Luglio 2019 – Impavida

 

Non ci sono stati grossi problemi a trovare materiale nemmeno questo mese. Nessun intoppo, nessuna tenzone nemmeno al momento di metterci d’accordo tutti insieme per un vincitore tra i dischi proposti da ognuno (a parte una singola, diversa nomina come preferenza di punta che ha fatto viaggiare controcorrente uno di noi), la grande maggioranza dello staff è stata ben convinta nonché irremovibile a riversare tutto il suo affetto nello straziante ritorno dei tedeschi Impavida a distanza della ragguardevole cifra di undici anni dall’ultimo segno di vita (il debutto “Eerie Sceneries” del 2008): come dovreste infatti già sapere, durante la prima parte di luglio e nella più totale sorpresa dei sinistri figuri che a scadenza giornaliera vi scrivono su queste pagine, la sempre sfuggente Ván Records a cui non si può comunque di certo criticare o negare una sicura risolutività ha pubblicato il magnifico “Antipode” dimostrandoci -ancora una volta- che se deve convincere lo fa strappando il cuore. Niente di meno. Non lo fa sempre o a scadenza fissa, come va detto essere forse fisiologico per ogni label, ma quando accade non c’è scampo alcuno alle emozioni che gli artisti che vi hanno casa discograficamente parlando sanno donare. Tutto o niente.
Seguono (ognuna con singola nomina) le tre perle del corollario reputate minori e/o di diverso respiro, ma non per questo maggiormente trascurabili, che potrebbero pertanto fare la felicità di chi cerca nero eclettismo (ma nemmeno troppo, questa volta) dalla contraddittoria Terra della Libertà, un mix di sporco ed etereo perfettamente identificabile e mai fine a sé stesso dalla beneamata Finlandia, e del più classico, si potrebbe quasi dire evergreen, folklore slavo purissimo ed orgogliosamente non lavorato pregno di quel distintivo sapore e odore di campi, nonché ricco di semplicità e a suo modo eleganza, da quella Polonia mai totalmente parca di bontà da dispensare e gradire.
Partiamo però con il solo ed unico album che popolerà i vostri migliori incubi per i prossimi mesi.

 

 

Annichilente metamorfosi e straziante rivelazione: alfa e omega, inizio e fine del un viaggio irrinunciabile di ciò che parte come solido e brucia interiormente fino all’antipodico incorporeo. Catarsi ma non solo; purificazione in due gargantuesche fasi di compenetrazione immateriale che sa di morte quanto di vita perché, gli Impavida ci insegnano con estrema originalità e savoir faire, in un piano che prevede e anela all’infinito i contrari sfumano e non presentano più alcuna importanza. Notturno, nictalgico, misterico, nerissimo, graziato da scelte musicalmente eccelse ed emotivo al limite dell’incontrollabile ma sempre così graffiante e stordente da far sanguinare e lasciare profondamente imbambolati, ipnotizzati ma attenti, catatonici; in breve, una delle sorprese più belle e travolgenti dell’anno.”

(Leggi di più nella colonna dedicata a “Demons’ Eerie Flutes…”, qui.)

Come in preda ad una terrificante paralisi ipnagogica, ci si trova ingabbiati nei vortici di chitarra che, deliziosamente esasperanti, continuamente collassano e si sgretolano sul flusso coerente di riverberi; stratagemma apparentemente semplice ma ricercato con cui gli Impavida confezionano un’opera impetuosa, grezza e monolitica nella sua compattezza, in cui le tracce non sono che i capitoli di un unico grande viaggio. E se il Depressive (in quanto a stile vocale e non) è il punto di partenza, lo strumento primo che il duo tedesco sfrutta per forgiare il proprio sound, la meta sono invece quei quasi quaranta minuti di personalissimo Black Metal, incredibilmente fluido e intenso. Bravi a distanza di oltre dieci anni a mantenere la propria identità, affinare e rinnovare le proprie caratteristiche, elaborandole con un songwriting estremamente maturo; dopo un’uscita del genere si può essere disposti ad un’altra decade di attesa, ma un ritorno anzitempo non sarebbe assolutamente sgradito.”

Atmosfere agghiaccianti e costante claustrofobia sono i cardini della musica degli Impavida, autori di un disco che svetta tra tutte le recenti uscite in ambito più largamente malinconico e nella fattispecie Depressive Black Metal. La forza del gruppo risiede principalmente nella capacità di creare una forte sensazione di progressione all’interno delle due mastodontiche tracce principali, finendo così per sballottarci tra scenari e ambientazioni differenti, il tutto trainato da strazianti vocalismi e un’emozionante componente strumentale che, a brevissimi tratti, mi ha causato flashback riguardanti il debutto di un noto gruppo irlandese al momento non più in attività. Se siete fan della disperazione o semplicemente dei disperati, questo disco non vi deluderà e continuerà a crescere in voi ascolto dopo ascolto.”

 

 

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Un disco uscito per Iron Bonehead. No, non è una barzelletta: suona incredibile ma i finlandesi Celestial Grave hanno permesso alla rinomata etichetta tedesca, specializzata in casino d’autore ma non sempre di spessore, di essere finalmente apprezzata anche su queste pagine virtuali (escludendo il successo della parente Necroshrine Records) grazie al loro “Secular Flesh”, debutto che con la sua particolarità ha conquistato pienamente mr. Feanor.

“C’erano molte aspettative per questa misteriosa entità finnica dopo il precedente EP “Pvtrefactio” pubblicato come introduzione al loro mondo nel 2017; attesa ben ripagata da “Secular Flesh” che li mostra vincenti nel non facile intento di mescolare nel loro Black Metal disarmonia e melodia, caos e ordine etereo: una vena melodica impalpabile che si può cogliere in alcuni riff di chitarra da pelle d’oca, mentre la voce e la batteria creano caleidoscopici e vorticosi guazzabugli sonori tramite screaming ululanti e ferali, e il percussionismo che a tratti riecheggia da lontano come un spettro (vuoi anche per una produzione efficacemente grezza). Un disco quindi permeato da una perfetta dualità atmosferica fatta di mille contrasti sotterranei e dai tratteggi impressionistici che fanno sentire l’ascoltatore completamente astratto. Di certo non si tratta del classico Black Metal di stampo finlandese, ma forse proprio per questo è indubbio un certo valore artistico di questo singolare progetto da tenere assolutamente d’occhio.”

 

 

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Gli statunitensi Yellow Eyes che, dall’alto del loro fare comunque sempre devoto alla sperimentazione, convincono il nostro Kirves con “Rare Field Ceiling” grazie a una virata che li vede tornare un po’ più melodici e un po’ meno meno cervellotici rispetto agli ultimi capitoli targati Gilead Media (che se li tiene comunque stretti e pubblica anche questo) in favore di una maggiore linearità espressiva che dischiude alta qualità.

“Riff ipnotici, USBM e un suggestivo intento ritualistico che si rivela fra una traccia e l’altra: se queste prime coordinate hanno fatto scattare in voi il sentore (speranza o meno) di trovarsi dinnanzi all’ennesima creatura dalle fattezze cascadiane potreste essere fuori strada. Perché se è vero che gli Yellow Eyes non tradiscono le proprie latitudini più o meno nazionali in fatto di scelte di suoni, l’approccio particolarmente eclettico e mutaforme delle linee di “Rare Field Ceiling” li porta a passare da tracce claustrofobiche e opprimenti come “No Dust” ai momenti più atmosferici e ampi di “Nutrient Painting”, tramite i sincopati di “Light Delusion Curtain”. Nonostante le variazioni cromatiche presenti anche nelle singole tracce, il quartetto di New York City è bravo a non cadere in stucchevoli tecnicismi e a non far apparire meccaniche le transizioni acustiche presenti alla fine di ogni brano, ottenendo un flow sicuramente vario ma anche immersivo.”

 

 

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Per concludere, l'(involontariamente) immancabile perla folkloristica ci è regalata dai polacchi Stworz, che al ragguardevole traguardo del sesto full-length “Mój Kraj Nazywa Się Śmierć” (fuori tramite Werewolf Promotion il primo di luglio) non dismettono i toni nazional-romantici  del grezzo folklore slavo, pur incupendosi. Come da tradizione, qualora la proposta sia ben fatta, non può non rubare il cuore del nostro Feanor.

“Dopo aver terminato la quadrilogia relativa al ciclo e al susseguirsi delle stagioni, ritorna alla carica il progetto polacco Stworz con “Mój Kraj Nazywa Się Śmierć” che, a tutti gli effetti, si potrebbe considerare il lavoro più introspettivo del gruppo: la vena malinconica, già presente in più piccole dosi nelle precedenti uscite, qui permea infatti ogni singola canzone, un approccio che è sicuramente anche frutto dell’influenza dei Drudkh che aleggia incessante come uno spettro (ascendente forse scontato ma sempre efficace); mestizia che nonostante l’introspezione non smorza minimamente il fiero retaggio Pagan Black Metal di stampo slavo del monicker, sempre incisivo in quelle volte in cui c’è da accelerare il ritmo, riempito e completato dai riff di chitarra dal sapore Folk. L’unica pecca riscontrabile è il timbro vocale spesso eccessivamente statico del polistrumentista Wojsław che alla lunga potrebbe stancare l’ascoltatore rendendo le canzoni apparentemente prive di mordente; ma se per inclinazione si supera questo piccolo ostacolo l’album è tranquillamente consigliato ai nostalgici dei primi Drudkh e a tutti gli amanti del Pagan Black di chiaro stampo slavo in generale.”

 

 

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E siccome un luglio che supera qualitativamente giugno e dona uscite di questo spessore non si vede assolutamente così spesso, il 2019 continua a confermarsi un anno a cui baciare le mani e in cui stare perennemente all’erta e in attento ascolto più che mai. Questa estate non ha pietà. Noi, lo sapete, ce la mettiamo tutta perché non possiamo fare altrimenti, e voi?
Niente paura, lo sapete altrettanto bene, che tra un mese siamo di nuovo qui a ragguagliarvi in caso aveste perso qualcosa. Intanto, non perdetevi questi. O questi.

 

Matteo “Theo” Damiani

 

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