Enslaved – “Heimdal” (2023)

Artist: Enslaved
Title: Heimdal
Label: Nuclear Blast Records
Year: 2023
Genre: Progressive Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Behind The Mirror”
2. “Congelia”
3. “Forest Dweller”
4. “Kingdom”
5. “The Eternal Sea”
6. “Caravans To The Outer Worlds”
7. “Heimdal”

Heimdallr: la vigilanza, la guardia, vicinanza e distanza in uno ma anche l’essenza di un’eterna attesa che diventa il momento, in sé e per sé, più saliente nella cristallizzazione di un’intera cosmogonia la quale tira tutte le sue fila nell’opera indefessa di quelle tre figure incappucciate che tutto hanno già stabilito – ma che non hanno (e non per caso) indicato, in un moto e monito d’infinita ed eloquente saggezza simbolica, come tutto finirà; o quantomeno, il preciso modo in cui ad una ormai già persino storiografizzata conclusione si giungerà. La silhouette indistinta su colli avvolti dalla nebbia e specchiati nelle acque, eroe mai celebrato, che anche con una sola azione dal momentum millesimale diviene un apice nella storia ora divina o piuttosto mitologica di una completa e tanto strutturata civilizzazione cognitiva comune, nel soffio all’interno di quel corno d’oro che risuona sull’aria cantata nella nenia di nove madri, le nove onde del mare e figlie di Ægir che portano a conclusione un’intera successione vitale di accadimenti in quel microcosmo marino che fa da membrana tra firmamento e suolo silente sotto la schiuma degli oceani; il corno d’oro il cui suono così cristallino e profondo mette fine a tutto e che al contempo segna l’alba di un nuovo inizio e dell’eterno ricorso, della rinascita di ogni cosa a cui nessuna cosa può sottrarsi. Un ciclo che si apre e chiude nel medesimo istante e per la medesima ragione; oppure un ciclo -qualora si preferisca- che si apre nella chiusura stessa di un altro: una domanda, insomma, da ritrovarsi in una risposta.

Il logo della band

Perché “Heimdal”, per nulla dissimilmente rispetto al divino personaggio mitologico da cui prende con acuta intelligenza e sinesteticamente il nome, è un immenso quesito che parte dal celebrato “Utgard” ma si espande sistematico verso l’orizzonte coperto eppure mai completamente nero, nell’inarrestabile movimento della carovana dell’oltremondo e dei mondi di fuori, quella del sempre successivo universo di passaggio sconociuto e dell’inesplorato che muta, spostandosi in verticale come in orizzontale, dall’essere terra liminale -colonne d’Ercole fattesi musica- alla vera e propria terra necessariamente da calpestare per oltrepassare un confine rigido. Così gli Enslaved ripartono non solo dal precedente disco in studio, bensì dalle intuizioni gettate nell’appendice che è stato fino a questo momento l’interlocutorio EP “Caravans To The Outer Worlds” e da quella traccia omonima che non per mero caso proprio nell’album numero sedici figura come pezzo forte ad extremum tra pezzi non sorprendentemente forti a loro volta, dando senso con l’autorità della rivelazione a tre uscite in un colpo solo: l’istinto padre di tutti gli uomini, non diversamente dall’enigmatica divinità, di essere cioè guardiano di tradizioni ed esploratore del suo mondo nella ricerca costante d’altri per sete di conoscenza; coerentemente ponte tra luoghi e non-luoghi perché strada di passaggio uno e trino tra passato, presente e futuro in una sola cosa esistente sempre -come tra Ásgarðr e Miðgarðr- e devota alla causa spaziale del nuovo per poter comprendere ciò che statuario lo precede.

La band

E dunque cielo e terra si confondono nella compenetrazione osmotica di senso, ingegno, istinto e cuore che diventano una cosa soltanto: laddove il secondo episodio maggiore nella saga del gruppo di Ivar Bjørnson e Grutle Kjellson più Arve Isdal ad uscire con l’attuale formazione, completata da Iver Sandøy alla batteria e Håkon Vinje alle tastiere (quest’ultimo al battesimo di fuoco e ghiaccio con il gruppo già nel 2017, dentro i solchi dell’ormai terzultimo uscito “E”), rispecchia con le sue mille voci e storie una la coralità che contraddistingue solo le migliori opere. Ci si scordi dunque le armonizzazioni eteree à la Slowdive, ultima novità nel bagaglio evolutivo Enslaved che questa molteplicità di voci la faceva confluire in un movimento di coalescenza centripeta da “Hiindsiight” a “Sequence” passando per “Fires In The Dark”: tutte le potenzialità (e nondimeno diversità) dei timbri e degli utilizzi delle corde vocali di Kjetil, Håkon e Iver (citati in ordine di cospicuità esecutiva) sono ora disposte lungo lo scorrere del disco in continui botta e risposta i quali regalano ai brani una natura quasi discorsiva e ponderante quando non dialogica o diegetica, e teatrale nel senso più strutturalmente classico del termine, rendendo episodi come “Heimdal”, “The Eternal Sea” e “Forest Dweller”, benché coerenti, esteticamente anche molto diversi tra loro.
Come sempre in casa Enslaved, uno stratagemma di strappo ne chiama però uno di congiunzione e viceversa ancora: dove quindi le influenze elettroniche vanno all-in nella “Urjotun” di “Utgard”, serpeggiano qui invece lungo lo scorrere del disco in maniera molto più eterogenea (si guardi fin da subito ai cristallini riverberi nelle velocizzazioni armoniche dell’apparentemente semplice e invece spettacolare “Behind The Mirror”), facendolo forse sembrare addirittura meno sperimentale quando in realtà potrebbe dirsi vero, una volta assorbito con la dovuta attenzione, anche l’esatto contrario. I cinque del vecchio, ville ville Vestland sono d’altro canto veri maestri nel disturbare o al minimo punzecchiare e distrarre la percezione dell’ascoltatore portandolo in luoghi anche molto poco sottilmente diversi di ascolto in ascolto, permettendo ai dettagli disposti così come sono di dare luce diversa alle composizioni ad ogni giro di giostra: ad ogni passaggio ed assimilazione rispetto ad un’altra. Non sarebbe quindi corretto parlare, giunti a questo punto, di aggiustamenti in stile che non sono più assolutamente necessari al gruppo, in qualunque sua forma, da almeno una decade; il gioco di sperimentazione condotto di album in album tende non a ricalibrarsi per raggiungere nuove conferme, per limare i passaggi precedenti che potevano essere più azzardati o mediamente scomodi. Piuttosto (e si badi che la differenza rispetto alla stragrande maggioranza dei comunque più coraggiosi colleghi del genere, in ciò, è forse il punto di maggiore interesse a favore della band), la spinta verso nuove direzioni da fagocitare come un onnivoro musicale mai sazio di diversità ma non per nutrimento interno, bensì per modellare e direzionare la mente di chi ascolta in nuovi inesplorati luoghi che senza musica simile restano completamente banditi o inaccessibili.
N’è prova il fatto che “Flight Of Thought And Memory” (per non tornare fino ad “Axis Of The Worlds”), nel suo sguardo panoramico perché affidato a quattro profondissimi occhi neri nel cielo del nord scrutanti l’ovunque, benché ripensata, fornisca l’esoscheletro artistico alle ulteriori esplorazioni assiali e Technical-Thrash di “Kingdom” e per certi versi della completissima e più ruvida “Forest Dweller”, dove però queste ultime -similmente a tutti i nuovi capitoli del platter– ricorrono più volentieri alle casistiche progressive dei Rush, all’impalpabilità di Mogwai, Sigur Rós e Radiohead piuttosto che al Black Metal tout-court (si badi alla davvero minore presenza di blast-beat, per dirne una, o alla maggiore pienezza tonale dei riff senza che “Heimdal” perda di grinta o aggressività rispetto ai suoi fratelli immediatamente precedutigli, in questo più simile forse a “E”) o persino alle frange più alternative e pesanti di Faith No More e Soundgarden quando non all’ormai assodato e pur sempre eclettico maestro che è il chitarrismo dei Led Zeppelin di “Houses Of The Holy” accostato a quello di un Robert Fripp piegato alle suggestioni di un Thomas Forsberg ed immatricolato da ere immemori nei gusti sia compositivi che di arrangiamento di Bjørnson, il quale fa oggi un ennesimo piccolo miracolo nell’atmosfera di una “The Eternal Sea” (sublimi cori approcciati con un gusto tutto nuovo nel contesto più elettronico che mai sottostante), o nella rarefazione glaciale sotto all’ossimorico lento incedere dei blast di “Congelia”, dove con l’assoluto mistero di una transizione spettacolare i Bathory approdano sulle sponde sabbiose del medio oriente con melodie significativamente calde.
Del resto dona indizi di decifrazione in tal senso anche la solita granitica visione complessiva che detta non tanto la creazione di appariscenti concept-album, quanto di un ennesimo disco graziato dalla finissima direzione artistica che abbraccia ogni suo aspetto, anche lirico, provvedendo ad accompagnare la musica con testi dall’usuale valore criptico ed ermetico, elegantemente pieni di simboli che rimandano alle più disparate interpretazioni personali in cui i mondi di sopra e di sotto si fondono in una cosa sola, unica ed inscindibile benché dotata delle miracolose differenze di entrambi. Che si tratti infatti delle paludi angoscianti in cui, come svegliandoci da un sogno ma non del tutto, ci ritroviamo immersi fino alle labbra nella parte iniziale della conclusiva title-track, o nella ferocia quasi astrale di “Caravans To The Outer Worlds”, ancora una volta non c’è limite alla creatività degli Enslaved: non esiste confine alle potenzialità espressive del duo compositivo BjørnsonKjellson, chiunque finisca per includere la restante parte dei sempre capacissimi musicisti che li accompagnano – e che sia da decadi o da pochi anni, a questo punto è evidente come la differenza sia in fondo esigua. Perché “Heimdal”, oltre a tutto ciò che è stato detto, è un disco di ovvie conferme strutturali come d’innovazioni stilistiche continue e coraggio nell’affrontare ogni direzione al pari; ma anche d’identità, che si traduce nel retaggio culturale con sempre più intelligenza abbracciato dal gruppo nella riscoperta continua di sé, così come nella musica che compone – sempre notevolmente nuova, ma sempre dritta al punto anche quando con difficoltà sembra girare su sé stessa in cerca di un porto esclusivamente distante a cui attraccare. Sempre grandiosa nella sua profonda sperimentalità e sempre grandiosa nel suo storytelling, il quale qui meno che mai va raccontato bensì ascoltato e vissuto.
Che si possa dunque essere più avvezzi allo stile di un “Riitiir”, di “In Times” o piuttosto dell’ennesimo disvelato nuovo corso e del nuovo colpo da maestri appena donatoci da menti artisticamente superiori, è impossibile non lasciarsi muovere dalla costante ricerca -da non dare per scontata o assodata soltanto per merito giustamente da tempo riconosciuto- che ha portato i nostri al disco completo numero sedici con la freschezza del primo o del secondo, e nondimeno novelli Tangerine Dream versati all’estremo con la maturità del quarantesimo.

In “Heimdal”, emblema della fedeltà e della devozione alla causa non di un guerriero ma dell’esploratore più esperto per approfondimento e analisi eppure novello per sguardo, della disciplina nella regola di rompere regole, gli Enslaved fanno pertanto un ulteriore passo verso quell’oltre studiato e personalmente teorizzato in “Utgard”, in una direzione che per antonomasia e conseguenza è per forza di cose sorprendente, si può starne certi, in primo e mentale luogo per i suoi autori: un disco che si sminuirebbe colpevolmente e a cui si farebbe torto a definire semplicemente duale perché capace di andare oltre le nebbie del pensiero, oltre le nubi della logica in un viaggio ricorrente e ormai pluritrentennale che tuttavia non sembra voler conoscere mai i concetti di vecchiaia, di stanchezza, o anche solo di una fisiologica noia abitudinaria in quanto perennemente stimolata dalla novità e dall’esplorazione genuina di nove e più mondi che restano insieme una casa quanto una terra vergine da conquistare. Nell’indagare un quesito e nella formulazione di un ulteriore punto di domanda e convergenza, ma nella convinzione che la fine del mondo non possa essere una soltanto e che non possa avvenire per mera coincidenza preventiva o banalmente antinomica, nonché tanto musicalmente curioso in direzione come disposizione qual è, “Heimdal” potrà anche non essere il nuovo punto più alto mai raggiunto dal gruppo, ma è di fatto la perfetta traduzione fattasi cruciale viaggio esplorativo di quel personaggio, di quell’interlocutorio e tanto irrisolvibile dio e del suo corno che preannuncia con culminante risoluzione e capitale decisione un acme – un apogeo che è tanto conclusione quanto inizio, nella eterna duplicità di sguardo su ogni cosa; che prelude con sé ad altro come sogno di ciò che verrà, avviso che è zenitale a ciò che è stato predetto, ma che lascia sempre e splendidamente il dubbio su come ciò potrà infine realmente avvenire.

Let me become the other, who is also myself…”

Matteo “Theo” Damiani

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