Giugno 2022 – White Ward

 

Fulgide luci all’orizzonte, accese come fuochi nella radura, immersa com’è in quel mare d’oro e di sole che nasconde coi suoi raggi un malessere che non ha fine. È il mese di luglio, ci dicevano i Katatonia nel 2006, maestri del disturbo ad ampio spettro da trent’anni, ed è violento qui – in questa casa che, come suggeriscono più di recente altri colleghi quasi a volere aggiungere una postilla in un discorso tra più artisti, non ha casa dentro di sé… Non fosse che, in verità, siamo ovviamente qui riuniti in guisa virtuale per fare il punto della situazione non del mese in corsa, tutto ancora in evoluzione, bensì dell’ultimo trascorso come di consueto.
Che i White Ward si sarebbero presi la copertina dell’articolo di giugno 2022 era ampiamente prevedibile, lo ammettiamo candidamente, soprattutto (ma invero non soltanto) a fronte di prove non proprio esaltanti da parte dei più quotati nomi del giro. Che l’avrebbero fatto con una piena standing ovation lo era già di meno; ma l’inclusione di quel che immediatamente segue la trattazione a dieci mani di “False Light” (fuori, ormai dovreste saperlo, per i nostri cari ed oscuri amici d’Oltralpe di Debemur Morti Productions) che vi apprestate a leggere è invece francamente imprevista persino da noi stessi. Ma bando alle critiche e ai sopraccigli alzati che pioveranno inevitabili come per ribaltare l’aspetto della copertina dell’album del mese: no regrets – no remorse, dicevano altri tra questi autori che tanto amiamo. No repent (no, we don’t care what it meant), aggiungevano quattro spiriti imberbi ed insolenti ventitre anni prima… Perché tanto lo sapete che quel che ha contato un disco per il mondo esterno a noi non tange proprio, giusto?

 

 

[…] I White Ward di “False Light” si guardano insomma dentro più che mai per capire realmente e senza banale retorica impostata di virtù ciò che accade fuori, tra sguardi vuoti e quella devastante incomprensione che apparentemente insita attanaglia la specie umana – annotano ogni cosa strana, crudele ed inspiegabile attorno a loro, ogni barbarie, ogni meschinità, e vi rispondono con un disco toccante, a tratti più gretto e cattivo del solito, ma proprio perciò pieno di disgusto per la vita che conosciamo in dichiarazione d’amore per la vita che dovrebbe essere. […] Insomma, in un lavoro di traslucida disillusione, struggente tristezza ed imponente ambizione che supera in eleganza, capacità, vigore e piena originalità qualunque precedente benché sempre riuscito sforzo creativo, piazzandosi esattamente accanto ai tizzoni ancora ardenti tra le rovine di quei due pezzi dello scorso anno e per molti versi superandoli pure con una fiammata capace di far risorgere dalle proprie ceneri con rinnovata potenza non una ma cinque mitiche fenici, i White Ward sono sempre più audaci, fini e sensibili esploratori di un incubo, di un orrore: quello della violenza ingiustificata dell’esistenza […].”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

Il grembo scricchiolante ma accogliente di una casa, universalmente simbolo di sicurezza e tranquillità, è tuttavia l’instabile punto di osservazione delle diapositive di tormento, inadeguatezza e tragedia che in “False Light” si susseguono violente e ricche di dettagli. Dopo aver dimostrato grandi ambizioni e spiccato talento nei bagliori notturni del già splendido “Love Exchange Failure” e aver consolidato il proprio songwriting nei due fulminanti pezzi dell’EP “Debemur Morti”, gli ucraini White Ward giungono con il loro terzo disco a quello che senza mezzi termini si configura come il definitivo salto di qualità: strutturato, emozionante, complesso, lungo in timing ma sorprendentemente solido nel saper esprimere al meglio tutte le ricche e particolari sfaccettature di un suono che, seppure ricco di chiaroscuri e contraddizioni, scorre sempre meno frammentato fra le varie anime del progetto e invero incredibilmente organico. Ciò che prima suonava sperimentale ora è l’emanazione senza filtro di una band che è indiscutibilmente padrona del proprio mondo, unico e perfettamente riconoscibile.”

Ritornano gli ucraini White Ward riconfermando la propria capacità di sconfinare con cognizione di causa fuori dagli schemi del Black Metal andando a proporre una mistura di generi perfettamente bilanciata ed emotivamente intrigante. L’ingranaggio assemblato da elementi derivanti dal Metal estremo, dal Post-Hardcore e da un pizzico di Jazz è ormai perfettamente oliato e il disco scorre infatti con estrema naturalezza e gode tra l’altro della miglior progressione compositiva mai proposta nella discografia della band. Dopo svariati ascolti l’impressione è difatti quella di essere di fronte ad un prodotto assolutamente maturo, dotato di una chiara visione alle proprie spalle e decisamente più coeso di “Love Exchange Failure” – che sì aveva, dal canto suo, forse degli sparuti picchi qualitativi leggermente più alti, ma che veniva anche penalizzato da una scarsa esperienza nel mantenere costantemente vivo e pungente quel mood fatto di desolazione urbana e problematiche sociali. Oggi all’interno di “False Light” troviamo invece un percorso sonoro ed atmosferico molto più strutturato che arriva a toccare spessori maggiormente variegati, che in alcuni momenti mi hanno ricordato i Thy Catafalque dei tempi d’oro. È infatti in questa prova di piena maturità e sperimentazione della band che per la prima volta ho ritrovato delle influenze dell’Est Europa in un brano dei White Ward. E chissà se non sarà proprio la maggiore connessione con le proprie origini a permettere, in futuro, a questi ragazzi di mantenere simili livelli di eccellenza per ancora molto tempo…”

“Gli spiriti e gli intelletti più alti percepiscono sempre la tragedia avvicinarsi, e lo dimostra la desolazione che regna sovrana su ogni episodio di questo memorabile “False Light”, alla stregua dell’opprimente sole estivo il quale soffoca il respiro e corrode il senno. Nel suo polimorfismo fatto di sfuriate -core deflagranti su sintetizzatori ed accenni Cold-Wave di gusto inconfondibilmente sovietico, il terzogenito del collettivo di Odessa vomita oltre un’ora di rabbia e disperazione negando con coraggio l’appiglio crepuscolare finora mantenuto, a dimostrazione che l’ineluttabile luce del giorno può fare molta più paura del rassicurante buio notturno. Nemmeno la città è più al centro della poetica dei White Ward, votata ormai all’introspezione più amara in un mondo alla deriva, il quale certo non merita commenti musicati da quella che ormai è definibile la migliore realtà in assoluto nel settore Black avanguardistico.”

“Si dice che il tre sia il numero perfetto o, nel caso di un gruppo musicale, che il terzo album sia e debba solitamente essere quello della definitiva maturazione dopo le riprove del secondo. È proprio questo il caso di “False Light” degli ucraini White Ward, che mostra al mondo la completa quadratura del cerchio sonoro finora costruito con perizia dal quintetto di Odessa, uscita dopo uscita: una base di Black Metal (i cui riff sono persino leggermente più accentuati e prorompenti, definenti la canzone rispetto al passato) dove mescolare liberamente ma con estremo raziocinio tutte le varie influenze congrue al linguaggio dei musicisti, creando così una caleidoscopica tavolozza dei più disparati colori; un miscuglio di suoni, molto ben ragionato e sempre ottimamente suonato, in cui l’ascoltatore può perdersi meravigliosamente. La consacrazione è arrivata.”

I Satyricon. No, non è uno scherzo: “Satyricon & Munch” (uscito per quell’a dir poco strana etichetta che è ormai Napalm Records), per quanto assurdo possa sembrare alla lettura, è veramente un bel disco. Uno di quelli che ti mette chiaro sotto il naso come i veri artisti, apprezzati o meno alla volta di uno o più album, vadano comunque ritenuti e riconosciuti come tali anche e soprattutto quando smettono di piacerci. E che a volte l’impensabile può accadere.

“Niente Metal. Niente Rock. Niente voce. Niente chitarre per come le conosciamo più solitamente qui sopra e niente percussioni a fare ciò che ci piace tanto sentire da un kit di batteria stuprato da qualche volto-pittato a scaldarci il cuore. Niente avanguardia, nemmeno. Nulla di tutto ciò, sebbene uno dei due musicisti sia Frost e l’altro pur sempre Satyr. Non è dato sapere come potessero suonare le opere di Munch nella mente dell’icona Edvard Munch quando le ha create oppure osservate appena concluse. Probabilmente non come suona “Satyricon & Munch”, dall’alto del suo considerevole coraggio artistico; eppure, ciò che è più sicuro e quel che più conta su pagine simili, è che i Satyricon che nonostante ogni prova morta negli ultimi venti anni restano quella band per cui dovremo ringraziare per sempre sia esistita, hanno pubblicato di nuovo un vero bel disco: non come se da “Rebel Extravaganza” il tempo si fosse o potesse essere fermato, ma piuttosto come se il progetto Wongraven dalla sua bolla di sapone fosse invece entrato in contatto con la modernità – per così chiamarla; quella meno stereotipata di Treha Sektori, dei Tenhi più cupi, dei Domjord e tuttavia mantenendo quella indefinibile qualità che ti fa tremare la pensiero che Pesta sia lì, ferma a fissarti sguardo vitreo dalla finestra. Il suo fedele rastrello che spunta dietro la schiena…”

Quello che rischiava di essere un atipico e singolare divertissement incastonato nella routine decennale di band affermata finisce per rivelarsi un inaspettato espediente di freschezza: l’incontro fra i Satyricon e Munch non è solo il dichiarato esempio di come l’arte possa imitare l’arte dando vita ad opere completamente nuove e potenti, ma è la vivida dimostrazione dell’importanza in ambito musicale di cercare periodicamente nuovi stimoli. In 56 minuti, Satyr e Frost tracciano scorci imbevendoli di frequenze vibranti e ipnotiche, tratteggiandoli di quel tenebroso folklore che sembrava per sempre smarrito e sfruttando i minimi termini di un Black Metal disciolto negli effluvi di un perpetuo rumore bianco. Sorprendentemente atmosferico e visuale, “Satyricon & Munch” assume forma e vita propria anche fuori dalle stanze del Munchmuseet e porta con sé la speranza che questa nuova ispirazione compositiva sia, a differenza della mostra, tutt’altro che temporanea e che lasci i suoi strascichi anche quando il gain verrà riacceso e le voci torneranno a sputare sangue come sempre dovrebbero.”

Si torna sulle frequenze maggiormente distorte e caotiche con i Wrang dai Paesi Bassi, che hanno travolto il nostro buon Kirves con il loro Black Metal adrenalinico, sporco e tanto Taake quanto lontano dalla Scandinavia per concetto. “De Vaendrig” è il loro secondo album, uscito con la bandiera di Dominance Of Darkness Records, e ha le carte in regola per soddisfare ben più di un palato – soprattutto se siete tra quelli che hanno alzato il sopracciglio più degli altri poco fa.

Se la zona dei Paesi Bassi e quella limitrofa hanno dato i natali nel recente passato a diverse band che cercano di usare il Black Metal come punto di partenza per arrivare ad altro con eclettismo e novità, il Domstad Swart Metael che dava il nome al debutto dei Wrang suona come il titolo sfacciato e sincero di un manifesto reazionario che in “De Vaendrig” trova un suo sanguinoso compimento: i riff taglienti, l’incedere adrenalinico e la naturale tendenza verso ritmiche Black ‘N’ Roll fanno del secondo disco della fiera milizia di Utrecht un’uscita che coinvolge dalle prime battute. La miscela bilanciata di soluzioni dall’evidente impronta norvegese e una regalità che gioca sui preziosismi delle chitarre soliste è infatti l’evidente risultato di individui che suonano ciò che amano e lo fanno divertendosi, con tutte le relative conseguenze del caso: da un lato la sua indubbia sincerità fa di “De Vaendrig” un’uscita spigliata e senza requie, dall’altro un pizzico di ambizione e una maggiore attenzione nel sottolineare le peculiarità del progetto avrebbe reso il secondo capitolo discografico dei Wrang ancor più interessante, profondo e durevole.”

Chiusura dedicata a tutti coloro che giustamente  non hanno mai più ritrovato i brividi dei Mayhemic Truth nei Morrigan: è forse arrivato il momento di riprovarci. Non solo perché “Anwynn” esce per una Werewolf Records che su certi passatismi è garanzia di un fiuto quantomeno stilistico, né per i dieci anni passati dall’ultimo tentativo, bensì perché un rinnovato duo consegna il suo disco più riuscito di sempre – per tanto o poco che per il lettore questo sia.

“Chi, come il sottoscritto, sente di essere rimasto in qualche modo orfano di un certo modo di suonare non tanto con la morte terrena di Thomas Forsberg, bensì già con la fine del suo ciclo compositivo che parte da “Blood Fire Death” e finisce nel crepuscolo degli dèi fattosi-Metal nel 1991, ripreso un lustro dopo nell’appendice “Blood On Ice”, non può che rimanere sempre in parte affascinato da chi davvero (al di fuori dei più illustri e legittimi figli di quella visione portata avanti in altre e spesso ancora più splendide e tra lor tanto differenti come quelle di Moonsorrow, Thyrfing o Macabre Omen) sembra volerne portare avanti il linguaggio in una doppia direzione: ciò che dal 1984 è evoluto in e da quei lavori da un lato – quel che quella stessa tetralogia di lavori ha rappresentato e ancora oggi rappresenta dall’altro. Dai Falkenbach ai Nachtfalke, passando per i Morrigan. E s’è vero che questa seconda rappresentanza scade più spesso che no nel mero citazionismo (vedasi l’eloquente esempio Ereb Altor), è innegabile che la potenza insita nella devozione tanto della triade nominata quanto nei disciolti Mayhemic Truth. La vera Bathory-worship parte però nella resurrezione Morrigan, che tra episodi più e decisamente meno felici arriva però con “Anwynn” ad un punto senza precedenti compositivi. Le orchestrazioni maestose sembrano finalmente portare quel linguaggio oltre il progenitore, senza volere a tutti i costi cercare le coste di un irraggiunto “Nordland III”; la compenetrazione strutturale del lavoro nei movimenti a fisarmonica tra Black e Viking Metal ricorda proprio quella felicemete usata in “Asa” del collega tedesco nel 2013 (e da lì abusata da altri), e più in generale si toccano vette mai raggiunte in precedenza dal progetto sotto questo nome. “Anwynn” non cambierà le sorti di alcun genere, questo è chiaro – ma non vuole farlo. Quel che finalmente i Morrigan sembrano qui voler fare è tuttavia riportare in vita un linguaggio con la passione necessaria a far finalmente valicare il passo di quella montagna forse inarrivabile verso nuovi orizzonti.”

Questi quattro dovrebbero insomma bastare a fare la differenza nel periodo un pochetto più morto che, da ascoltatori affezionati di questa musica, come sempre si fa vivo (per così dire…) tra luglio e la fine di agosto. Ma siamo del resto ormai giunti a metà dell’estate e, in attesa di più sicurezze discografiche presumibilmente in agguato da settembre in avanti per l’ultima tranche dell’anno, se il caldo continua ad esagerare con voi, tornate ad abbassare la temperatura con l’aggiunta di rimedi pratici quali “Filosofem”, “Frost” ed “In The Nightside Eclipse”, così come vi suggerisce chi firma questo articolo di pronto soccorso per i dovuti recuperi lungo luglio; oppure, come invece ci suggerì nel 1995 qualcun altro a cui negli ultimi dieci minuti come negli ultimi trentacinque devono essere fischiate le orecchie parecchio, tentate d’immergere i bulbi oculari nel lago più freddo e profondo che trovate nelle più o meno remote vicinanze – forse così vedrete finalmente dal di dentro; forse vedrete anche se ciechi. O forse no? Qualora scettici, qualche meno rituale e poetica certezza in più la trovate dunque in questi quattro dischi della rassegna odierna, purtroppo non nel nuovo Saor, forse nei Pestilent Hex che sembrano essere l’unica speranza di luglio (se siete tra quelli sempre un passo avanti agli altri), e speriamo la troveremo anche nel nuovo Grima più che nel troppo raffazzonato precedente.
Ah, e un premio a chi, prima della pubblicazione del prossimo del mese, ci scriverà indovinando tutte le citazioni racchiuse nella apertura d’articolo che avete appena letto. Proprio tutte, intesi?

 

Matteo “Theo” Damiani

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