Ygg – “The Last Scald” (2020)

Artist: Ygg
Title: The Last Scald
Label: Ashen Dominion Records
Year: 2020
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Ucraina

Tracklist:
1. “Mertvie Topi”
2. “Poslednyi Ckald”
3. “V Nadejde O Vechnom”
4. “Visa Probudgenja”

Mentre le Norne eterne tessono imperturbabili il loro filo, decidendo incuranti le sorti imperscrutabilmente cicliche di morte e rinascita del cosmo, nove rune vengono incise -i loro intagli magici irrorati di rosso scarlatto con sangue appena versato- e raggruppate in guisa di maledizione alla fonte del destino: all’indomani della battaglia finale tra i giganti di ghiaccio e le legioni di Hel, nella tempesta di grandine e neve che la preannuncia allo squillare dei corni d’oro, si intravede fare ritorno dalle lande desolate di Utgard il trio ucraino che deve alla quercia del mondo nella mitologia cosmogonica slava il suo nome, romantica figura trafitta da lance e frecce di un ciononostante vittorioso, quanto inaspettato, ultimo e nobile rimatore scaldico alla feroce ribalta del sottogenere più dilatato del Black Metal.

Il logo della band

Il solstizio d’inverno che marchia lo storico avvenimento segna metaforicamente il rinnovamento che avanza in perpetua ripetizione, la nuova vita farsi largo in un cammino che riprende, legato a doppio filo col passato ma più vigoroso ed attuale che mai – e gli Ygg, da quasi una decade già indimenticabili protagonisti della via slava al Black Metal atmosferico per merito dell’ispiratissimo, omonimo debutto su full-length (un titolo all’apice massimo della declinazione stilistica diatopica in un contesto artistico peraltro da sempre florido qualora si guardi alla proposta in esame – tra Walknut, primi Drudkh, Hate Forest, nonché gli stessi Ygg per nominarne giusto una manciata), lasciano trascorrere non meno di nove anni per farsi ritrovare con estrema naturalezza da quell’inviolato filo e raggiungere così la perfetta metafora di concezione esistenziale che è il ricchissimo Atmospheric Black Metal da loro plasmato: se l’inizio e la fine sono, per contrasto, disegno di paletti certi ed assodati, non è difatti un destino già scritto e ciclico a poter bollare di prevedibilità l’operato degli ex-Nokturnal Mortum dell’aureo periodo “The Voice Of Steel”, sono altresì gli sviluppi interni alla musica a donarne tutta la più inesauribile linfa vitale, una fatalità scarna che adorna le composizioni di stupore e con essa l’ammirazione che ne sgorga, a cascata continua, di fronte ad una inafferrabilità ipnotica di fondo che si fa oggi rigonfiata cifra stilistica per trasmettere a livelli inediti gli scossoni passionali che vi ribolliscono sotterranei; il viscerale marchio, insomma, d’estensione in interesse che condensa in quattro lunghissimi brani la riuscita di un album prezioso e di inaudita intensità, di algido ratto emotivo e squisita poetica come vetta tendente al sublime in cinquantacinque minuti di timing.

La band

Corde profonde vengono pertanto sfiorate e poi recise brutalmente dalla tormenta di sentimento che “The Last Scald” evoca all’ascolto, con la sua costruzione atmosferica a tensione accresciuta, accumulata a strati, mentre le sinapsi si distendono nonostante l’aggressione -e restano progressivamente sempre più inermi- dinanzi al gelo che le ripetizioni infinite nella sezione ritmica generano cristalline; si nota chiaramente e fin da subito come il raffinatissimo gusto degli Ygg permetta loro di utilizzare sapientemente qualunque mezzo a disposizione pur suonando sempre estremamente coesi (a benefica dimostrazione di doti d’astrazione invidiabili) e raggiungendo la quintessenza del medesimo intento: non esiste mutazione in risultato finale né storytelling, difatti, nemmeno qualora si vogliano confrontare antipodi stilistici come gli ingressi affidati all’inquieto Ambient accompagnato dal valore rituale di scacciapensieri (nella fattispecie, varie versioni del vargan di origine slava, in comunanza semiotico-mitologica coi primi Helheim) e percussioni acustiche (il tamburino sciamanico tradizionale à la bodhrán), e persino dalle inaspettate basse frequenze stese da un gioiello esecutivo come lo shakuhachi (flauto da meditazione giapponese), con quello che è invece l’approccio rarefatto e travagliato alla materia elettrificata e Black Metal; quest’ultima viene costantemente sovraccaricata di slancio eroico e drammatico grazie al persistente scattering di dettagli eterogenei che perforano con soluzione di continuità la coltre di violento candore mediante finezza ed eleganza vibranti, in modo da bilanciare l’ipotermia sinestetica con elementi di eccitazione che rendano l’ascolto continuamente appagante fin dai primi giri dell’album nonostante la forma canzone sia -per tratti stilistici- totalmente adombrata dalla veemenza delle reiterazioni.
Le urla strazianti che lacerano impietose, acute, la manipolazione introspettiva sui sintetizzatori che disperdono il vuoto nei rintocchi gelidi di sequencer (i cui passaggi e tappeti più cosmici sbucanti dalla furia della tempesta ritmica generano invece immagini nitide per urto ed antitesi, inducendo persino ulteriormente allo stato di trance già esacerbato dall’uso della droning note centrale), o le variazioni minime -eppure imprescindibili- nel dettagliatissimo riffing, carico di dramma, operoso nello strappare il fiato con accordi aperti e nel distendersi intricato per frequenze, finanche ipnotico in melodie cariche di disperazione e nostalgia mentre il basso ricama arabeschi dal sapore tradizionale (“Poslednyi Ckald” e “V Nadejde O Vechnom”); oppure ancora le rullate, i fill-in e il gioco di piatti sparpagliato con estremo gusto melodico dalle linee batteristiche in toccante sinergia con le sei corde – tutto, insomma, in ognuno dei quattro e parimenti crucialissimi episodi di “The Last Scald”, è minuto dettaglio d’indispensabile importanza all’approccio orchestrale che il trio usa per scrivere musica tragica, fatta di lunghissimi climax, spannung temporali che sfumano risolvendosi in picchi ancora più alti di tensione strutturale da maestri, sua volta bagnata di ramificazioni progressive per narrare l’eternità in un minuto, e per far volare le lunghezze di quarti d’ora (abbondanti, nel caso dell’opener “Mertvie Topi” che non si fa mancare nemmeno una coda che sfuma nella pesantezza schiacciante di fattezze quasi Funeral Doom) come fossero canzonette. I solchi lasciati nel troncone successivo sono tuttavia sempre indelebili, forgiando l’interezza dell’album in un acciaio sfavillante, tanto concreto nella resa quanto impalpabile nella rilucenza di minuzie e temprato di una longevità capace di far emergere sfumature in crescente numero anche dopo mesi di ascolti: un platter che fa della sua sconcertante voluminosità atmosferica (l’implemento del parco di strumenti acustici impiegati dalla band è, difatti, solo una delle ben più ampie e sviscerate premesse) il mezzo primo per restituire il continuo vagabondare, il turbinare avvolgente e impareggiabile nella sua forma, della ricchezza d’immagini mitologiche che godono proprio della base di staticità del genere (da cui gli Ygg si smarcano da ultimo con forza) e della rotondità della composizione per realizzare continue perifrasi stilistiche sulle ali di un pathos mozzafiato come vessillo.

Complice la resa manifesta di una maturazione tra distinti capitoli che nel suo ambito ha pochissimi pari, gli Ygg congiurano dunque in “The Last Scald” qualcosa che va di svariate spanne oltre l’essere un indiscutibile ritorno d’eccellenza, un secondo capitolo che -nonostante gli anni trascorsi dal già memorabile debutto compongano quasi un’intera decade- possa essere valso ampiamente una fantomatica attesa: perché il secondo full-length di quella che era e (a ragion maggiore oggi) si riconferma essere una delle più splendide realtà ucraine di sempre -senza nemmeno la necessità di diversi ascolti per comprenderlo ma con la dovuta consacrazione di svariati giri nel lettore per la sua bontà- è un’autentica gemma di magia apotropaica in musica, un disco da brividi che stimola l’inconscio e rammenta con splendore iniziatico cosa questo genere di musica possa arrivare a trasmettere – un’opera d’indescrivibile intensità e saggezza in consapevolezza, una clamorosa bufera che avvolge con forza strangolante e delicatezza distensiva al pari, che sferza, strazia di dolore, e che con gelo e bruciore sconvolgente dilania la pelle.
Pochi eletti al mondo sono in grado di raggiungere un risultato tanto straniante in musica simile; ancora meno di incidere quello che, senza remore e con la grazia dei predestinati, si candida ad essere apogeo qualitativo in ambito squisitamente atmosferico dall’est Europa, in una nobiltà di lignaggio che parte dal sempiterno lanternino “Hvis Lyset Tar Oss”, passando sicuramente il filo tramite una pletora di tasselli illustri, per tuttavia giungere all’eternità nell’hic et nunc con “The Last Scald”. In una parola: definitivo.

Matteo “Theo” Damiani

 

Precedente Aprile 2020 - Frangar Successivo Weekly Playlist N.17 (2020)