Fellwarden – “Wreathed In Mourncloud” (2020)

Artist: Fellwarden
Title: Wreathed In Mourncloud
Label: Eisenwald Tonschmiede
Year: 2020
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Inghilterra

Tracklist:
1. “Pathmaker”
2. “Scafell’s Blight”
3. “A Premonition”
4. “Wreathed In Mourncloud”
5. “An Elder Reckoning”
6. “Upon Stone”
7. “Pathfinder”

Immersa leggera nelle traslucenti nebbie dell’Albione più incontaminata e lontana, una brezza spira fresca e forte. Il leggero sibilo preannuncia il diradarsi improvviso delle brume mentre l’occhio non è ancora pronto al confronto col tepore eccezionale del paesaggio fino a quel momento coperto, avvolto dalla foschia azzurrina. Emerge così la vista dell’inaspettato, di quell’essenza celata in un gioco di vedo-non-vedo finalmente ritrovato che stuzzica e rinfranca lo spirito, la fame di mistero, la necessità di esplorazione e di nuovo, di tensione verso l’alto e di silenzio che connette col divino: la stessa assenza di punti fermi e di processo razionale che genera immagini ed associazioni mentali spontanee ed incontrollabili, quella che alla vista dell’incontrollabile -e del mix di esaltazione e dolore che ne fuoriesce- scatena senz’altro l’ispirazione prima in un progetto come i Fellwarden.

Il logo della band

Dalla gloria senza nome delle pianure paludose alle vette più alte e brulle, unite pentagrammaticamente nei leitmotiv di melodie soffuse che vengono riprese, riarrangiate e riproposte in nuova veste come collante brano dopo brano (non solo nell’eclatante reprise acustico di “Pathfinder”, che fa richiudere l’esperienza su sé stessa ricollegandosi con grazia a “Pathmaker”), la silente ammirazione, quasi dolce e materna, muta nel processo di sopravvivenza al rumore e sottrazione al caos, è pertanto la chiave di ricerca che il progetto di Frank Allain (The Watcher nei Fen) sperimenta con costanza per risolvere l’enigma della vita.
Silentium, dimora della divinità, osservazione di ampiezze geografiche che sono metafora di un viaggio emotivo dell’anima, guardiana, la passione per ciò che mai è stato cantato ancor più che per ciò che è dovutamente celebrato – gli ingredienti alla base del successo splendente di un primo lavoro come “Oathbearer” sono fortunatamente immutati in natura costruttiva, ma sviluppati, magnificati e sotto ogni aspetto ulteriormente ampliati in squisitezza nel successore “Wreathed In Mourncloud”: in tre anni, l’analisi e l’attenzione del compositore nuovamente accompagnato dall’ormai fedelissimo sodale Havenless alla batteria (l’intesa maturata lungo oltre un lustro di collaborazioni facilmente intuibile anche solo dall’estrema alchimia di arrangiamento tra i due) si sono infatti affilate in favore di una composizione dal taglio ancor più cinematografico e ampio, rilucente in minuzie di dettagli ed andamenti vagamente folkloristici, costruzioni fluidissime e movimenti di lunghezza mozzafiato, portando la proverbiale -e già elevata- asticella qualitativa del debutto ad innalzarsi ulteriormente.

The Watcher

“Wreathed In Mourncloud” è difatti uno di quei rari casi discografici in cui la maggiore cura e perizia in sede di realizzazione tecnica delle idee abbozzate in composizione, momento solitamente tacciato di freddezza per il calcolo che in tutta evidenza e necessità richiede, non va a scapito dell’emozione profusavi – al contrario, questa diviene in realtà effettivo catalizzatore di un’ancor maggiore resa romantica nei confronti dell’emotività a cui ogni nota dei sette brani è abbandonata e di cui è immancabilmente intrisa nel profondo, l’abbraccio con un’interiorità di cui è vestito ogni secondo nell’ora di durata che questi compongono, raggruppati e permeati della più liquida ed eterea scorrevolezza. Tutto è ricamato e fatto crescere imponente su sé stesso, o per meglio dire sulla suggestione prima di quella che è una più esile linea melodica; si prenda anche solo da esempio l’enorme espressività con cui sono stati caricati gli slanci in voce pulita, vezzi d’arrangiamento sicuramente successivi alla mera composizione, che risuona così piacevolmente distante ma forte ed incisiva nel mix e che tanto peso ha nell’economia del lavoro.
Non vi è, per conseguenza, sostanziale differenza nello stile che i Fellwarden scelgono di scolpire tra un momento e l’altro che è il continuo e contiguo scivolare dell’album: la sensazione nebbiosa, avvolgente dell’immaginifico Black Metal atmosferico e ricco di fine suggestione sfuma come nulla fosse sia dai che nei momenti acustici (altrettanto carichi di riverbero, allungati in sustain dall’ampiezza vitale), facendo respirare odori tenui (“An Elder Reckoning”), regalando episodi di penombra rischiarata ed eterno struggimento (il favoloso culmine nel titano compositivo che è l’effettiva conclusiva “Upon Stone”, persino un mix di colori nuovi per la band nell’evoluzione armonica che tende all’oscuro e al magico) in passaggi di dolce rapimento che fanno il paio con gli altrettanto impalpabili momenti più sostenuti e dinamicamente concreti.
I sintetizzatori e gli archi hanno un ruolo ancor più prominente nella cifra atmosferica dell’album (non solo per un ottimo brano d’interludio, “A Premonition”, totalmente realizzatovi e trampolino introduttivo per le melodie della sontuosa title-track), con una delicatezza nel lussureggiare sinfonico, rigoglioso, verde smeraldo, che urla perdita con il nodo in gola e una fragilità che diviene forza di preservazione ambientale ed umana: le stratificazioni orchestrali si legano con entusiasmo agli arpeggi distorti come alle scudisciate di galvanici riff dal carattere impetuoso quando i bpm si fanno più sostenuti (fungano da esempio l’attacco di “Scaffel’s Blight” quanto il finale di “Pathmaker”, in cui da manuale le stratificazioni atmosferiche fanno scivolare in blast-beat fluidi, improvvisi ed avvincenti). L’eleganza con cui l’esperimento di convivenza ha luogo non viene meno neanche travolto la varietà del batterismo che, da genere, viene solitamente preferito decisamente più statico: al contrario riverberato, lontano, rimbombante sulle frequenze basse e fumoso in quelle alte, mai ossessivo e sempre gustosissimo pur valorizzando la composizione che si snoda in modo cinematografico, il drumming di Havenless accompagna con grazia imprescindibile l’ascoltatore nei capitoli che The Watcher intesse col resto della strumentazione e le modulazioni sovraincise della sua ugola, harsh vocals tra il sussurrato spettrale ed il grattato pungente che hanno la sensibilità di antichi trovatori britannici (splendido anche il ricorso alle sezioni corali, dal mood mesto innervato di pigmenti vittoriosi e pertanto estremamente vitale).
Gli sviluppi interni sono però, con ogni probabilità, il vero motivo di splendore ultimo per cui l’intero lavoro può rifulgere di effettiva luce propria: ogni brano è un viaggio sentimentale privo di smancerie a sé, in cui l’ascoltatore sedotto non attende altro che lasciarsi andare per capire dove questo andrà a finire, e al contempo un ricamato tassello di una figura più grande, magnetica nel complesso e nel dettaglio: da brividi l’evoluzione progressiva che intercorre dall’apertura del lungo brano che dà titolo all’album, in cui ogni passaggio offre trampolino di lancio per ulteriori dettagli a dispiegarsi a strapiombo ma legandosi e riprendendo melodie con cui l’ascoltatore ha già familiarizzato, e che diventano pertanto sempre più imponenti, trascinanti e solide in una cascata di trasparenze, emozioni e visioni trattate con maestosa coerenza eppure sempre nuove; lo stesso stratagemma che fa del resto di “Upon Stone”, innegabile summa attuale del Fellwarden-pensiero, un pezzo da novanta traboccante di tremenda ed accorata ispirazione, condensati in tredici minuti che vanno a spodestare la già grandiosa “Sorrowborn” (che chiudeva il debutto) dal trono di migliore composizione pubblicata dal monicker.

“Wreathed In Mourncloud” è dunque un disco in cui ogni singolo e più minuscolo elemento è strettamente legato a tutto ciò che lo circonda, un lavoro dotato di un’anima unica, inscindibile, e di una visione d’insieme ancora più salda e di purissima nitidezza; solo così i Fellwarden potevano riuscire nell’alquanto arduo risultato di trovare la quadra tra un tono più dimesso e al contempo ancor più enorme, vasto e splendente rispetto al debutto, pur mantenendo completamente scevra di opulenza l’impronta di un sound già proprio, caratteristico ed immediatamente distinguibile – quello in cui decine e decine di minuti passano come un soffio sfuggente nelle lande cumbriane, lasciando sempre aroma, fragranza, motivo per (e voglia di) essere riaffrontati, restituendo con sincera riconoscenza nuove sfumature ad ogni nuovo passaggio nei suoi solchi.
Con il loro secondo lavoro, i Fellwarden passano quindi dall’essere splendente promessa ad una delle più rilevanti realtà attuali in ambito Atmospheric Black Metal grazie alla realizzazione di uno dei dischi più brillanti, caratteristici, freschi e personali pubblicati nel genere negli ultimi anni – un’esperienza penetrante nell’estetica e poetica dell’assenza, attraverso l’oscurità che conduce verso la luce tra dirupi sublimi, vette panoramiche, silenzio assordante e sentieri inesplorati di valore dimenticato, onore perduto e rimembranze inconsce nella penombra dell’anima. In cui impalpabilità non rima mai con inconsistenza.

Matteo “Theo” Damiani

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