Enslaved – “Hordanes Land” (1993)

Artist: Enslaved
Title: Hordanes Land
Label: Candlelight Records
Year: 1993
Genre: Symphonic/Viking Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Slaget I Skogen Bortenfor (Epilog / Slaget)”
2. “Allfǫðr Oðinn”
3. “Balfǫr (Andi Fara / Prologr)”

Verrebbe quasi da chiedersi se qualcuno tra i quattro milioni di abitanti di un paese ai confini estremi del Vecchio Continente, ancora abbastanza periferico a livello culturale nonostante il benessere economico dato dalla provvidenziale scoperta del petrolio nei suoi mari, avesse fiutato qualcosa nell’aria la mattina di quel primo giorno del maggio 1993, quando un’etichetta discografica inglese inaugurata nello stesso anno e facente di nome Candlelight Records scelse di affacciarsi sul mercato scommettendo su di una scena anch’essa ai suoi primissimi passi, dalla quale erano emersi soltanto tre full-length sufficienti tuttavia a mettere in allerta ogni attento osservatore dei movimenti sotterranei aventi come mezzo le sette note intinte nella pece. Tra questi, l’allora bassista dei radicali Extreme Noise Terror Lee Barrett aveva tirato i dadi puntando su due gruppi ancora oscurati dall’ingombrante triumvirato nazionale, ma i cui nastri fatti circolare lo avevano convinto a dare a quell’accolita d’imberbi norvegesi la primissima occasione per uscire dagli scantinati.
Tra le fila di uno di questi collettivi entrambi destinati alla gloria si nascondono assassini e piromani di diciotto-diciannove anni prossimi alla cattura mentre nell’altro, onorato dal l’ormai leggendario numero 001 sul dorso del loro mini d’esordio, figurano insieme ad un già portentoso batterista pure un ventenne ed un sedicenne accomunati dall’obbiettivo di fortificare ulteriormente il legame tra la madrepatria ed un filone dalle fortissime potenzialità identitarie, sfornando il primo lavoro discografico dalle liriche interamente autoctone e ricoprendo così la Terra dei Fiordi di un nuovo strato di nebbie venute non tanto dall’Inferno di cui canta l’altro quartetto, ma dalla coscienza atavica di un popolo passato dall’essere il primitivo terrore dell’Europa intera a rappresentarne ora la più avanzata delle società, con tutti gli scheletri sigillati nell’armadio che un tale primato implica.

Il logo della band

Quella che nel 2023 è del resto l’usanza più scontata all’interno delle frange autoctone del panorama metallico, ossia il ricorrere al proprio idioma nativo per monicker, testi, titoli di singoli brani ed intere uscite, merch e magari persino dichiarazioni a mezzo stampa e social media, trent’anni addietro risulta invece un escamotage utilizzato per lo più a fini elitari se non direttamente para-storici dagli ancora pochi membri di spicco del famigerato circolo interno, con giusto “Inn I De Dype Skogers Favn” dei Darkthrone e “Stemmen Fra Tårnet” di Burzum a confondere con fascino esotico gli ascoltatori d’oltreconfine; una scelta insomma votata ad accentuare l’appartenenza ad un culto di eletti postosi in aperta ostilità alle logiche omologanti del music business, per quanto sempre in salsa estrema.
Ebbene, l’idea dei giovani Grutle Kjellson ed Ivar Bjørnson è quella d’identificare l’indesiderato appianamento creativo visto in Svezia col processo storico di eradicazione, non soltanto in Norvegia ma in tutta la Scandinavia, operato dal cristianesimo nei confronti delle forme tradizionali di fede e spiritualità: anche qui, ciò che oggi appare come una prassi tanto da sfiorare la forzatura nonché la fallacia logica, con le stesse band tutte prese a condannare le crudeltà inflitte all’ombra della croce mentre intanto si esaltano di fronte alle barbarie di Lindisfarne ed altri episodi simili, costituisce di contro nel lontano 1993 una piccola rivoluzione programmatica la quale adatta il ben più defilato culto delle antiche divinità nordiche sdoganato dal solito Quorthon agli intenti belligeranti del Black Metal teorizzato dal mentore Euronymous, con cui il duo fondatore degli Enslaved avrà peraltro una serie di fondative discussioni su quanto tale svolta ideologica potesse essere accettata dall’ortodossia imperante tra le quattro mura dell’Helvete.

La band

Al netto di tutte queste congetture, “Hordanes Land” è inequivocabilmente una release di stampo Black Metal, sempre che con questi due semplici vocaboli non si sia arrivati tre decadi più tardi ad indicare qualcosa di diverso dalla sensazione di freddo, di spaesamento e costante minaccia la quale va formandosi durante i tredici minuti della già eufemisticamente clamorosa “Slaget I Skogen Bortenfor”. Il fluido drumming di Trym Torson, poi finito nei medesimi Emperor prima accennati e di lì ad un mesetto dirimpettai su di una pubblicazione condivisa dei due iconici platter, srotola un pezzo che è magistrale inaugurazione tanto dell’EP in sé quanto dell’intera carriera degli Enslaved, la cui visione cupa dell’esperienza umana nell’antica Norvegia si instaura inamovibile a partire dalla nebulosa introduzione ed esplode di luce nera nei quattro severi colpi di keyboards ciclicamente inflitti da Bjørnson alle sezioni in blast-beat: lontano dalla camaleontica e soffusa inquietudine dei sintetizzatori finora solo sfiorati da Varg Vikernes, il loro impatto tagliente ed il loro suono squillante riconducibili anzichenò ad un “Passage To Arcturo” hanno la stessa forza degli enfatici gesti di un direttore d’orchestra impegnato ad evidenziare gli accenti ai suoi strumentisti, ed è veramente un’ingiustizia che così in pochi tra i maestri del sinfonico norreno abbiano mai indicato in queste singolari battute un’abbastanza evidente prodromo agli arcinoti classici usciti a metà anni Novanta. In fin dei conti però “Hordanes Land”, nel suo essere un esempio di sola natura ancora minore delle capacità di un trio soltanto emergente, gode di quell’intuitività e prorompente libertà di movimento riservata ai debuttanti che ne rende pressoché impossibile la catalogazione, e così chi elogia gli sprazzi addirittura folkloristici (un annetto prima di certi Satyricon) celati nell’opener finisce di sorpresa faccia a faccia con il rifferama ai limiti del Death/Thrash su cui si agita una “Allfǫðr Oðinn”, rimembranza dei tempi delle prove in saletta sotto il nome di Phobia già apparso come autentico inno nel demo “Yggdrasill”; le continue riproposizione dal vivo di questo portentoso brano, dove degli ad oggi quasi cinquantenni dall’aplomb bonaccione ritornano d’improvviso a pestare fortissimo nonostante gli incommensurabili mutamenti attraversati nel tempo, sono infatti manifesto della potenza dei giovani Enslaved meglio di ogni possibile volo pindarico vergato tre decenni più tardi, specie se a seguito della carneficina è “Balfǫr” a traghettarci di nuovo nelle foreste scandinave all’inseguimento di un meraviglioso organo che ricorda col suo suono vintage l’eredità degli avi, siano essi gli spietati guerrieri discesi da settentrione o gli storici complessi Prog Rock i quali incideranno a dismisura sui futuri passi di questi autentici giganti e visionari delle sonorità pagane.

Paradigmi dunque di un futuro che sa di antico, i trenta minuti consegnati all’intraprendente Candlelight dal terzetto del Rogaland prossimo a staccarsi da essa e ribadire la propria carica identitaria accasandosi presso una già in contatto Deathlike Silence sono un cruciale flash-forward nei prossimi sette anni di Enslaved; vale a dire quelli che separano la band dalla definitiva rottura dell’equilibrio operata da “Monumension” e dall’evoluzione invece ben più graduale da semplice creatura votata al Metal estremo ad entità per cui il ricorso a categorie di pensiero preesistenti risulta irrimediabilmente castrante. Il riffing semplice e circolare insieme agli ipnotici ed arcani tocchi atmosferici di vari capitoli di “Vikingligr Veldi” sbuca sovente già fuori nella prima traccia curiosamente definita epilogo, mentre la conclusione di rimando identificata quale prologo è il primo sguardo, seppur fugace alquanto ma in ciò semanticamente azzeccatissimo, all’indirizzo delle partiture meno ferali e dall’elevato gusto tastieristico poi portate a compimento su Eld”, senza tralasciare ovviamente il sanguinario agguato mediano bissato invece più volte nella sottovalutata coppia d’assi “Blodhemn”“Mardraum”.
La maturità creativa dopotutto non può concretizzarsi arraffando elementi esterni a sé graditi e incrociandoli augurandosi un risultato almeno passabile; serve anzitutto inquadrare il proprio artista interiore, concedergli via via spazio di pari passo ai miglioramenti esecutivi e compositivi fino ad inglobare ogni influenza presente lì dentro già dal primo giorno. Questo hanno fatto gli Enslaved a partire dal fresco trentenne “Hordanes Land”, manufatto dal quale si decifrano tutte le mosse da loro compiute prima di una metamorfosi che avrebbe trascinato qualunque altro ensemble nella grigia irrilevanza, e che invece a Bjørnson, Kjellson e chiunque altro abbia avuto l’onore e l’onere di condividere con loro un viaggio durato oltre sei lustri ed ancora in corso d’opera ha invece garantito l’immortalità riservata ai soli più grandi grandi dell’oscurità in musica.

Michele “Ordog” Finelli

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