Grey Aura – “Zwart Vierkant” (2021)

Artist: Grey Aura
Title: Zwart Vierkant
Label: Onism Productions
Year: 2021
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Paesi Bassi

Tracklist:
1. “Maria Segovia”
2. “Rookslierten, Flessen”
3. “Het Schuimspoor Van De Ramp”
4. “El Greco In Toledo”
5. “Parijs Is Een Portaal”
6. “De Onnoemelijke Verleidelijkheid Van De Bezwijkende Deugd”
7. “Sierlijke Schaduwmond”

Una manifestazione astratto-geometrica dissolve i contenuti nella sostanza della forma, nella conoscenza dello zero che è conoscenza di Dio, dell’assoluto, generando al contempo una perdita. E proprio sul concetto di deficit, di rimessa momentanea o irreversibile, paragonata a ciò che si guadagna o si arriva a conoscere nell’inafferrabile processo, ci si vuole concentrare: la privazione – della memoria, amnesia, mancanza della coscienza e perdita della ragione nei meandri di un’opera d’arte -osservandola, fruendola o creandola non importa- di una personalità così devota e smarrita nel proprio manifesto, al momento del salto febbrile nella fierezza della vita approcciato tuttavia con mezzi che, nel sogno artistico, sembrano evaderla in favore di tutta una serie di esperienze e sensazioni invece irraggiungibili nel campo del reale; ovvero, la tendenza a sradicare il confine tra la struttura estetica e la realtà che si traduce in pura, surreale follia audiovisiva.

Il logo della band

Modernisti convulsi dall’immaginazione sincretica che dipingono su pentagramma una cacofonia affascinante in tre soli colori primari di pari importanza, senza centro compositivo tra bianco e nero, senza l’ausilio della gravità, trapassando concettualmente e fisicamente il lavoro di Kazimir Malevič d’inizio ‘900 e quello letterario tutto ottocentesco di Flaubert, l’eroticismo batailleano, il suprematismo, il controverso “Vittoria Sul Sole” del 1913, Kandinsky e Rimbaud, la sessualità malata e la morte per il tramite della contraddizione creativa rappresentata dalle tre femmes-fatales che il protagonista della commedia sghembamente musicata dal gruppo d’intellettuali d’Utrecht incontra e di cui diventa vittima (le tre donne della storia che divengono immagini e stadi di maturazione, veri riti di passaggio psicanalitico non molto differenti poi da quelle -peraltro in pari numero- di un “Mogens” di Jacobsen) parallelamente alla corrente che quest’ultimo insegue perdutamente per l’Europa intera dopo essere entrato in un contatto di non ritorno con lo zwart vierkant, dilaniato oltre la vita tra quella visione e il lavoro mistico de El Greco (1541-1614) in imprudenti composizioni imprevedibili che sono del resto nozioni in continuo spostamento combinanti sperimentalità Jazz (“Parijs Is Een Portaal”, su tutti), Folk (“El Greco In Toledo”), asperità di un ambiente dal raggio d’azione infinito eppure strettamente correlato ed ancorato agli elementi più riconducibili ad un Black Metal avanguardistico (bastino le mozzafiato “De Onnoemelijke…” e “Sierlijke Schaduwmond”) ora prestatosi al gioco del radiodramma e del teatro astratto, del surrealismo e dell’opera, del globale che esplora al contempo gli anfratti notturni di una decadente Parigi moderna d’inizio ventesimo secolo tramite la mente coerentemente degradante e via via sempre più disturbata dell’artista che ne osserva e calca le vie. In sette raffinati brani legati con un fiocco di raso rosso tra loro, la seduzione ineffabile della virtù svanita, l’ossessione ed il desiderio romantico di una Madame Emma Bovary mutata di sesso e dialogante in prese dirette da rumoristi foley con i Furia e Kubrick, in cui si perde ad occhi sbarrati fino alle estreme conseguenze di una pazzia malcelata, si fa dadaista in uno sforzo di subordinazione allo scopo comune, una sorta di fusione klimtiana, per abbracciare l’assurdità e la mancanza di senso con la distruzione di tutto ciò che è in precedenza familiare; per far emergere un’esperienza inconsciamente comune e a cui, in potenza, chiunque può relazionarsi.

La band

Si tratta in fondo di nient’altro che la grande opera d’arte che deve abbracciare ogni genere dell’ars a tutto tondo, a cui questa tende per natura espansiva, in modo da consumare e bruciare ogni difettoso spigolo di esoticità a favore del raggiungimento dello scopo collettivo per tutti coloro che verranno e potranno comprendere – o anche solo provare a farlo. Di fronte alla sintesi delle arti che punta e riesce in grandissima misura ad essere un lavoro meticoloso come “Zwart Vierkant”, all’opera d’arte totale, a quella fortemente ideale, universale, l’art total più completa e l’omnicomprensiva gesamtkunstwerk di wagneriana memoria, ogni dettaglio diventa infatti un piccolo capolavoro a sé e al contempo meticolosamente incastrato nel complesso; ogni parte è progettata dal principio per poter integrare ogni altro elemento all’interno del puzzle tutto-opera-disco; ogni singolo brano-simbolo con l’eccezione dell’opener nonché esposizione della storia letteraria, l’ossessiva e perversa, frantumata cattedrale gotica “Maria Segovia” con la sua religiosità ortodossa deviata, è stato non casualmente anticipato tra il 2017 ed il 2019 nel doppio demo concettuale, poi rielaborato, limato ma soprattutto rivisto in totalizzante favore della creazione finale su full-length che è proprio “Zwart Vierkant”. Il club della fruizione innovativa dei Grey Aura mescola tutto ciò che conosce e vive all’interno della produzione cercando la forma inedita che riesca ad andare realmente oltre la somma delle precedenti componenti trasmutate, sfigurate e deturpate, spesso ringiovanite e strappate di contesto; ammodernate, laddove l’arte diventa ancor più artistica sputando sulla creazione di natura divina e anzi rivendicandola come tale, assimilandola al lavoro della natura con la forza della varietà di materiali, della connessione di lirica e musica in una natura di pictura poesis dall’udito colorato di Olivier Messiaen in frastuoni disarmonici ma seducenti in cui, loro volta, la spettacolarizzazione da cabaret (quella della non sola, ma sopraffina, “Parijs Is Een Portaal”) diventa tra nacchere e chitarre flamenco-styled la norma, e la straordinarizzazione per molti versi anche (si pensi solo al salto in stranezza dal lunghissimo, ma musicalmente infinitamente più standard, debutto di Black Metal semplicemente arricchito da una certa qual voglia sperimentale nella narrazione) nel senso di mistero, di fascino del vagamente incomprensibile e dell’end-to-end linguistico tra neerlandese, francese, spagnolo e russo, abbracciando ogni fibra per raggiungere l’esperienza artistica totalizzante. Proprio quel suprematismo di cui cade dopotutto malaugurata (ma impossibile da dirsi se involontaria) vittima il protagonista dello “Zwart Vierkant” concept album, nonché elemento visivo stesso scatenante la perdizione: una tavola nera senza apparente significato che rimanda direttamente (ed esplicitamente, si prenda come riferimento il libretto o il disco dell’album, se non il saggio illustrativo ai suoi temi pubblicato dal cantante e polistrumentista del gruppo Ruben Wijlacker) all’attenzione data al colore se privato di forma immaginativa e sottoposto al controllo completo, autocratico e dispotico dell’artista che vi include tutti i campi della vita, abbandonandovisi, nessuno escluso, e reso musicalmente sabbioso. Di un’aridità tuttavia perfettamente fertile, a metà tra i Deathspell Omega di “Drought” e l’inesplorato; del lato più funambolico e amaro dei Peste Noire di “L’Ordure À L’État Pur” (anche nella voce in “El Greco In Toledo”, nonché nell’utilizzo degli ottoni nella composizione più in generale a dipingere però l’asciutto e desolato sud iberico) che viene invece incanalato in “Het Schuimspoor Van De Ramp” (con tanto di stranianti melodie orientali da le “Mille e Una Notte”) e filtrato tramite “Written In Waters” e “Those Who Caress The Pale”, poi inasprito dalle ultime sensazioni connazionali di Laster e Nusquama (con cui i Grey Aura condividono non sorprendentemente l’addetto alle quattro-e-più corde Sylwin Cornielje proprio dalle registrazioni del disco in questione) per creare Black Metal ed apparente improvvisazione Jazz (da ricordare: nulla è gettato per caso nell’impasto da menti simili), canali progressivi sopra e sotto le strutture -talvolta così paralleli da fare invidia all’icona “Screaming For Vengeance”, altre intersecanti quando non lavoranti perpendicolarmente tra loro- che diventano musica fusion per i palati più estremisti non tanto nel senso della mera comprensione (il disco è tutto sommato piuttosto immediato con i suoi molteplici hook e motivi di riascolto incastonati in ogni brano a totale sorpresa), bensì della degustazione in una pantomima architettata tramite riffing increspato e bocche parossisticamente deformate oltre una praticità canora ormai totalmente negletta.

Condensato il già allucinato lavoro dei demo, uno non da prendere alla leggera, se possibile nuovo, fresco, a tratti anche spaventoso, delle bozze ovverosia rilasciate in precedenza e poi tagliate (come nel caso delle zompate dell’esclusa “De Drenkeling”), piegate dispoticamente alla struttura più omogenea del disco registrato in studio; degli sketch insomma che hanno creato il ponte tra il debutto ed il sophomore album, dai primi capitoli di “De Protodood In Zwarte Haren” (il romanzo sperimentale di colui che condivide il cuore del progetto neerlandese insieme al compare Tjebbe Broek, su cui è basato l’apparato più astratto dell’opera), fino al criptico ma magniloquentemente devastante finale, i Grey Aura vagano per l’Europa moderna tra lingue utilizzate, forme machiavellicamente stuprate e luoghi brutalmente campionati al fine della creazione in architetture di un fine valore intellettuale, di un eclettismo creativo estremo ed innegabilmente provvisto di anima: dalla madre Russia, terra natia del protagonista, all’Europa centrale dei Paesi Bassi, di Toledo e della mistica Parigi, a metà strada tra il caos ed il controllo ideologico più totale che sputa sull’arbitrarietà illustrativa e veicolare, nella musica quale modello ultimo ed impressionante per la poesia della perdita -di una proto-morte, del resto- che tende ad esprimere le esperienze ed impressioni più intime e sfuggenti tra le dita del tempo scatenando i sentimenti ma ancor di più l’intuizione delle più rare.

Matteo “Theo” Damiani

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