Behemoth – “Grom” (1996)

Artist: Behemoth
Title: Grom
Label: Solistitium Records
Year: 1996
Genre: Pagan Black Metal
Country: Polonia

Tracklist:
1. “Intro”
2. “The Dark Forest (Cast Me Your Spell)”
3. “Spellcraft And Heathendom”
4. “Dragon’s Lair (Cosmic Flames And Four Barbaric Seasons)”
5. “Lasy Pomorza”
6. “Rising Proudly Towards The Sky”
7. “Thou Shalt Forever Win”
8. “Grom”

Vera perla di disco, i tratti travolgenti strenuamente conservati a cinque lustri dalla sua pubblicazione per gli invero molti quanto più nostalgici appassionati ed affezionati al primo, diversissimo periodo creativo di quella che sarebbe poi divenuta una delle più celebri e contestate band del settore musicale estremo; prima insomma della ben più tarda furbizia mediatica e dell’investimento in sforzi di marketing innegabilmente fruttuosi e con costanza profusi nella costruzione di un’impresa d’altrettanto incontestabile successo commerciale attorno al proprio nome, “Grom” (con il quanto mai appropriato titolo dedicato alla parola tuono, in lingua polacca) esce ad un solo anno di distanza temporale dal già fulminante debutto “Sventevith (Storming Near The Baltic)” ed è testimonianza autentica di una parimenti fervida, giovanile ispirazione dai contorni emblematicamente invasati e maturante in corso d’opera, tra prove e controprove di un gruppo dall’entusiasmo febbrile riversato a cascata nello strettissimo giro di una manciata di anni – a partire dalla definizione di un sound coerente con quello locale nella grande prova incisa nell’ultimo demo “…From The Pagan Vastlands” del 1994 e proseguendo per l’ormai classico EP intitolato “And The Forests Dream Eternally” che fa da ponte proprio tra il primo full-length ed il secondo album in studio dell’ancor giovanissima band di Nergal, prossima a cambiare irrimediabilmente i suoi connotati nello spartiacque “Bewitching The Pomerania”: il tributo -visivo, stilistico e filosofico- all’output evolutivo dei Satyricon di “Nemesis Divina” scoccato, la strada (diametralmente diversa sia per complessità che sensibilità da lì in avanti) imboccata senza più un ritorno.

Il logo della band

Decisamente già meno atmosferico ma al contempo anche meno compatto per omogeneità del suo comunque acerbo predecessore (i germi di un cambiamento stilistico d’imprevedibilità ritmica, seppur ancorata alle gustose semplicità first-wave ed inconfondibilmente scandinave, sono palpabili non soltanto in “Spellcraft And Heathendom” e “Dragon’s Lair”), la seconda opera maggiore dei Behemoth del 1996 si avvicina dal canto suo invece con scarto, sia per l’efferatezza chitarristica che i per ritmi e le intuizioni epiche innestatevi, al coevo sforzo degli Enslaved di “Frost” ed “Eld”, nonché a quel manipolo di artisti che, in Norvegia nel particolare, stava inserendo le nuance più pagane, folkloristiche, norrene o più semplicemente guerriere all’interno del Black Metal della prima metà degli anni ’90; non solo tale nell’uso delle chitarre acustiche magicamente sovrapposte alle distorsioni, nelle fiabesche clean vocals femminili intrecciate a quelle baritonali maschili che tanto sanno di Storm e “Nordavind”, o nella prova al microfono centrale del Darski nella spiritata “Rising Proudly Towards The Sky” che è quasi omaggio mefistofelico a quell’Attila Csihar in “De Mysteriis Dom. Sathanas” di due anni precedente, ma la tanto bistrattata produzione originale di “Grom” dalle aperture pytteniane è in realtà ampia conferma, mai ve ne fosse necessità, di uno sguardo diretto verso il profondo Nord benché arricchito di peculiare personalità slava (non unicamente, benché in questi due casi ancor più esplicita, in lingua e metriche delle più che emblematiche title-track conclusiva e “Lasy Pomorza”).

La band

In linea infatti con i precursori di quella che sarà a breve facilmente identificata come la deriva o scuola Pagan Black Metal polacca tanto dei Sacrilegium del caposaldo “Wicher” quanto degli Arkona di “Imperium”, e più in generale di tutto quel crogiolo di autori che a metà della decade fu il roster di Pagan Records (la cui prima uscita in assoluto fu proprio, e non certo per mera coincidenza, “Sventevith”), i Behemoth usano le tastiere del ben più che ospite Piotr Weltrowski (al lavoro in studio con la band anche, integralmente per la seconda ed ultima volta, nel successivo album per la svolta di “Pandemonic Incantations” e poi come collaboratore esterno su un solo brano di “Zos Kia Cultus”) quale uno stregato sostegno attivo, sebbene sicuramente meno importante per volume, spazio nel mix o presenza dei casi connazionali, alle tonanti e battagliere composizioni a partire dall’inquietante intro o -in un esempio orgoglioso su tutti- nell’ampiamente emperoriana ed intricata “The Dark Forest”. Non un caso del resto è che il gruppo proprio qui diventi partner per un’indimenticabile tripletta di uscite di quella mitteleuropea casa cruciale che rispose al nome mai abbastanza celebrato di Solstitium Records, la quale -centrale non solo geograficamente nella seconda metà dei ’90 tutta- fu il formativo trampolino di realtà tanto diverse quanto accomunate in una sensibilità squisitamente arcana: partendo dalla Norvegia degli Helheim negli imprescindibili “Jormundgand” ed “Av Norrøn Ætt” tra il 1995 ed il 1997, degli Isvind dell’omonimo EP di lancio e sconfinando nel mentre in quella tutta finlandese degli imparentati Darkwoods My Betrothed e Nattvindens Gråt, proseguendo con quella dei debuttanti Horna e Perished per poi, dopo il 2000, avventurarsi con gli ultimi passi fin nella Grecia di Nocterinty e Kawir.

Prima insomma di incontrare in musica l’abisso sconvolgente dei Morbid Angel e della trasfigurazione, prima dell’avanguardia stilistica del probabile vertice compositivo “Satanica” (Avantgarde Music, 1999) e di cambiare successivamente ed irrimediabilmente rotta a partire dal nuovo millennio verso il Death Metal più brutale, tecnico ed occulto (salvo poi ritornare ad abbracciare un certo tipo di sensibilità apparente in “The Satanist” e soprattutto in “I Loved You At Your Darkest”, seppur con risultati qualitativamente a dir poco altalenanti), i Behemoth possedevano sicuramente un songwriting ricco d’inceppi e lontano dall’essere uno dei più fluidi del periodo o perfino del loro ancor primitivo stile; ciononostante uno che, proprio con i suoi precisi e più semplicistici connotati squisitamente Pagan, è tuttavia non solo il profondo, incastonato ed irriducibile cuore di lavori -come nell’esempio principe di “Grom” nell’anno 1996- che restano a distanza di cinque lustri un respiro profondamente intriso del suo tempo e del suo spazio, ma anche influente ed ispirante moltissime band negli anni a venire sempre più attentamente dedite alla realizzazione di un Black Metal con spunti stilistici, suono, sensazioni, visione ed atmosfere similari a tutto tondo – non da ultimo per quella che resta la splendida e più che evocativa copertina ad opera di un David Thiérrée ancora lontano di oltre due decenni dalle luci della ribalta dell’underground, attirate su di sé solamente negli ultimissimi anni che seguono l’attenzione trasversalmente riscossa a partire dal 2013 con l’ironicamente intitolato “Receive” (Gift Of Gods di Nocturno Culto) e poi nel 2014 con “Fimbulwinter” (Satanic Warmaster).

Matteo “Theo” Damiani

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