Artist: White Ward
Title: “False Light”
Label: Debemur Morti Productions
Year: 2022
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Ucraina
Tracklist:
1. “Leviathan”
2. “Salt Paradise”
3. “Phoenix”
4. “Silence Circles”
5. “Echoes In Eternity”
6. “Cronus”
7. “False Light”
8. “Downfall”
“And only the locusts shall sing at the end of the day…”
Il frinire avido delle cavallette avvolge di rimembranze col suo ronzio dal sapore estivo e di strana pace il silenzio di morte in cui si ergono le finestre vuote, cave, nemmeno più sbarrate da lignei assi improvvisati. Rotte e ricolme soltanto di una profondissima nerezza insondabile, occhi implosi nel buio di una casa abbandonata a bagno nell’oro pallido di una radura assolata. Dentro l’abisso e fuori splende il re degli astri, su di una abitazione che ha radici profonde e sanguinanti nonostante l’esterna apparenza dimessa e dismessa, in rovina, lì per cadere su sé stessa da un momento all’altro, specchio di un mondo sottosopra metafora a sua volta dell’interno di ognuno di noi – di segreti, di nefandezze a cui è troppo difficile dire no nonostante si debba assolutamente dire di no in pubblico, sommersi da quella finta luce che spoglia, che rivela e che svela; di demoni impossibili da detronizzare del tutto dai loro scranni di ossa spezzate e cancri impossibili da sradicare completamente dalle fibre luride di un’essenza criptica, ardua da afferrare eppure comune al mondo intero dei senzienti. Un edificio nasce del resto per l’essere umano come casa e poco altro: come luogo in cui trovare conforto e protezione. Ma questa spettrale costruzione di legno marcio e abbandonato, essiccata e slavata dal sole, sventrata da chissà quale orrore, non può offrire più altro che quella luce falsa in cui affoga e il ronzare delle locuste senza fondo come colonna sonora di un disprezzabile mondo privo di possibilità di fine.
E se la notturna black house costruita dal suo interno da altri recentissimi e ricettivi esploratori divergenti ai più solidi dettami stilistici della musica nera è in retrospettiva valsa un biglietto di sola andata per l’inaspettata e non programmata tappa finale di un viaggio dal purgatorio all’inferno personale dei Secrets Of The Moon due anni fa, dopo la rivoluzione “Sun” del 2015, quella che campeggia non dissimilmente per spazi e prospettiva in copertina al però diametralmente solivo “False Light” degli sperimentatori ucraini White Ward sembra invece essere un tutto nuovo punto di partenza verso inediti obiettivi d’investigazione non solo musicale. Proprio laddove la sorpresa abnorme di un “Futility Report” viveva della sua anima noir e Trip-Hop per alcuni versi irreplicata nel consolidamento di urbanismi Dark-Jazz del maturato “Love Exchange Failure”, e quest’ultimo trova invece ragione nelle sue splendide complicazioni di timing e scrittura accostati ad una certa reticenza nella condensazione e nel taglio oculato alcuni nondimeno ardui scogli da superare (si pensi alla falla, o quantomeno passaggio a vuoto, nel ponte tra “Shelter” e “No Cure For Pain”, ma in generale a qualche minuto di troppo in molti brani del secondo album dei cinque della martoriata Odessa), “False Light” risponde con ponti bruciati per molti aspetti in ognuna delle due e singolari direzioni. Le ambizioni personalissime e l’affinamento di scrittura, nonché un sicuro stile ormai consolidato nel precedente disco rivivono certamente nel terzo full-length della band – così come le improvvise, quasi cinematografiche accelerazioni scorticanti cuore ed anima della composizione già di piccoli capolavori come “Dead Heart Confession” e la stessa title-track dal medesimo “Love Exchange Failure” sono il vero punto di partenza su cui rifinire il proprio stile resosi impossibilmente confondibile nei due sopraffini brani del mini “Debemur Morti” (omaggio alla fiduciata etichetta francese con tanto d’irripetibile ospitata di un supremo Lazare al microfono nella maestosa traccia omonima); e ciononostante quel che più rende al contempo nuovo passo in un discorso evolutivo e album a sé “False Light” è la strabiliante disinvoltura con cui vi vengono mescolati inevitabili richiami dal passato recente del gruppo a motivi completamente inediti, facendoli suonare come da sempre presenti e striscianti nel DNA organizzativo del quintetto. Come microscopici granelli di cristallo bianco in un paradiso privo d’acqua e fatto di sale, dove ogni abitante ha sul suo corpo ferite incolmabili ed impossibili da rimarginare.
Ciò che sopravvive è un coerentissimo punto d’incontro tra la rabbia indipendente degli Husker Dü innalzata a proporzioni statuarie nella prima parte di una grandissima “Leviathan” in cui si nasconde senza remore un macrocosmo di proposte ed elementi, tra la pesantezza allarmante e geocentrica Converge, l’ecletticità Solefald virata al lutto perenne e la disarmonia spiritualmente irrequieta dei Deathspell Omega con le apocalissi Neo-Folk dei Sol Invictus filtrate dal torrido caldo di un’estate di guerra interiore tra i biondi campi ucraini su cui danzare come scheletri in attesa della fine che non arriva, inebriati da strutture e riff che racchiudono in loro tutto il peso dell’esistere, del vivere. Disperate carcasse musicali che rinascono progressive e nascondono -e sprigionano- un’immensa profondità espressiva, un’esplosività solo in pochissimi e migliori episodi dimostrata fino ad oggi dai White Ward pur nella impegnativa durata di oltre un’ora del precedente disco. “False Light” quell’ora abbondante la replica pressoché pari e senza passi indietro, bensì solo e soltanto con una sequela di falcate in avanti nella distillazione di momenti di purissima raffinatezza e nel taglio spietato di qualunque attimo di lungaggine non funzionale o anche solo lontanamente definibile filler. E scevra da commiserazione o freni è anche l’esplorazione dell’anima, della propensione Hardcore del gruppo: si voglia penssare alla conclusiva title-track, partendo dalla fine, con quella incurante efferatezza da polmoni esplosi e mancanza di autocontrollo nella voce spezzata e sgolata, che si spegne distrutta eppure cupa, acida, tormentata, piena di cinismo e torva in pienissimo stile Black Metal all’interno delle sezioni dall’atmosfera più soffusa e dalle movenze totalmente Jazz (exempli gratia quelle che aprono “Silence Circles” come proprio “False Light”) che oggi, a differenza del passato, s’integrano anche all’acusticità canzonesca della totalmente inaspettata e wakefordiana “Salt Paradise”, condita dalla novità del cantato pulito di Jay Gambit dei Crowhurst e dal sax che, insieme allo strusciare più basso degli archi, raggiunge in un abbraccio fraterno le trombe corbucciane impiegate per mano di Jerome Burns nell’opener.
Ma una sorpresa ancor più grande risiede forse nel mutare prima toccante delle tastiere d’improvviso verso il suono dei sintetizzatori grassi ed ‘80s di Fabio Frizzi, di John Carpenter e del Vangelis meno cosmico e tangerinedreamesque, di Kyle Dixon e Michael Stein dei Survive, del Prophet-5, dei mellotron e delle Roland SH-2 filtrate all’occorrenza (non dissimilmente a come i Nokturnal Mortum ne hanno utilizzato l’effettistica nella “Barbarian Dreams” commiato dell’ultimo “To Lunar Poetry” di quest’anno), che incontrano i gain dei Satanic Warmaster e la scomposizione dei Downfall Of Nur dell’album collaborativo coi Selvans in “Mater Universi”, rinforzando e dando scheletro ripiegabile ma indistruttibile ai moti claudicanti dei Panopticon. Un successo di comprensione, poliedricità e sintesi in cui risplendono per prima -e come esempio probabilmente più lampante- la strabiliante forma dei dieci minuti di “Phoenix” (in cui non è un eufemismo avvisare come vi accada dentro di tutto) e poi le evoluzioni fuori di testa di “Cronus” – i giri concentrici del Post-Punk evocato da Vitaliy Gavrilenko nelle prime strofe che incontrano l’opprimenza e l’eleganza del Post-Metal dei Neurosis di “A Sun That Never Sets” e lo stridere del Black Metal più venefico di scuola Debemur Morti, tra rallentamenti guidati dal ride della batteria da pelle d’oca ed irradiazioni di velocità che sembrano provenire da una mente in preda di sé stessa, in soli sei minuti che contengono un mondo intero. E se effettivamente il requiem conclusivo in atto nel quarto d’ora di straziati riff che a valanga danno nome all’album può anche essere considerato come un eccellente riassunto di tutto ciò che ha evidentemente animato le febbrili visioni musicali dei White Ward negli ultimi tre anni di composizione (nonché un nuovo apice qualitativo di per sé), un altro -impossibile da dribblare- gancio ai danni di chi credeva di potersi attendere l’aspettato dalla band è dissotterrato dalle polveri della nuova quasi-epicità nella mastodontica mise en abîme di una già accennata “Seven Circles”, con tutto il suo raffinato melodicismo e con tanto di rimembranza Enslaved anni 2008-2015 in quello strabiliante centro di canzone dove sopraggiunge ancora una volta il timbro da crooner di Gavrilenko ma in un duetto eccezionale con la scorticata voce portante, mentre il pericolo del silenzio accerchia annichilente, prima che tutto riparta in velocità e aggressione sulle ali di rimbalzi palm-muted dal sapore Melodic Death Metal in una galoppata idealmente western-like ma condotta dal sassofono in quasi dieci minuti di brano che, per la prima volta nella storia della band, volano come e ancor più che fossero i tre della soffusa “Echoes In Eternity”: lacrime e silenzi, malintesi, indifferenza ed impassibilità che si sciolgono pietrificati nell’acido della paura dell’altro che diventa la normalità.
I White Ward di “False Light” si guardano insomma dentro più che mai per capire realmente e senza banale retorica impostata di virtù ciò che accade fuori, tra sguardi vuoti e quella devastante incomprensione che apparentemente insita attanaglia la specie umana – annotano ogni cosa strana, crudele ed inspiegabile attorno a loro, ogni barbarie, ogni meschinità, e vi rispondono con un disco toccante, a tratti più gretto e cattivo del solito, ma proprio perciò pieno di disgusto per la vita che conosciamo in dichiarazione d’amore per la vita che dovrebbe essere. Osservano il mondo che viviamo per capire cosa e come potrebbe essere un altro mondo forse impossibile da raggiungere – un posto migliore, un’ultima Thule priva d’ideologie e bandiere ma senza i paletti autoimposti dell’utopia, della vuota speranza, senza voltare lo sguardo da mani insanguinate che non riescono ad essere più lavate. Senza distogliere la cruda attenzione da quell’uomo che troppo tempo addietro ha condannato sé stesso, con le sue stesse mani sporche e colpevoli, autrici del misfatto, a vivere la più grande delle pene inflitte al suo simile nella ricerca febbrile del dissimile. Insomma, in un lavoro di traslucida disillusione, struggente tristezza ed imponente ambizione che supera in eleganza, capacità, vigore e piena originalità qualunque precedente benché sempre riuscito sforzo creativo, piazzandosi esattamente accanto ai tizzoni ancora ardenti tra le rovine di quei due pezzi dello scorso anno e per molti versi superandoli pure con una fiammata capace di far risorgere dalle proprie ceneri con rinnovata potenza non una ma cinque mitiche fenici, i White Ward sono sempre più audaci, fini e sensibili esploratori di un incubo, di un orrore: quello della violenza ingiustificata dell’esistenza.
“Red colours mask the grass: in them we trust.”
– Matteo “Theo” Damiani –