Ondskapt – “Grimoire Ordo Devus” (2020)

Artist: Ondskapt
Title: Grimoire Ordo Devus
Label: Osmose Productions
Year: 2020
Genre: Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Prelude”
2. “Semita Sinistram”
3. “Ascension”
4. “Devotum In Legione”
5. “Animam Malum Daemonium”
6. “Opposites”
7. “Paragon Belial”
8. “Possession”
9. “Old And Hideous”
10. “Excision”

La magra accoglienza riservata da un inquisitore coro liturgico di streghe, disturbanti ninfe trasfigurate d’iracondo e blasfemo splendore a fare il verso peccaminoso, a panni invertiti, ad angeli rilegati invece sotto mentite e lacere spoglie, risuona sublime e sovrano nell’etere riempito a completamento soltanto dal rintocco di una bronzea campana rituale che, nel totale di dieci perentori ed eloquenti colpi, scandisce gli anni di silenzio avvolgenti l’operato e l’eredità intera degli Ondskapt dopo l’orgogliosa ridefinizione in profondità di un dogmatismo stilistico traghettato (e, si osa senza remore, rinvigorito nel processo) verso le più ineffabili vanaglorie paradigmatiche sussurrate senza più intermediario terreno da quell’unica entità  -il Maligno, dio del terrore- in una catechesi diretta a cui la band si approccia di ritorno con un rispetto che più ancora che reverenziale è di orrorifica Rivelazione; una cifra testimoniata dalla purezza delle sue viscere fino allo sporco dell’involucro esteriore, che realizza nell’inchino una psicosfera mescolante fortissime credenze di natura religiosa, teologica, ed altrettanto ferrei precetti musicali in personale evoluzione al contempo.

Il logo della band

Non un manoscritto tuttavia di sola arte occulta dietro cui celarsi incatenati senza scopo, nelle parole dei suoi stessi creatori, piuttosto “Grimoire Ordo Devus” è infatti l’apertura desecretata, decodificata e quasi esplicita di discepoli alla necessitas praecepti, a quell’ultimo grande nulla risplendente che ogni elemento risucchia nel vuoto dei suoi vortici eterni, orale ed aurale, uditiva e spirituale essenza del male creatore, di un’antica presenza che viene oggi rivelata nella sua spaventosa gloria – quasi una vendetta demo-maniacale per la sua brutalità parossistica nel perseguire la vittoria finale dell’impurità nell’uomo, ormai già succube di ogni vizio; l’estinzione della debolezza egocentrica esecrata in dieci inauditi e finemente diversificati inni alla crudeltà che -a ponte traslucido tra le efferate, taglienti grandezze quasi spericolate di “Dödens Evangelium” e gli incupimenti lenti e striscianti di coloro che, in “Arisen From The Ashes”, risorgevano dalle pulveris mortifere che scivolano verso le profondità dell’esistenza nel vetro di una clessidra- portano la rinnovata formazione svedese, maestra lodata di consacrazione tramite il criterio della dissacrazione e desantificazione assoluta, all’istoriare con più chiarezza espressiva che mai una ridda infernale sulle buie vetrate della sua privata cattedrale fatta di sola fede nell’oscurità e nell’etimasia dell’odio per l’umanità sul trono postovi al nevralgico centro.

La band

Non si tratta soltanto di spianare un’atmosfera: la luce che ne sbuca fin dall’attacco dell’esemplare quanto completa “Semita Sinistram” tramite i primi isterici sputi di veleno, conseguentemente, sebbene il contrario sistematico di ciò che è dato attendersi dalla nozione stessa e lessicale di luminosità, è materia palpabile, tangibile, penetrante ed accecante come il più canicolante dei soli i cui raggi brucino e svelino, in pochissime sezioni strumentali soltanto, il sepolcro delle ossa di ogni re mai esistito, di ogni riverita importanza o celebrazione di gloria terrena, con la polvere di ciò che questi furono ora utile solo a disegnare figure serpentine dal giallore itterico.
Il giubilo tormentato ed ossessivo ne consegue, in una continua rappresentazione della catastrofe carnale, violenza e sessualità malata per veicolare il fallimento implicito nell’ambizione e futilità umana come in una Apocalisse divina i cui ingredienti stilistici hanno tratti asfissianti: sezioni ritmiche opprimenti si scansano a vicenda riempiendo l’apparato uditivo dell’imprevedibile, instauratio magna oltre lo sconosciuto come atroci fantasmagorie illustrate, ora del raptus di lunatica violenza brutale tanto nell’opener quanto in “Opposites”, ora del malsano e demente rallentamento, ecfrasi incredibili (si gustino fino in fondo quelle di chitarra acustica e basso in “Possession” e “Paragon Belial” come esempi attuali dello splendido operato dalla band in tal senso) che così tanto sono diventate firma degli Ondskapt dopo aver rivoluzionato l’underground più nero, ortodosso ed intransigente nel 2003 mediante quell’autentico capolavoro di poetica intitolato “Draco Sit Mihi Dux”, con cui svariati episodi di “Grimoire Ordo Devus” condividono in teoretica congiunzione le esplosioni di possessione demoniaca incasellate in un sogno di sacrificio mortale che ora è idealizzato e restituito all’ascoltatore in una forma tuttavia più solida e nitida. Le velocità sono inasprite infatti rispetto a qualunque capitolo precedente del gruppo, le maglie ritmiche ristrette ed esacerbate nella loro chiusura anti-umana, che sparge frattali sull’altare del tempio d’ebano dedicato al regno della distruzione mentre le tridentate dentellature in minore snocciolate con la reiterata, ipnotica veemenza estatica del kyrie eleison fagocitano sberle di bitume per poi vomitarle fedeli e scottanti sull’ascoltatore.
In un perpetuo, tiratissimo gioco di accumulo di tensione da guerra fredda, strattoni di tempo da “Ascension” alle svirgolate aritmiche di “Devotum In Legione” forniscono il palcoscenico più adatto su cui si esibisce delirante, disturbato in tutto il vigore regressivo dei suoi atti penitenziali il sermone di un mastermind Acerbus a tratti meno istrionico e schizofrenico che nel più remoto passato degli Ondskapt, ma persino rafforzato nella potenza draconica che le sue urla trasmettono generalmente senza dover ricorrere alle modulazioni più disperate (comunque ricche di invocazioni di mysteriiana memoria in pressoché ogni brano, senza bisogno di particolari esempi tra punte di diamante in una teatralità spesso persino dialogica); memori probabili dunque delle ultime lezioni Ascension non solo strumentali (in “Paragon Belial”, forti e chiare nella costruzione tombale dei giri armonici, e nell’ironicamente intitolata “Ascension” per gli assoli dalla sensibilità oscura e vellutata), queste vengono legate ingannevoli ai più inconfondibili trademark del gruppo: nel gusto solido, granitico ed immediato dei mid-tempo (“Old And Hideous”), nella superstizione medievale e malevolenza spiritica delle parti più lente ed arpeggiate -da maestri la costruzione di “Possession”, anche in ciò possibile perla nera dell’album-, alle melodiche, sinistre lingue sibilanti che si estendono dalle corde singole delle chitarre distorte e leccano infinite con sospensioni eterne di sustain la sventurata carne (emblematiche quelle del non per nulla singolo di lancio “Animam Malum Daemonium”, almeno quanto quelle dei tremebondi pinch-harmonic del brano conclusivo il lotto), ascendendo verso immensi abissi di divinità dal malvagio splendore sprovviste di benevolenza per unirsi al canto di profezie irritate, affronti pestilenziali e salmi ecclesiastici di devozione, unendo così la sincerità dei vaneggiamenti mistici e diabolici con la più astuta praticità strumentale. Il finale ne è, al contempo, sia riassunto esemplare che vero colpo da maestri ove si svela tutto il genio melodico delle tessiture: persa nelle nebbie di un dolore misterioso e arcano, “Excision” rilascia da ultimo tutta la propensione al magico nelle sue spiraliche e melodiche fiammelle danzanti su arpeggi dolcemente pizzicati, storte e fatue, nonché presto intensificate nell’elegante tortura di una pira di fiamme aizzate in libertà per la fine della moralità nel trionfo dell’iniquo, del maldisposto, dell’ortodossia ormai sventrata e sviscerata dal suo interno dai malefici artigli di lava degli Ondskapt solidificata in magma coriaceo e tagliente come ossa spezzate, puntate con serenità entusiasta alla gola di serafini in preda al terrore.

Bevuto è dunque il sangue del Diavolo, il sabba efficacemente travestito da liturgia sclerotica, accettate sono le abiette menzogne come immacolate verità e le sporche verità come candide menzogne al pari, in grazia come in dannazione; e nella realizzazione indefessa del misfatto, il quarto full-length battezzato “Grimoire Ordo Devus” assume invero la forma di un compendio sia stilistico che qualitativo per l’operato Ondskapt che riesce oggi a suonare -non da ultimo per la pienezza di una produzione dai toni inediti- anche come un irremovibile raggiungimento di omnicomprensiva completezza che in precedenza fu appannaggio di svariati benché forse capricciosi lampi maggiormente diluiti, qual dove comunque graziati dall’ineffabile tocco del genio espressivo più candido. Nell’esito di sfiorare insomma l’oscenità innominata per giungere al cospetto di libertà e dignità, nella tragedia che svincola il linguaggio dalla banalità e che restituisce poesia al discorso, quella che incomprensibilmente perversa non spiega né dà risposte ma permette realisticamente di comprendere meglio la propria realtà senza la necessità di descriverla, è infestato l’ossario dove avviene silente la profanazione di divinità e uomo che diventano così cibo per i pensieri e anche per gli avvoltoi, gettati a metafisici bocconi nella valle della morte della remora e del pregiudizio: laddove si nasconde l’imputridito punto di incontro -e non ritorno- in cui la pienezza dell’orrore nero e la pienezza della gioia euforica coincidono.

“Do you find me offensive? I am a devotee.”

Matteo “Theo” Damiani

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