Immortal – “Blizzard Beasts” (1997)

Artist: Immortal
Title: Blizzard Beasts
Label: Osmose Productions
Year: 1997
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Intro”
2. “Blizzard Beasts”
3. “Nebular Ravens Winter”
4. “Suns That Sank Below”
5. “Battlefields”
6. “Mountains Of Might”
7. “Noctambulant”
8. “Winter Of The Ages”
9. “Frostdemonstorm”

Sarà forse per un corredo estetico ed attitudinale così marcato da soppiantare irrimediabilmente l’attenzione verso quanto messo su disco, oppure magari per la cronica carenza del pubblico Metal in fatto di capacità retrospettiva, ma quando si apre bocca riguardo gli Immortal bisognerebbe sempre ricordarsi di stare parlando di una band la quale è stata, con buona pace della complicata storia dei Mayhem come dell’ossessione evolutiva degli Ulver, forse proprio la maggiormente incline al trasformismo in una scena che di questo ha fatto la chiave della propria longevità. Per quanto affascinante possa apparire ai novizi l’idea di Abbath e Demonaz quali incarnazioni viventi del Black Metal più ortodosso, inamovibili nella loro ferma identità musicale come solo le nevi perenni del grande Nord, essa si scioglie abbastanza in fretta se confrontata con un effettivo curriculum in cui mai troveremo dei solidi blocchi di lavori consecutivi e tra loro sovrapponibili, come potevano essere -coi dovuti distinguo del caso- la sconsacrata trilogia dei Darkthrone ed il magnifico dittico inaugurante la carriera dei Satyricon. Passare da un album all’altro dei due demoni di Bergen significa davvero essere costretti a fare tabula rasa di ogni aspettativa maturata, e lo testimonia la facilità con cui ancora adesso è possibile imbattersi in pareri del tutto discordanti (proferiti spesso da chi si interessava al monicker già allora) su ogni singola uscita successiva al classico definitivo “Battles In The North”, forte a tal punto della sua poetica sottozero da arrivare quasi a sabotare la carriera degli Immortal – sia agli occhi dei bambocci tutti presi a ridere dei panda che suonano sui monti senza attacco di corrente per gli strumenti, e sia per quei devoti sostenitori i quali, pure in buona fede, hanno commesso il madornale errore di incasellare dentro una comunque dorata gabbia l’eterogeneità di due menti estrose e, qualora in simbiosi, dai pressoché inesistenti eguali.

Il logo della band

In una discografia talmente sfaccettata sarebbe d’altra parte logico ravvisare molteplici episodi cosiddetti di passaggio, e tuttavia l’unico ad essersi guadagnato non poi tanto giustamente un tale appellativo è proprio l’immediato sequel “Blizzard Beasts”, archetipo della parabola che vede protagoniste quelle opere di ottimo livello rimaste però schiacciate in mezzo a due pietre miliari ognuna a suo modo dal peso insostenibile; e paradossalmente di questi ben noti due monoliti che lo circondano o sostituiscono senza pietà sugli scaffali dei fan “Blizzard Beasts” possiede a conti fatti davvero pochissimo, a dimostrazione dell’impossibilità fisiologica per gli scandinavi di realizzare prodotti che fossero minori o superflui almeno sino al grandioso climax di Sons Of Northern Darkness”.
Il sentore di transizione risulta piuttosto, a posteriori, imputabile alle vicende occorse a livello di organico prima e dopo la release, con Demonaz prossimo alle dimissioni dal ruolo di chitarrista e l’ingresso di un quasi sconosciuto Horgh ai tamburi, completo estraneo fino ad allora al substrato estremo che in Norvegia vantava già una risonanza mediatica difficile da ignorare. Insieme ai meri avvicendamenti di line-up, il vero elefante nella stanza dei cristalli quando si rispolvera il quarto figlio del reame di Blashyrkh ha la pelle ruvida e trasandata affibbiatagli dalla produzione di Henrikke Helland, anche lei figura tutt’altro che addentrata nell’ambiente (da dove, dati alla mano, si sarebbe allontanata subito dopo) e che molte malelingue hanno additato quale semplice prestanome atta a coprire il discutibile risultato ottenuto nei suoi Sigma Recording Studios dalla sola diarchia fondatrice. Certo, fa sorridere lo stretching mentale con cui numerosi appassionati criticavano e criticano ancora oggi l’engineering ottenuto dalla band autrice dei primi tre platter degli Immortal, ma sarebbe ben oltre i confini del pretenzioso rivalutare dopo venticinque anni un sound per niente incisivo, nel quale le deraglianti sei corde del 1995 vengono strangolate rinunciando a quel respiro gelidamente scenografico, e dove persino la rauca voce di Abbath, marchio tra i più riconoscibili delle sette note in nero, perde in parte efficacia sia per una prova meno convinta del frontman e sia per lo spessore limitatissimo impostole nell’infausto esito.

La band

Ma volendo dare per buona la massima per cui non tutto il male viene per nuocere (e a ben vedere, nell’ambito di nostra competenza tale proverbio dovrebbe in fondo valere doppio), allora pure un lavoro di registrazione e missaggio assai maldestro permette d’altro canto uno sguardo ravvicinato su certi aspetti della creatura Immortal in precedenza poco messi in mostra e di conseguenza mai troppo apprezzati persino dagli ammiratori devoti. Nel suo avere scopi di gran lunga differenti, il gain disumano nel quale sguazzava “Battles In The North” aveva infatti tarpato le ali alla dinamica dei singoli brani, ambito ove al contrario “Blizzard Beasts” lascia entrare una ventata d’aria fresca macinando miriadi di riff costruiti con favolosa perizia sopra al tiro eccezionale e congenito nei norvegesi sin dagli esordi. L’impatto frontale di “Suns That Sank Below”, “Battlefields” e “Frostdemonstorm”, da molti ricondotto addirittura al Death Metal ed in particolare ai Morbid Angel con cui Abbath e Demonaz (allora accompagnati dall’ubiquo Hellhammer) avevano condiviso il Battle Of The Ages Tour nell’autunno del ’95, è in realtà lo stesso che aveva fatto sobbalzare i vergini ascoltatori già ai tempi di Diabolical Fullmoon Mysticism”, sebbene ora chiaramente sostenuto dal sound asciutto quasi oltremisura e dall’esperienza che soltanto un lustro abbondante in termini sia cronologici sia creativi può consentire. Questo, senza contare poi l’innesto di un drummer rivelatosi pienamente all’altezza dell’ingaggio presso un nome già consacrato al pantheon nero scandinavo; l’esecuzione pulita e puntuale di Horgh, infatti, sebbene ancora tenuta a freno se confrontata con le sue prestazioni intorno al 2000, dona ulteriore personalità all’album grazie all’approccio abbastanza variegato e del tutto dimentico degli onnipresenti -quanto incerti- blast-beat infilati a ripetizione da Abbath, col risultato che la forza trainante offerta dalla nuova recluta viene ricompensata con l’esplicita dedica al suo operato annotata nella thanklist.
Dall’alto perciò del peculiare misto tra le principali correnti estreme che ne delinea l’identità e, nel suo piccolo, di una certa rilevanza storica se pensiamo alle misture sentite ben più tardi da altri ensemble di spicco, “Blizzard Beasts” suona quindi lontanissimo dall’essere un banale e minore crocevia non fosse per il pezzo ormai eletto a vetta irraggiungibile della risicata mezz’ora, e cioè quella “Mountains Of Might” non certo meritevole di oscurare un’intera tracklist ma di contro lapalissiano anello di congiunzione tra vecchi e nuovi Immortal: introduzioni di tastiere, riffing dal sapore sanguinolento ed epico e persino, dulcis in fundo, un allora completamente inedito arpeggio in pulito ad aprire uno spiraglio minuscolo ed allo stesso tempo rivelatorio nelle pareti di ghiaccio dietro le quali si dischiude un panorama sublime ed immacolato nella propria crudele devastazione; dominato come sempre dalla stagione fredda ma dove il diradarsi delle aspre nevicate permette di scorgere le mura di una sconosciuta, inamovibile fortezza la cui antichità è pari solo alla forza del Male prossimo a scatenarsi da essa.

Edito cinque lustri fa durante le prime battute di un 1997 che ancora in pochi immaginavano avrebbe segnato il coming-of-age della Norvegia sulle note di “Anthems To The Welking At Dusk”, Enthrone Darkness Triumphant” e “La Masquerade Infernal”, il quarto atto nella travagliata saga di Blashyrkh si lascia dunque ancora oggi alle spalle un’eredità controversa, esattamente come farà tre anni dopo il “Damned In Black” non a caso vicino allo sgraziato gracchiare allora emesso dal titanico corvo sceso dal Vestlandet. Lo scarno assetto stilistico di “Blizzard Beasts” espresso anche dall’esiguo minutaggio, dalla classica copertina spartana e da tutti i trademark ai quali la schizofrenia patologica dell’audience di genere avrebbe imputato i maggiori difetti suoi e del Y2K record menzionato prima, non dovrebbe d’altra parte privarlo di alcun fascino ma semmai espandere l’universo di riferimento dei suoi autori, capaci di musicare non solo la semplice tempesta espressionistica ma ora pure la solitudine di vagare dispersi sulla tundra di traballanti ciottoli in pietra come bestie di tormenta, mentre gli infidi riflessi del sole abbagliano la vista e le temperature della fugace estate artica non sono affatto di conforto rispetto a quelle provate su “Battles In The North”.
Brutto a dirsi, eppure se fosse uscito anche giusto una manciata di mesi in anticipo, nel bel mezzo di un tutto sommato ancora quieto ’96, nonostante gli scossoni dati in madrepatria da esplosioni folkloristiche e drum machine a tavoletta, magari oggi ci ricorderemmo in maniera diversa ed assai più consona un lavoro di gran pregio come invero fu “Blizzard Beasts”. O forse ci nasconderemmo lo stesso dietro al poco tempo intercorso tra i due album come invece fatto oltre due decenni or sono, godendoci il dubbio piacere di vedere un’ipotetica comfort zone lì dove invece vi è sempre stata solamente la costanza qualitativa della meno compresa tra le leggende iniziatiche del metallo nero; il ruggito di quelle bestie della tormenta però sopravvive nell’eco rimbalzato dalle pareti delle montagne che ne sono casa, potente abbastanza da tenere lontani i turisti di passaggio e richiamare a sé le legioni pronte all’incursione nel cuore dell’inverno.

Michele “Ordog” Finelli

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