Vinterland – “Welcome My Last Chapter” (1996)

Artist: Vinterland
Title: Welcome My Last Chapter
Label: No Fashion Records
Year: 1996
Genre: Melodic Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Our Dawn Of Glory”
2. “I’m An Other In The Night”
3. “So Far Beyond… (The Great Vastforest)”
4. “A Castle So Crystal Clear”
5. “As I Behold The Dying Sun”
6. “Vinterskogen”
7. “Still The Night Is Awake”
8. “A Vinter Breeze”
9. “Wings Of Sorrow”

Nel solco alato della tragedia umana, quello romantico di coloro in particolare il cui nome è rimasto scritto fugace in acque torbide e inquiete, nello slancio verso l’eternità di chi sa che tuttavia la propria alba di gloria presto o tardi verrà, fosse anche con la carne ormai sotterrata nella tomba, si inserisce un capitolo per anni rimasto inevitabilmente sepolto sotto le pesanti sabbie del tempo smosse e poi compattate dall’ombra comprensibilmente enorme di chi, con tanta forza da oscurarne persino i pur più pregevolissimi proseliti graziati da una visione d’insieme distinta e talvolta anche abbastanza lontana dal nome assurto alla sempre ambivalente e spesso equivoca posizione di padre putativo quando non involontario di un genere, o di una corrente, a tutto questo ha dato origine.

Il logo della band

Così è già nella fenditura malinconica di una chitarra acustica doppiata dal sintetizzatore ricco di mistero, nel finale dell’eloquente opener “Our Dawn Of Glory”, che agrodolce si insinua probabilmente tutta la poetica per un solo ed irripetuto istante prestata al mondo del Melodic Black Metal dai Vinterland. Nel 1995 il panorama svedese, prima ancora di quello mondiale sulla sua scia, conosce infatti uno di quei momenti rari con cui -nel solitamente altrimenti fluido evolversi della storia- si può tranquillamente marcare un prima ed un dopo: lo sconvolgente “Storm Of The Light’s Bane” mostra, con l’intensità ed il genio di nessun altro prima di lui, le potenzialità della melodia più arcana e diabolica vibrante come filo spinato in note nere; gli esempi precedenti ed immediatamente coevi si sprecano e si sprecheranno ancor di più nel giro di qualche mese differenziandosi nei casi più pregevoli, benintesi, ma quella che è una indiscutibile tendenza di approccio già evidenziata dai primi, strettamente coevi album di Unanimated (e specialmente del secondogenito “Ancient God Of Evil”), Dawn e Mörk Gryning del solo “Tusen År Har Gått…”, trova in quello che è il più iconico dei dischi svedesi del 1995 nel suo movimento un punto di non ritorno per linguaggio e sfumature di un’oscurità che è ineditamente vellutata, sulla cui memoria ed impronta di suono innanzitutto si susseguono una pletora di band ispiratevi con alterni risultati; i cui rispettivi metri di grandezza sono, in fin dei conti con ben poca sorpresa, direttamente proporzionali al quantitativo di unicità proposta quasi in sfida ai giovanissimi maestri moderni. Lo dimostrano non soltanto la longevità che si fa autentica immortalità degli outsider più ostici ma evidenti come Arckanum e Nåstrond (entrambi debuttanti proprio nello spartiacque nazionale che è il medesimo anno), ma anche l’esempio sicuramente meno estremo di chi è riuscito ad assimilare invece una lezione di bruciante attualità in tempo zero, a vivere un humus creativo che è zeitgeist compositivo e in questo preciso caso quasi un inconscio collettivo locale, tramutando esperienze fisiologicamente e geograficamente comuni in musica, andandovi oltre e diventando quell’un altro, forse apparentemente non meglio specificato ma di non minore personalità nella grande notte della tradizione.

La band

Proprio sotto questa precisa luce d’analisi i Vinterland, incarnatisi nel loro unico lascito su full-length, si dimostrano fedeli al più grande e al contempo profondamente diversi da qualunque tentativo ed esperimento di similare natura nel periodo – come probabilmente anche in quelli successivi: calcate pedissequamente le orme di suono degli Unisound, di uno Swanö che come spesso accade in quegli anni è peraltro non solo ingegnere esterno ma tastierista ospite sull’album, in cui e da cui il lavoro è registrato e prodotto (basti incrociare in cuffia l’incipit dell’ironicamente intitolata “A Castle So Crystal Clear”, dove letteralmente nulla -dal tono chitarristico alla compressione della batteria- è differente al meglio messo su nastro nelle sue sale tra il 1994 ed il 1995), il trio del centralissimo Västmanland vi soffia in realtà una tensione emotiva nuova come fosse vento, epitome di un dolore grande quanto quello di pochissimi altri prima di lui, di una notte interiore cantata con una voce che ricorda sì, immancabilmente da vicino, il tagliente timbro urlato del Nödtveidt dei suoi primi due iconici album (per di più corazzata dallo stesso medesimo livello di delay in post-produzione) e che tuttavia resta anche provvista di un’espressività stellata tutta umana spesso volutamente evitata da altri interpreti oggi considerati comparabili. Al contrario, emozioni tipicamente individuali e di grande profondità sono qui presenti con un tale fervore da diventare cifra stilistica e recidere via l’interezza dell’operato da quel canovaccio che da altri è unicamente replicato con fedeltà, per raggiungere l’enormità di quella Grande Vastaforesta allegoria poetica di un male così bruciante, di liriche stese come iscrizioni definitive ed irremovibili su una pergamena ingiallita e antica quanto boschi ammantati di una luce dal viola magico; una poesia così anelante verso altezze umanamente e fisicamente irraggiungibili (“As I Behold The Dying Sun” pregevolissima, ad esempio, nel coniugare le lezioni e i sentori Dark connazionali dei pionieri Tiamat di “Clouds” e soprattutto “Wildhoney”, come dei Katatonia meno apatici di “Dance Of December Souls” e del Gothic Rock d’Albione di dieci anni precedente, con quel successivo Black Metal il cui mondo si mostra chiaramente radente per sensibilità fin dagli inizi dei ’90s) da essere inedito persino nell’ambito di una musica -e in un suo preciso stile- che già nei tre anni precedenti e pure nei versi satanici di Necrophobic o Dissection aveva fatto dell’esistenziale dolore notturno il suo perno linguistico primo da cui evolvere messaggi poi più declinatamente personali. Al contempo, il pregio di un testamento artistico che a sua volta include un esempio di squisitezza melodica come “Vinterskogen” (indimenticabile l’acustica sul finale al pari di quella che apre la conclusiva “Wings Of Sorrow”, tanto brillante, sfaccettata e profonda da sembrare un kannel baltico) è anche quello di possedere un valore armonico di gusto e varietà strabilianti per dei debuttanti, nel dipinto di una luna rosso sangue che non manca nemmeno d’irrorarsi di porpora scuro nelle estremizzazioni belluine che sono caccia assetata di vita in “Still The Night Is Awake”.
Ma a ben vedere e a voler ancor meglio sentire, i Vinterland di “Welcome My Last Chapter” (nelle intenzioni originarie edito come “Wings Of Sorrow” ma poi velocemente rivisto per via del futuro titolo erroneamente inteso come tale, inizialmente stampato soltanto con funzione di epitaffio sotto il carteggio annerito della copertina) possono effettivamente essere riconosciutii in primo luogo più gotici e luttuosi in assoluto del proprio filone di riferimento, seppure vi sia una certa ed innegabile aderenza alla melodia ermetica e oscura (qui, specialmente mutuata dai territori Heavy di un “The Somberlain”) che già nel 1996 contraddistingue per il mondo intero lo scenario svedese contemporaneo, risultando a distanza di venticinque anni dalla sua pubblicazione un episodio unico proprio nel sacrificio totale di ogni parte tecnicamente assimilabile al Death Metal nazionale dei primi due anni ‘90 sull’altare di una malinconia furibonda e senza pari diretti, in favore di uno struggimento epico che si sprigiona onnipotente in tutte le canzoni -dalla più breve alla più dilatata, rifinita e complessa per struttura- senza far perdere a nessuna di esse l’aggressività né la capacità di pungere classica del genere (la rumorosità tagliente che apre “A Vinter Breeze” sia da esempio, non dovessero bastare le fulminee accelerazioni di cui è innervata la scrittura dell’intero album); eppure, anche in ciò qualcosa di ben lontano dall’essere soltanto un pregevole esempio, quando non una sintesi o una summa di suono No Fashion Records -sennonché possa a ragione esserne definito un orgoglioso classico-, perché provvisto del coraggio di far vibrare una falce pallida cavalcata con successo funambolico anche nell’oscurità opprimente accennata dalle pesantissime note di gran piano incrociate con il sintetizzatore sul finire della pseudo title-track, la tragica “Wings Of Sorrow”: magistrale chiusura invitante a premere play ancora e ancora proprio in ragione di quel suo sbrigativo finale sfumato sul più bello, il proverbiale e probabilmente involontario passo in più che nell’arte fa la differenza tra dimenticanza ed indefettibilità.

Dissimilmente dai parti primi dei temporalmente vicinissimi Setherial di “Nord…” e Sacramentum di “Far Away From The Sun” (i secondi dei quali decisamente più vicini alla masnada melodica svedese novantiana se paragonati ai più estremi primi, ma entrambi accomunati e graziati loro volta da un’imprevedibilità ritmica furente totalmente aliena ai conterranei nel medesimo stile), i Vinterland di “Welcome My Last Chapter”, (sfortunata?) meteora nata al chiaro di uno spicchio di luna calante tramite un canto del cigno probabilmente irripetibile sulle stesse e già totalmente esplorate coordinate, fanno ingresso come brezza di un inverno morente tutto tranne che timida nella vasta foresta, vestiti di un suono identico ad altri dieci ma con un cuore inconfondibile tra altri mille durante la notte ancora sveglia e vigile, eppure silente, con il rispetto percepito dovuto ma lasciandovi le proprie inconfondibili impronte: forse per questa non trascurabile ragione meno grandi, seminali od istrioniche di altri logicamente illustri colleghi, ma decisamente non minormente raffinate o degne di riscoperta mentre tendiamo l’orecchio a quel canto lontano che si fa urlo strozzato nel tentativo ultimo di tramandare disperatamente una lezione per molti versi mai più colta; mentre prestiamo l’occhio al rosso intenso di un sole morente che, nel 1996, ancora preannuncia il massacro dei due anni successivi.

Matteo “Theo” Damiani

 

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