Funeral Mist – “Deiform” (2021)

Artist: Funeral Mist
Title: Deiform
Label: Norma Evangelium Diaboli
Year: 2021
Genre: Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Twilight Of The Flesh”
2. “Apokalyptikon”
3. “In Here”
4. “Children Of The Urn”
5. “Hooks Of Hunger”
6. “Deiform”
7. “Into Ashes”

Generato deiforme, imago Dei, in altri termini ad immagine ma perfettibile somiglianza di Dio, l’essere uomo perde questa sua originaria e supposta similitudo commettendo l’abominevole, il peccato, cedendo con lo spirito al suo diabolico frutto: la mancanza di aderenza della progenie empirea al volere del suo dio, l’irrealizzabilità franca di una deiformis (in profilo, per fattezze in fondo misconosciute, come in una natura multiforme ed onnipotente dal principio negatale). Questa caduta in fallo e dalla grazia, aggiunta all’impossibilità d’innalzarsi completamente verso le imponderabili caratteristiche prime associate alla divinità (una theoeidḗs insondabile, indefinibile ed indescrivibile), porge la guancia ad un quesito che risuona sordo quale uno schiaffo: come tornarci? In che modo raggiungere di nuovo le altezze della deificationis, l’abitazione medianica di un dio che ha creato il corpo e la forma umana usando la sua come matrice e calco, benché ossimoricamente sprovvisto di un corpo immediatamente tangibile?

Il logo della band

La risposta di Daniel Rostén, e di molti altri asceti dello spirito indagatori e questionatori del narcisistico paradosso religioso di gruppo con e prima di lui, è nell’analisi immersiva di un crepuscolo della carne tra le fiamme dell’Inferno per superare il dilemma della mortalità: una contemplazione in musica, se si vuole, ma anche un parallelo e malsano processo di disincarnazione per raggiungere uno stato d’incorporeità che è metaforica libertà di andare oltre, per passare attraverso quel nembo di caustico nero brillante, l’emanazione della bruciante luce aurea della divinità-mente -più che anti-corpo, un cancello anti-ossa, muscoli ed organi vitali- verso un’apoteosi in fondo; l’assorbimento del carattere umano in quello divino per estensione, il congiungimento di forma, natura e gnosi originariamente distanti dopo l’avvenuta Rivelazione premio dell’Ecatombe. Questa trinità di torce infuocate che rilucono lugubri come fuochi fatui nell’oscurità cimiteriale ed opprimente, consumante di “Deiform” in cui nulla esiste, si colloca lì, refugium peccatorum tra l’appunto deiforme, il difforme ed il deforme, quale quarto passaggio archetipico a sua volta nell’esplorazione del significato di salvezza partita effettivamente nel 2003 e dapprima osservata dal basso degli inferi; mutata poi in prostrazione e lode, nell’invocazione e nella conseguente venuta, nella strage rituale e dunque nella deificazione del 2021 quale possibile ultima ricompensa concettuale.

Arioch

A questo punto, la carne deve capitolare: una prepotente processione lenta di penitenti in immagini che ritraggono tappe del viaggio al di là dello Stige si carica quindi di una tensione ipnotica dove la composizione gode di una qualità trance-inducing, ampliata e potenziata grazie alla recentissima esperienza del Rostén con i due sopraffini dischi marchiati Domjord (ripresa esplicitamente sul finire di “In Here”, dal sapore Death Industrial, altrimenti devota alla revisione personale del -così chiamiamolo- modus riffandi del compare Håkansson da quasi diciotto anni a questa parte). Si pensi in tal senso alla certa qualità ipnogena e magnetica che hanno gli stessi blast-beat dell’ormai aiutante fisso Broddesson nella grandiosa e quasi drammaturgica “Twilight Of The Flesh” o nel brano finale (con le parti del drum-kit addette alle frequenze basse che si danno il cambio con quelle delle quattro corde in un marasma dall’ordine confuso e convulso), di come proprio al suo interno i cori monastici convivano con le droning note che ipnotizzano sull’arrancare fobico delle chitarre informi verso altri piani di esistenza al suono d’una campana che risveglia e trasforma la natura del sé; o alle cacofonie in alternanza elettrica di frequenze interrotte nel gioco di riff e strali che disegna la tela infetta “Apokalyptikon”, dove il pastore della distruzione Arioch intona inni a tutto ciò che di sbagliato risuona giusto nel cuore di chi tutto questo sente di riuscire a comprenderlo. Lì, i figli dell’urna funeraria cantano il loro sermone di pietà ed inquietante anelito alla liberazione dalla schiavitù teologica sulle note deviate e spaventosamente aliene, disarmoniche di una chitarra che in vita laggiù o lassù, dove insomma il vento puzza di fuoco che lecca ferite e carne marcia, muta in veri arpioni di una fame spirituale schizofrenica; non necessariamente più sfaccettata di quella del più compatto ed accessibile “Hekatomb” ma decisamente meno diretta, meno chiara, più fosca e complessa. Non da ultimo tale per via di un suono necrotico dove convivono tanto lo spirito esiziale tramandato al centro Europa proprio dagli svedesi nei migliori Antaeus e nell’isteria dei Katharsis tra il 2006 ed il 2009, quanto le ultime e più fini esplorazioni degli stessi Marduk (da “Maranatha” in avanti riletti dal Mortuus/Arioch in maniera puntuale nei suoi Funeral Mist), e vengono incanalati verso vette di grandezza ad oggi totalmente irraggiunte altrove: i piatti sull’ultraviolenza parossistica di “Into Ashes” vibrano e sibilano come una legione di serpenti a sonagli vetriolati pieni da scoppiare di acredine in progressioni melodiche occulte, quasi segrete, con un vigore d’acciaio di disumanità à la “Thorns” o “Supersonic Journey”; la stessa che in “Hooks Of Hunger” divora invece con un’intensità fuori dal mondo conosciuto la velocità di “Salvation” mentre le trionfali possibilità melodiche d’assimilazione e ascesa alla divinità sorprendono travolgendo l’anima nell’altrettanto pazzesca “In Here” (in modi che, per un solo secondo, sembrano guardare a quelli più fine-novantiani di “Devilry” per tornare immediatamente sui binari dell’esclusiva e della novità non solo per come si spengono), o nella spaventosa “Children Of The Urn” in cui vi sono condensati tutto il male e le paure del mondo – dove più d’un brivido corre lungo la schiena al vociare di ugole bianche che così ripugnante si scontra con la nevrosi delle fustigazioni diaboliche in minore logoranti. Vale la pena anche di notare come nella title-track, esempio in qualche modo di un’inclinazione ormai esplicita, non si cerchi una novità ad absurdum nemmeno in quelle aperture circolari estremamente malinconiche e decisamente inedite (o nel canto di gola incastonato come un gioiello nel suo cuore strutturale), bensì nelle agitazioni turbolente sempre sperimentali per come gli intricati tasselli vengono disposti e ritrovati layer su layer dalle doti esecutivo-compositive di un vero visionario che usa e camuffa una forma singola di musica per esprimere tutto l’esprimibile. “Deiform” è infatti un disco che si potrebbe ascoltare anche solo per la sua voce, non fosse che la variegatissima musica è altrettanto eccezionale; la voce paurosa di Arioch il portatore di terrore con tutta la propria pletora di suoni quasi onomatopeici, esprimenti in maniera subliminale e tramite meri foni significati che delle parole non potrebbero mai dire, dei messaggi immediati ed intraducibili che vanno ben oltre il testo dando alla musica una carica di fuoco, d’artiglieria totalmente introvabile altrove: il coro di Satana in un’orgia crescente di questa folie à d(i)eux tra essere uomo e divinità compresenti in un’unica forma usurpatrice linguaggi e dottrine per ribaltarli, manipolarli, sterilizzarli persino, ed infestarli nel nome di un Black Metal anti-carne (perché ultraterreno in foggia) ed anti-spirito (in quanto adempiente ogni più turpe e basso compito) perché portatore primo di una spiritualità maligna e seducentemente invertita – ma pur sempre tale.

È francamente possibile nonché ampiamente condivisibile, del resto, ritenere che Daniel Rostén sia di fatto il miglior cantante, lettera iniziale capitale ed istoriata inclusa, che un genere dannato come il Black Metal abbia mai potuto vantare in oltre trent’anni di onorato servizio alla distruzione morale e fisica dell’umanità come la conosciamo: quell’aborto deiforme straziato tra chatah e teschubah per l’eternità, angosciato dal buco a forma di Dio lasciatogli come eredità in un corpo limitato, un casus maledicti in punto interrogativo che come sacro veleno è lasciato entrare e scorrere, bevuto finanche dal calice; una coppa non troppo dissimile per forma da quella che offrono i Funeral Mist insieme a musica sbalorditiva, una propria rovinosa teologia e quadrisagion demonico per mostrare che pagliuzze di verità possono risultare in un insieme che consiste nondimeno in falsità ed espedienti, un po’ come quella banderuola di metallo a forma di gallo sulla cima di un campanile medievale – simbolo involontariamente geniale e comico di una Santa Chiesa che vive e prospera e muore rinnegando il suo maestro. Ma chi sente di potere invece, in un piena coscienza senza buchi tra i suoi brandelli, farsi beffe e ribaltare quel preciso quesito posto in apertura e rispondere affermativamente ad uno nuovo, che recita e canta sibillino sul retro della mente saremmo disposti a conoscere il Diavolo, se solo l’Inferno fosse un luogo di conforto?, il suo maestro l’ha in fondo ormai già trovato, nel crepitar del vento e nel crepuscolo che diventa grigio cenere tra gli alberi all’orizzonte.

Matteo “Theo” Damiani

Precedente Novembre 2021 – Tardigrada Successivo Weekly Playlist N.50 (2021)