Hate Forest – “Hour Of The Centaur” (2020)

Artist: Hate Forest
Title: Hour Of The Centaur
Label: Osmose Productions
Year: 2020
Genre: Black Metal
Country: Ucraina

Tracklist:
1. “Occidental, Beware the Steppe (Intro)”
2. “Those Who Worship The Sun Bring The Night”
3. “No Stronghold Can Withstand This Malice”
4. “To The North Of Pontos Axeinos”
5. “Anxiously They Sleep In Tumuli”
6. “Melanchlaeni”
7. “Shadowed By A Veil Of Scythian Arrows”

Vi è la forza bruta di un’autentica guerra tra titani dalla natura universale nel penetrare impassibile del freddo che trasversale sfibra i muscoli, nel braccio di ferro strenuo e serrato tenuto fra tessuti e volontà mentre la temperatura si abbassa inesorabile. L’incontro, per quanto crudele, rende al contempo più lucida la mente, affilando i pensieri quali entità unica sopravvissuta e astratta mentre si resta avvolti dalla morte bianca a frapporsi tra i gradi, in picchiata oltre la soglia meridionale dello zero, e lo spirito invece elevato, teso ed innalzato proprio nello sforzo verso ed oltre i propri pregressi limiti, affrontato da un fossato metafisico che affonda il corpo fino all’altezza del bacino giù nel manto ingannevole; e il confine orientale tra i più impenetrabili di sempre della musica dura europea passa anche per l’operato apparentemente inscalfibile degli Hate Forest, per l’ἄξεινος che questi mettono in note indecifrabili all’orecchio nel fronte gelido al limitare ultimo della steppa che è “Hour Of The Centaur”, facendo arrancare l’estraneo tra stalattiti affilatissime a pioggia ed una nuvola nera di punte di freccia scitiche in acuminata pietra sibilante dal cielo.

Il logo della band

Monolitico nonostante la sua compatta brevità, come da tradizione quasi pluridecennale del progetto più estremo ed incorruttibile dell’inavvicinabile Roman Saenko quantomeno da “Battlefields” del 2003 in avanti, il ritorno che rompe quindici inverni pieni di silenzio discografico da “Sorrow” è uno fatto come mai prima d’ora di laconismi musicali in cui si lascia intelligentemente intendere ben di più di quanto non venga detto, di corposi discorsi sottintesi ricchi di emozioni fortissime nei confronti della vita e della morte – panegirici di grandezza discussi in tacita intesa con l’ascoltatore e presentati per questo con un linguaggio avestico, scarno e criptico che ne conservi la preziosa fragilità, i primordiali segni rupestri, ideogrammi e geroglifici nel comune sostrato indoeuropeo del segno celato e precluso al passante occasionale ma perfettamente comprensibile all’amico. È del resto un mare assolutamente inospitale quello del Póntos Áxeinos sulle sue sponde settentrionali che gli Hate Forest chiamano casa spirituale, per la composizione aspra ed ascetica della loro arte, come geografica per nascita; e pur negli stessi identici binari stilistici, per vent’anni letteralmente insviabili, Saenko (rimasto solo dopo l’abbandono del co-fondatore Thurios nella pausa ultradecennale intercorsa tra i due più recenti momenta creativi) diventa una cosa sola col progetto e sceglie di guardare, concettualmente parlando, ai più stranianti ed elusivi interpreti della musica classica microtonale contemporanea per costruire riff, ad incastro o profusione che siano, fatti di armonie e disarmonie essenzialmente atipiche (in ciò sorprendentemente più simili a quelle rifinite già nei Drudkh di metà anni 2000, rispetto alla compattezza solitamente ascrivibile agli Hate Forest) che scorrono come linfa tra le strettissime fessure di una violenza indicibile, rotaie ferrate su cui le partiture inossidate sfrecciano alla velocità strenua ed implacabile della lancia di Longino e della saetta di Zeus, rapidi e snelli come levrieri sul vasto terreno di caccia ma corazzati in violenza come carrarmati e rivestiti dal peso di tonnellate di caduti come cingolati.

Roman Saenko

Un’anossia di variazioni sottopelle attende quindi al di sotto di una scorza tra il coriaceo ed il direttamente impenetrabile, dove gli Immortal di “Battles In The North” trovano e guadagnano l’ipnoticità atmosferica e voluminosa del Burzum più scarificato e asciutto senza che in un tale processo (con l’aggiunta ovverosia di un filtro che è orecchio da tempo -senza nemmeno scomodare band parenti che rendano il fatto più lapalissiano- palesemente allenato ai movimenti della musica classica, forse senza paradosso più di una Sofija Gubajdulina virata all’akhshaēna, all’oscuro, al nero, che non Richard Wagner) gli Hate Forest cedano alla tentazione di mancare del doveroso rispetto a nessuna delle due scuole, metonimicamente piegate al loro volere verso una monotonia ipnotica che si fa metanoia nei sorprendenti passaggi tortuosi, arroccandosi nei pressi di una ripetitività che è subdola e sempre fresca perché costruita per libera elezione.
In questo complesso ambage, nell’andirivieni apofonico di latrati incomprensibili sputati senza la minima grazia nei toni da orco e paludosi di Saenko, che sovrasta come mantra oscuro scandito ritmico ben più che complemento melodico il riffage a maglie strettissime, viene costruita la tensione ed il senso di minaccia incombente di una “No Stronghold Can Withstand This Malice”, dove ancora una volta il rullante sordo di “Pure Holocaust” -ricreato con il meglio della perizia elettronica ed infuso di un suono incredibilmente umano raggiungendo l’apoteosi delle parti- irrompe per salvare dalla ripetitività interrotta proprio al suo estremo consequenziale massimo senza mai rilasci di tensione. Ma è nel secondo tempo, nel ritorno puntuale ed esecutivo all’apertura magniloquente e schiacciante di “Anxiously They Sleep In Tumuli” -in una tempesta di ride fracassati- che si realizza il prodigio più ammirabile e si segna uno dei momenti più grandi del disco, magicamente sovrastante com’è sul finire improvviso del precedente brano. In tal senso, è nuovamente proprio il secondo pezzo ufficiale dell’album, graziato com’è dalla sua conclusione in fade-out, a mostrare con evidenza quanto l’operato Hate Forest impieghi continuamente tecniche di apparente pigrizia compositiva (o quelle solitamente più associatevi) come medium puri per potenziare il proprio linguaggio con intelligenza; in questo, lo sfumato esalta infatti ancor più di un possibile finale chiuso perché sinergico con l’attacco altrettanto spietato di “To The North Of Pontos Axeinos”, episodio che pur con gli stessi identici bpm trasporta come i venti che spazzano impietosi il Mar Nero nelle grinfie di un’atmosfera completamente diversa.
Ma è proprio nel vibrare continuo e nel tuonare di concatenazioni e deviazioni, in realtà tutto tranne che statiche, e grazie all’insistenza parossistica di queste che si rivela più immediato che in passato un valore aggiunto alla collaudata formula ucraina: quello d’inedite rifrazioni melodiche sbilenche che si propagano come fossero un rifugio di calore tiepido in “Those Who Whorship The Night Bring The Sun”, promulgando però la caduta, evidenziando ancor di più il carattere soffocante, ansiogeno e la pressione disumana di tutte le singole composizioni sull’apparato uditivo; il medesimo si può dire del cambio epico in atmosfera più palpabile che mai nella conclusione “Shadowed By A Veil Of Scythian Arrows”, dai sentori pagani e dagli accenti folkloristici grintosi che contrastano in maniera diretta con il carattere più spietato delle antiche tribù ammantate di nero, regali e figlie di Eracle e della lamia Echidna in quella chiusissima “Melanchlaeni” che precede l’ennesimo finale aperto e risolutamente regalato alle fantasie dell’ascoltatore. Lo stesso, benché cambiato di segno ma non di risultato, avviene nell’inatteso rallentamento che più di altri seziona l’album in due: dal sonno carico di apprensione di antichi esseri in perenne, vulcanica e mai totalmente sopita attesa avviene il risveglio e l’avvento di una trasformazione; e così il brano più lungo del lavoro si fa pezzo da novanta in cui viene riassunta ed espansa al contempo una carriera artistica dalla testardaggine che sfiora l’immobilismo stilistico reazionario, eppure graziato da una personalità immediata e da una riuscita effettiva che rimasta ferma ed espressa sulla carta avrebbe davvero dell’impossibile.

“Hour Of The Centaur” è dunque una tundra di biasimo, di motteggio, di celia e sdegno puro che si estende intoccata – come un bosco d’odio immenso sotto la coltre di neve e con la forza di un antico popolo intero: piegato, forse vinto nelle carni però fortissimo d’animo, che regge sulle sue spalle un fardello grandemente più penoso di quanto non possa trasportare, ma che ciononostante è paziente, albero dietro albero, fosse anche all’infinito; anche di fronte alla vista di ninfe, fauni e satiri a folleggiare con la figura dell’uomo equino che saccheggia il giardino di Dioniso.
Impossibile, all’ascolto, non percepire infatti i sentori di gravità che urlano, arbiter veritarum dal canto loro, contro l’era volgare di un centauro Nesso che insegue pedante, velenoso ed opprimente la bellezza per possederla e distruggerla con le sue pulsioni portate all’eccesso, per mozzarne la testa chiara come il cristallo – una materia inscalfibile e dalla durezza senza compromessi di cui il licenzioso operato Hate Forest è però fatto: con ogni probabilità l’unico, eccellente caso di musica al mondo che della sua estrema ed arrogante ripetitività non fa mai introspezione e vagheggiamento, né della sua brutalità quintessenziale il fine che sopperisca alla mancanza di mezzi, ma che proprio allo stato contemplativo irride creando una sberla d’azione in forma aurale nell’auspicio di una nuova epoca di violenza senza pari ma finemente sofisticata (del resto, è il settimo comandamento del misantropo per cui al fine di creare occorre prima distruggere), la quale proprio sulle ali delle sue ripetizioni aumenta d’intensità stringente, di urgenza soffocante ad ogni reiterato giro fino all’inevitabile taglio abrupto e collasso finale. Con la pelle bluastra, con gli arti intirizziti ma lo spirito della solidità di una fortezza, con la sicurezza noncurante di svariate generazioni in sé e delle ere che della vita han fatto morte, ricordandoci che il passato è come polvere a depositarsi sulle anime: si può toglierla quanto si vuole, ma questa si riversa sempre, nuovamente, come un fardello di neve che, solidificatasi su alberi enormi fasciati di gelo, nel suo candore immobile e pietrificato contiene la promessa muta dell’eternità.

Matteo “Theo” Damiani

https://www.youtube.com/watch?v=4g2yKQt41OU

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