto gustose sono quelle finali in cui sbuca -più palesemente che altrove- la vena melodica del gruppo a metà tra lo stridente e l’acuminato) e le inaspettate conclusioni di classe e stile strisciante (con un basso tanto bugiardo quanto irresistibile) ed atrocemente trascinato à la Triptykon in “We Remember To Remember” -autentico bacio di Giuda, infinitamente più di una coda- dove i Beltez fanno del puro male nero pece a un ascoltatore a quel punto in balia della capacità dei nostri spesi nel realizzare il loro brano più splendente in assoluto. Il magistrale commiato è però preceduto dal quarto d’ora condensato in “I May Be Damned But At Least I’ve Found You”, quasi una cornice con la ripresa iniziale dell’introduzione dell’album, in cui i pinnacoli di grandeur compositivo torreggiano esotici per le scelte melodiche nel momento in cui marmoree si distendono ed impallidiscono tra un morso ritmico e l’altro prima di chiudersi in volute dall’afflato romantico, oscuro e squisitamente epico; non solo riassunto del viaggio celebrato con la maestria del non detto e dell’appena suggerito, ma consacrazione finale dell’intero “A Grey Chill And A Whisper” quale fruttuoso superamento rispetto al già riuscitissimo capitolo precedente.
I Beltez insomma riscrivono (anche se forse non sempre a penna indelebile e sporadicamente con lievi tratti in grafite) gran parte delle loro influenze con inventiva e gusto personale, rendendo l’ascoltatore realmente partecipe dei loro incubi e delle loro paure più pietrificanti, immobilizzanti perfino quando sono i loro stessi padri putativi a provare a tagliarne fuori alcune tra le meno perversamente attraenti, rivestendole però sempre di una roboante tragedia illusoria che rifugge il pericolo di mera costumanza stilistica. Entro gli angusti confini di emozioni prettamente negative, in un maremoto di melma ed abbattimento, l’ora abbondante regalata quale ultima offerta all’appello è una che ricorda all’ascoltatore di dover ricordare qualcosa ma senza che questo possa realmente afferrarlo, narrando così della sistematica e fisiologica impossibilità alla memorizzazione degli errori affinché questi possano non essere reiterati (e gli esempi virtuosi, ne consegue, perennemente scordati), attraversati e sfidati con la tenacia di cui chi crea musica ricca di sfiducia e desolazione cataclismica ove si possano nascondere ben più domande che risposte: i Beltez vi infondono le loro, le più angoscianti ed esistenziali, alla ricerca della seconde con abilità e riuscendo con successo a non restare schiacciati, come invece molti altri, dal peso enorme ed insostenibile del mondo.
– Matteo “Theo” Damiani –