Dark Funeral – “The Secrets Of The Black Arts” (1996)

Artist: Dark Funeral
Title: The Secrets Of The Black Arts
Label: No Fashion Records
Year: 1996
Genre: Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “The Dark Age Has Arrived (Intro)”
2. “The Secrets Of The Black Arts”
3. “My Dark Desires”
4. “The Dawn No More Rises”
5. “When Angels Forever Die”
6. “The Fire Eternal”
7. “Satan’s Mayhem”
8. “Shadows Over Transylvania”
9. “Bloodfrozen”
10. “Satanic Blood”
11. “Dark Are The Paths To Eternity (A Summoning Nocturnal)”

Nel passaggio determinante dagli Unisound di Dan Swanö, autore primo tra il 1993 e l’inizio del 1996 della tipica apertura in suono così cruciale nella mutazione tra oscurità Death ed efferatezza Black in Svezia -tra gli altri e senza la minima pretesa di un’impossibile completezza- per i vari Marduk, Dissection, Sacramentum, Dawn, Unanimated, Diabolical Masquerade e primi Katatonia, Mörk Gryning, Vinterland e perfino per le sperimentazioni degli Abruptum nonché per gli Ophthalamia del debutto, ai servizi degli Abyss Studios di un Peter Tägtgren ancora ai blocchi di partenza della consolle (al lavoro, giusto nel 1995, con le sue prime e ancora diversissime produzioni nei titoli di “Fran Marder” degli Arckanum, “Vittra” dei Naglfar ed “Oimai Algeiou” degli Algaion, più l’EP di debutto dei Sorhin), avviene per quelli che sono dei giovanissimi Dark Funeral immersi nei preparativi finali del loro debutto su full-length qualcosa di più di un cambio di produttore a sessioni di registrazione già incominciate. Piuttosto, una vera rivoluzione di freddezza e potenza in quel momento silenziosamente in atto non solo nel loro operato, ma in tutta evidenza anche tramite esso: una che avrebbe fulmineamente contribuito a cambiare i tratti del genere in patria e all’estero negli ultimi anni che trascorrono prima del finire del millennio.

Il logo della band

In una precisa congiunzione d’intenti e direzione, difatti, con quanto simultaneamente provato proprio da quei Marduk ormai giunti al traguardo del quarto lavoro in studio per “Heaven Shall Burn…”, sebbene dunque in ritardo di una cospicua manciata di pubblicazioni, i Dark Funeral scelgono nel 1995 di registrare e rivestire con ciò che sarebbe diventato l’inconfondibile suono rasoiante, compatto ed asettico degli Abyss il loro primo album dopo l’omonimo EP che già vi incluse i primi vagiti di scrittura. Con ciò, similmente sia per tempi che modi ai Setherial di “Nord…”, il quartetto di Stoccolma non solo realizza al primo colpo il suo inappuntabile manifesto d’intenti su ogni livello (quello stilistico, compositivo, e se vogliamo anche di un futuro immobilismo lirico, concettuale e visivo); non soltanto incide e pubblica il lavoro che per i più, e per ottime ragioni, rimarrà in venticinque anni l’inavvicinato apice assoluto del gruppo vestendolo per di più con quella che resta una delle più celebri, suggestive, impressionanti e riuscite copertine mai realizzate in un dipinto dall’iconico Necrolord, ma finisce anche per restare incastrato nella peculiare posizione a metà strada tra la figura di ancora onesti, appassionati seguaci di un’idea (quella di un Black Metal elegantemente abrasivo, prossimo ad essere riconosciuto dal mondo come squisitamente svedese, coltivata tra importantissimi demo e pubblicazioni full nei tre anni precedenti da svariati altri autori, in seguito forse ingiustamente meno celebrati e remunerati dell’impresa di Ahriman e futuri -nonché perennemente mutevoli- compagni), e quella degli effettivi prime-mover di un suono di mefistofelica claustrofobia ritmica che avrebbe invece fatto scuola in un sostrato di musica nera in particolare, nel solco che proprio le scelte stilistiche e veicolari di “The Secrets Of The Black Arts” tracciano insieme alle visioni già appuntate dal mondo all’uscita di “De Mysteriis Dom. Sathanas” nel 1994 e di quelle di “Storm Of The Light’s Bane” nel 1995.

La band

In un album d’invocazioni notturne visivamente curatissimo e a dir poco malioso, spiritata colonna sonora di tempi oscuri osservati attraverso lenti distorte in cui ogni scelta trasuda dannazione eterna ammantata di mistero e rigurgiti estetici di satanismo medievale del più cupo e al contempo incantato, l’immortale riff portante della title-track e le intuizioni condensate nella belluina “My Dark Desires” (non ultimo il sample incastonatovi) spingono come per effetto di un rito sacrilego nel primo anno della seconda metà dei ‘90 proprio in quella direzione che, per caratteristiche melodico-armoniche già aperta dai Dissection di “Soulreaper” ed “Unhallowed” circa tre mesi prima, avrebbe fornito il proverbiale lanternino stilistico alla deriva più intransigentemente occulta e religiosa entro i confini nazionali e fuori – dagli Ondskapt (i cui colpi di rullante provenienti dall’Inferno di scuola Hellhammer del debutto marchiato Mayhem sono qui in bella mostra in una “Bloodfrozen” con tanto di arpeggi distorti in minore: vero e proprio precedente d’un linguaggio che poi sarà), ai Funeral Mist di “Devilry” e alla sottile sofisticazione degli Antaeus più ferali in “Blood Libels” dieci anni più tardi. Proprio in quel mix, qui un marchio di fabbrica notevolissimo trattandosi soltanto di un debutto, di ferocia d’esecuzione e coltivazione al contempo degli oscuri sentori melodici di sinistro splendore integrati nella compattezza tanto estrema e perennemente tirata delle maglie ritmiche, i Dark Funeral si propongono tra gli assoluti apripista di una sensibilità d’evoluzione nel genere che -seppur con le dovute distanze di personalità, paternità e costruzione in special modo dei riff- trova negli attivissimi Marduk i compagni insperati di corsa all’ultravelocità che contraddistinguerà tanto la parabola dei secondi, tra “Nightwing” e “Panzer Division Marduk” (tra il 1998 ed il 1999), quanto le successive uscite dei nostri da “Vobiscum Satanas” del 1998 in poi: già anticipate nella spietata “The Fire Eternal” e nella tragica “When Angels Forever Die”, ma che senza la guida compositiva di un allontanato Blackmoon dalle sei corde elettrificate (insieme alle quattro dell’altrettanto pesante e dipartito cantante e bassista Themgoroth – la sua interpretazione in “The Dawn No More Rises” una delle migliori di sempre in casa Dark Funeral) porteranno il quasi totalmente restaurato gruppo a perdere svariati punti in atmosfera magica (fortissima proprio nei rallentamenti, si prenda come esempio quello in “A Summoning Nocturnal”) e capitale feeling, risonante nella sua opera prima e mai più con la medesima intensità non tanto superato, ma anche solo ritrovato e nuovamente raggiunto.
Il riffing serrato e ancora acerbo in fluidità rispetto al futuro di Lord Ahriman, ma ricco di malvagia personalità e più compatto che mai per alchimia con gli altri membri in toccata e fuga, si sposa proprio con quello distintivo del Parland signore delle ombre che già possiede con la sua fama Necrophobic (del debutto “The Nocturnal Silence”) tutto il bagaglio personale di classiche scale imprestate dai territori melodici Black/Death coevi, realizzando insieme all’ugola perversa di un Themgoroth (maestro di possessione diabolica e magia nera) mai più surclassato in sentimento da altri cantanti della band la miscela esplosiva che parte da “Those Of The Unlight” per estremizzarsi tramite “Shadows Over Transylvania” e divenire un marchio di fabbrica nella sezione ritmica comandata incessantemente da Equimanthorn: mitragliatrice umana (“Satan’s Mayhem”), comandante delle legioni di demoni infernali le cui scariche di blast-beat furenti insieme a quelle del connazionale Fredrik Andersson raggiungevano nuovi standard di velocità ed estremismo nel genere; a tratti, qui, persino esagerati nella loro monotonicità schematica di soluzioni – una che giunge al prevedibile culmine in un’aliena, decontestualizzata, forse escludibile e sicuramente poco valorizzante cover di “Satanic Blood” dei riveriti Von, se non altro una testimonianza di un autentico culto nell’underground del periodo, ma inserita quasi a forza ed invero con pochezza di favore complessivo nella sfortunata posizione di penultima traccia del disco.

Complice infatti una seconda metà d’album drammaticamente inferiore alla prima, assolutamente gloriosa e persino a suo modo seminale parte di tracklist, ed una ripetitività di soluzioni ascrivibile allo stile stesso della band che fa perdere al disco appeal anche solo se confrontato alla varietà che grazia la maggior parte dei capitoli del genere usciti nella sua annata, “The Secrets Of The Black Arts” resta a distanza di venticinque anni dalla sua pubblicazione un capolavoro a metà, sebbene sia un gioiello lontanissimo dall’essere incompiuto o anche solo incompleto: quello dell’immortalità sfiorata con una visione di autentico splendore nero (solo parzialmente, lo si conceda) azzoppata da una certa ridondanza sulla lunga ancora non perfettamente calibrata e che invece in seguito, scevra dell’evoluzione che forse solo il songwriter primo dell’album di debutto avrebbe potuto permettere, incanalerà irreversibilmente la band tra gli onesti gregari di uno stile riconoscibile e nulla più; eppure, nel 1996, un altro passo cruciale nell’evoluzione di un intero genere e linguaggio, un favorito dei più grandi estimatori dell’irriducibilità in musica, un battesimo di fuoco eterno e morte seducente per i suoi autori nonché un bagliore fugace e ciononostante nitido firmato dagli stessi nel cielo tetro del nord. Del resto, oscuri sono più spesso che altrimenti i sentieri che, calcati da processioni senza volto e immoti come rovine al chiaro di Luna, conducono verso l’eternità.

Matteo “Theo” Damiani

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