Marzo 2021 – Nodfyr

 

Dall’antica provincia del Gelderland, dalle insanguinate terre dei batavi, frammenti di storia locale, di folklore, territorio, mitologia e psicologia personale si mescolano e condensano solidi come zolle da bruciare in tre anni di scrittura attenta, nell’offerta maggiore del terzo checkpoint del 2021 -un mezzo moderno per la rinascita e riscoperta di squisiti valori arcaici- che si compone di sette grandi canzoni ognuna quale sentito tributo agli aspetti più cari dei tre musicisti (tra cui figura niente meno che il primo, decennale cantante e mente lirica degli Heidevolk, accompagnato da due Alvenrad) che l’hanno creato. In un personale tragitto imbevuto dello spirito e della guida di Storm, Isengard, di un fuoco vivo e purificatore in cerca di rinnovamento e risveglio ma altrettanto carico di dignità e rispetto nel mescolare e Folk/Black Metal pagano d’ispirazione epica e ieratica, riti di guerra, di vita e sopravvivenza, i neerlandesi Nodfyr confezionano quindi a mani basse il miglior disco del mese di marzo colpendo positivamente la totalità della redazione e finendo, con il loro concept “Eigenheid” (debutto su full-length uscito il 5 dalle mani dei soliti sospetti individui presso Ván Records), per guidare con orgoglio solenne la selezione di oggi – rispetto agli scorsi mesi una fatta forse di minore acclamazione condivisa, ma cionondimeno provvista dei soliti quattro interessanti dischi da provare in tutta la loro varietà. Seguono dunque il secondo album del progetto (maggiormente) Black Metal di un più o meno tuttofare scozzese ormai ben noto e promosso su queste pagine da quasi una decina di anni, più altri due album di Thüringer Schwarzmetall e diavolerie non meno tedesche per concludere.
Siete dei nostri? Ci auguriamo di sì, mentre incominciamo con un rimedio in forma aurale all’atomismo sociale e culturale ormai tristemente tipico dell’epoca in corso di sviluppo a sfacelo su sé stessa. Singolarità, carattere, coesione e connessione con il passato e gli antenati, i cui traguardi seppure superati in tempi meno sospetti restano ammirevoli all’occhio attento e realmente critico, sono al contrario forti in “Eigenheid”: un disco sincero ed estremamente genuino che al copiare e consumare preferisce i valori del conservare e del sentimento inadulterato per poter creare.

 

 

L’approccio testardamente anti-trend per influenze e stile, se necessario in grado di rimarcare la cristallina sincerità e spontaneità dell’operato, nonché la visione estremamente trasversale del linguaggio Folk-Pagan ampiamente inteso conducono i Nodfyr alla realizzazione di una miscela spiccatamente personale, in cui il riffing quadrato, roccioso e cadenzato e l’avvolgente voce baritonale di Joris Van Gelre non sono altro che i primi e più superficiali elementi a spiccare. In un disco composto con eleganza e gusto, impreziosito di numerosi dettagli dalla sfaccettata cromia, fin dalla prima prova maggiore i neerlandesi si dimostrano capaci di trasporre la maestosità dai connotati epici ed evocativi del più raffinato Quorthon e di possedere al contempo, nel proprio animo, quella necessità, quel motore primo che spinge artisti dal retroterra estremo ad esprimere uno spirito passionalmente radicato nel folklore e nella propria terra: offrire al meglio delle proprie ed altrui possibilità uno spaccato del proprio popolo fatto di chiaroscuri, paesaggi solcati di struggente malinconia e viscerale fraternità, un velo di torpore e tristezza che però, repentinamente, muta in ritrovata fierezza.”

Per chi considera la dipartita di Joris Boghtdrincker una delle gocce che ha fatto traboccare il vaso Heidevolk può ritrovare un po’ di pace interiore e sopita passione nel fuoco del debutto ufficiale dei Nodfyr, band che non si discosta particolarmente dagli albori e dai maggiori successi qualitativi della prima band del cantante (nonché del chitarrista di “De Strijdlust Is Geboren” che l’ha accompagnato in fase di fondazione) ma che va a rinfrescare un sound che nei tempi recenti appariva appiattito e privo di spirito. “Eigenheid”, titolo del qui presente debutto discografico, offre una visione di Heavy Metal in stampo Pagano ricco di sfaccettature folkloristiche, richiami a strutture nonché suoni Black Metal e, soprattutto, un ottimo gusto per quanto riguarda linee epico-melodiche, riuscendo a sfruttare nel migliore dei modi tastiere e sintetizzatori per cucire una trama fiera ed evocativa. Un album che riesce nel suo intento di immergerci in scenari pagano-naturalistici andando -finalmente- a portare una ventata di dinamismo ad una nicchia musicale che oramai, altrove su simili coordinate, non sembra aver più molto da raccontare.”

Dato il successo considerevole riscosso da act come i suoi Atlantean Kodex, non stupisce che Ván Records voglia puntare anche su proposte dal deciso retrogusto di Heavy Metal tradizionale oltre che sul Black di grandiosa fattura sentito di recente e non solo. A dare risalto ai Nodfyr in un tale contesto è il valido spunto offerto dalla rilettura dei Vintersorg attraverso il carattere pagano e mitteleuropeo riconducibile da nomi quali Falkenbach, con le sonorità classicheggianti dei primi disposte lungo ritmiche statiche e marziali non dissimili a quelle su cui il secondo ha creato il proprio trademark. Fortunatamente, oltre agli immancabili frangenti melodici, al debut del monicker della Gheldria non manca nemmeno quel senso d’imminente tragedia tipicamente Black Metal utile a dare un tocco di profondità ad alcuni eccellenti episodi, tra cui l’ambiguo break centrale e la solenne chiusura con tanto di corni di guerra, in un’interessante contrapposizione all’uso dell’artwork luminoso (dipinto ottocentesco che riprende il folklore dei riti pastorali rievocati liricamente) ormai sdoganato in simili declinazioni etene.”

“Più che buona la prima per i Nodfyr che consegnano un granitico, solido e fiero Pagan Metal nel suo classico stile germanico, in cui riff rocciosi e fragorosi incontrano epiche e solenni melodie, qui decisamente attente a non scadere mai in stucchevolezza, più attente punte di Doom Metal (in primis nel curato comparto vocale, ma non di meno nei rallentamenti evocativi), il tutto incorniciato dai testi ispirati dalle storie e dalle tradizioni locali della Gheldria nei Paesi Bassi. Nota di valore è che sia finalmente possibile risentire su full-length, dopo l’antipasto in EP dell’ormai già lontano 2017 (i due brani di presentazione ne “In Een Andere Tijd”) e quasi dieci da “Batavi” degli Heidevolk, la bellissima voce profonda di Joris Van Gelre in un contesto Pagan Metal (nel 2015 fu infatti prestato ai ben più truci e fumosi Wederganger di “Halfvergaan Ontwaakt”) – chiave cruciale e definitiva nel donare maggior risalto all’attenzione melodica delle squadrate canzoni, rendendole ancor più epiche, battagliere, ma anche cariche di emozione. Ottima prova di debutto.”

Andy Marshall con quel “II” che senza troppa fantasia o pretesa di un significato profondo segue il bellissimo “I”, svelandone con ben poco garbo la mancanza di una presumibile poeticità e puntando invece sulla musica più compatta e curata inclusa nel suo secondo album, evidente fuga creativa dai Saor. Serva per bilanciarne l’output, o sia un proverbiale 2×1 con Season Of Mist poco importa: la capacità di creare atmosfera (anche se a comando) rimane.

Se l’atmosfera ampia, rigida e dilatata che fin dalla nascita permea il monicker Fuath sopravvive nell’imbiancare lo scenario di aspri sentori invernali etereamente sospesi, il linguaggio con cui questa si esprime muta quasi radicalmente in sensazioni ed incedere: le vedute scontrose e stratificate del debutto si smussano su un comparto melodico che spadroneggia e si districa in passaggi più vari ed incalzanti, dalle soluzioni meno ipnotiche che ricordano non troppo alla lontana quelle dei Windir (“Essence”), mentre il dinamismo ritmico dalla produzione pulita e dal taglio moderno si regge sullo splendido contrappunto dei sintetizzatori burzumiani e delle rifrazioni chitarristiche a tela (come avviene in “Prophecies”), vero fiore all’occhiello della release nonché elemento cardine nel mantenere vivo e distintivo un disco che, tra un oggi dichiarato ma inatteso flavour novantiano (non solo nella smaccata “Endless Winter”) più una prova vocale arricchita da fugaci sprazzi corali rapiti a “Bergtatt”, riesce comunque a coinvolgere nella sua interezza. L’apparente smorzarsi dell’urgenza rabbiosa dei Fuath di “I” potrebbe far storcere il naso a chi più aveva amato le vibranti e coese sferzate del debutto, ma un’immediatezza mai banale e la capacità compositiva ormai fuori discussione di Andy Marshall rendono anche “II” un’uscita di qualità; forse non memorabile ma in grado di soddisfare qualsiasi palato. Che non stia tuttavia proprio qui l’eventuale inghippo?”

Le aspettative attorno al secondo album dell’inevitabilmente ‘altra’ band di Andy Marshall erano molto alte. I continui, non meglio specificati o motivati e peraltro malcelati rinvii, fra una cosa e l’altra, non hanno però fatto altro che accrescerle, sebbene mischiate ad un certo timore, dato per di più che il primo album (inizialmente inteso soltanto come una toccata e fuga di materiale inadatto in seno ai Saor) fu assolutamente gradito da bene o male tutti coloro che ci entrarono in contatto fin dal 2016. Ma allora come suona il nuovo disco? Innegabilmente bene; nonostante la produzione più pulita tolga quell’apprezzata patina grezza che era onnipresente nel primo album, la tipica sensazione di rabbia (diluita in un mare freddo ed atmosferico) è rimasta intatta. Anzi, si può dire che questo nuovo album sia molto più diretto del precedente, un vero pugno di rancore spedito dritto verso le orecchie degli ascoltatori. Ottima riconferma.”

Apriamo dunque il capitolo delle nomine singole con i tedeschi Kankar, che condividono la non sola nazionalità con chi li segue e chiude l’articolo. “Dunkle Millennia” è il loro album di debutto nonché il primo centro dell’anno per una insolitamente sottotono Eisenwald (che replicherà con ben più forza nel giro di una ventina di giorni, così come durante il resto dell’anno… Aspettate e sentirete…): solido, concreto, quasi pratico ma letale e per nulla banale, Ordog ce ne parla così:

Una volta che hai i riff hai tutto ciò che serve, e forse i Kankar di riff ne hanno pure troppi. L’unico difetto del resto effettivamente riscontrabile in “Dunkle Millennia”, ossia l’evidente voglia dei due esordienti di stupire l’ascoltatore con sterzate talvolta un po’ forzose, si accompagna d’altro canto al lodevole impegno nel tirare fuori dalle chitarre una serie di linee inusuali ed eccellenti, sulle quali il muscolare Thüringer Schwarzmetall viene insaporito da parecchie altre influenze: c’è sì l’impeto dei Menhir (con tanto di vocione roco nei refrain) ma pure il piglio Rock dei Vreid o anche qualche arpeggio ipnotizzante a marchio Inquisition, tutti quanti mischiati insieme da una sei corde dal sound ineccepibile. Molte idee e per nulla confuse; si tratta giusto di limare la scrittura e al prossimo giro avremo qualcosa di superlativo.”

Blasfemia da manuale e maledizioni scarlatte: i Sarkrista di “Sworn To Profound Heresy”, sensazione in popolare ascesa nei cunicoli underground più intransigenti (eppure fortemente orecchiabile e votata alla semplicità d’ascolto qualunque aspetto si voglia considerare), sono fuori per Purity Through Fire e Feanor ne è rimasto colpito proprio per la commistione di stili canonizzati ma non così spesso fusi in una cosa sola.

Le malelingue potrebbero suggerire che lo stile dei Sarkrista sia fin troppo derivativo, finlandese nonostante la nazionalità tedesca ed in definitiva poco originale; ma sebbene le influenze del suono tipicamente finnico siano palesi ed evidenti nel riffing compatto e melodico (cosa ben giustificabile contando peraltro l’ingresso in formazione, dal 2018, di Valtteri Tuovinen dei compagni di label Malum), ciò non rappresenta né descrive nella maniera più assoluta la totalità del loro suono. La matrice teutonica è infatti ben presente con tutta la sua brutalità tritaossa da assalto all’arma bianca, ben evidenziata non solo dallo scream del cantante Revenant, perfetta da contraltare alla parte più oscura, sulfurea e melodicamente morbosa, tipicamente finnica; un ottimo connubio, benché canonico, che si fonde e alterna perfettamente prendendo il meglio di due parti complementari, e che farà la felicità di chi ha amato analoghi successi recenti come quelli dei Totenwache.”

Non resta che consigliare un ultimo ascolto, escluso ufficialmente per via della sua natura minore di demo, ma decisamente troppo buono per non essere almeno citato – specialmente per chi fosse (comprensibilmente, nonché giustamente) in attesa degli Ungfell per fine aprile: (non conosceste ancora gli Ateiggär, o meno) i Goifer del magnifico biglietto da visita intitolato “Grabschlöfer” sono l’highlight di marzo del sottoscritto e faranno in venti minuti scarsi, per ben più di una ragione, al caso vostro.
Chi invece ha cercato senza successo, durante il mese, qualcosa che andasse più in profondità di ciò che è stato suggerito dai nostri, potrebbe trovare pane per i suoi denti nei Monte Penumbra di “As Blades In The Fimament”; patrocinati End All Life / Norma Evangelium Diaboli, sicuramente non eclatanti quanto la media delle produzioni dalle parti della label francese (e parenti associati), oltre che decisamente meno sperimentali e strambi che non in passato, restano qualcosa da provare per i più fanatici del suono che l’anno scorso meglio è stato rappresentato dai nostrani Prison Of Mirrors di “De Ritualibus Et Sacrificiis Ad Serviendum Abysso” (persi? Male!). Vi fossero invece mancati i tastieroni, il misticismo della Svezia più storta e la seconda metà degli anni ’90 (in ordine rigorosamente casuale, ma con tanto di copertina fucsia!), date più di un ascolto agli Escumergamënt debuttanti con “…Ni Degu Fazentz Escumergamënt E Mesorga…” (Avantgarde Music) – ben consci ed avvisati di poterci trovare al più la buona ed evocativa copia di un certo enigmatico spirito, o quantomeno i suoi metodi, ma sicuramente nulla di nuovo.
Tutto, per il momento…

 

Matteo “Theo” Damiani

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