Deathspell Omega – “Drought” (2012)

Artist: Deathspell Omega
Title: Drought
Label: Norma Evangelium Diaboli
Year: 2012
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Francia

Tracklist:
1. “Salowe Vision”
2. “Fiery Serpents”
3. “Scorpions & Drought”
4. “Sand”
5. “Abrasive Swirling Murk”
6. “The Crackled Book Of Life”

When man attempts to give a physical manifestation to Paradise, Hell ensues.

Cosa può esserci dopo il raggiungimento di una definitiva e dolorosa chiusura di un cerchio, conclusasi dopo un tortuoso processo nella restaurazione di un universalismo che appone come ultimo proposito a cui tendere quel silenzio che, semanticamente, si oppone al verbo attorno al quale tutto ciò che si era compiuto in precedenza sembrava gravitare? Inseguire nel nulla l’accavallarsi di significati opposti e inafferrabili, fra continue ricerche vane che si contraddicono fra loro; grattare per secoli la ruvida roccia solcandola con simboli pregni di significato per poi eroderla nuovamente – incidendo steli, segretamente anelando ad un qualcosa che potrebbe celarsi sotto. Infine, scoprire che alle fondamenta non vi è nulla di umanamente tangibile, ritrovandosi in questo modo ad annaspare nei frantumi granulosi di uno sterminato oceano di sabbia ormai svuotata di ogni valore pregresso.
E così, smarrito, l’uomo avanza verso la fine del suo mondo, procedendo a tentoni in un susseguirsi di visioni salvifiche che tramutano in orrore, bagliori illusori nella nebbia che si dimostrano nulla più che vuoti artefatti ottici, immaginarie e tonanti tempeste che spaventano molto meno di quel silenzio inaccettabile.

Il logo della band

Tanto insignificante, arida e vuota può sembrare la Terra degli uomini di “Drought” dopo la catastrofica epifania teologica che i Deathspell Omega hanno orchestrato fino a pochi anni prima soffiando nelle canne d’ottone dell’esistenza e facendo sobbalzare, sgomento, il panorama estremo del globo: ma la sconvolgente caduta negli abissi neri di “Fas – Ite, Maledicti, In Ignem Aeternum” e il conseguimento di una sintesi in strutture altrettanto grandiose in un “Paracletus”, più incanalate su quelle tonalità libere e svolazzanti capaci di disvelare parte del denso songwriting di cui i francesi si sono dimostrati capaci da metà anni ‘00 in poi, non sono un turning point solo per ascoltatori e musicisti avidi, ormai a frotte radunatisi intorno al loro tempio adornato di fato, devozione, fanatismo e intransigenza; sono infatti dei precedenti, i sigilli frammentari e sparsi apposti dopo “Si Monvmentvm Reqvires, Circvmspice”, in grado di innalzare la capacità espressiva, tecnica e descrittiva della band francese ad un grado così alto, stupefacente ed eclettico da far apparire qualsiasi confronto fatto di semplici scale di valori uno sterile divertissement se paragonato allo stimolo che istintivamente sovviene nell’osservare e analizzare come un gruppo di artisti totali e pensatori sopraffini possa rinnovare, modificare, mantenere o rivoluzionare un suono che è emanazione lancinante di un complesso mondo delle idee, di una minuziosa e stratificata mimesi della realtà spirituale e materiale brulicante d’infinite pedine che si avvicendano frammentarie in un folle e capillare reticolo.
Così, quella che dichiaratamente si presenta come un’appendice postuma ad un opera magna per certi aspetti già completa, acquista, non differentemente a come era stato per le cosiddette opere minori precedenti, un ruolo invero cruciale: un focus alternativo, uno sguardo acritico sulle conseguenze concrete in un piano più grettamente terreno, che si evolve in una parziale ed apparente regressione in comunione con un punto di vista maggiormente antropocentrico e contestualmente limitato – ma non limitante: e pertanto costruzioni meno convolute che si dispiegano in tempi molto più brevi, un incedere distruttivo e confuso di improvvise contrazioni che non si stenta a definire meno stratificate ad un primo ascolto sotto una mera ottica quantitativa, ma che nella pratica non sono che l’ulteriore sintesi ed estrema conseguenza del rosseggiante capitolo precedente.

Volendo fare un confronto con le due uscite minori non a caso riproposte negli anni che immediatamente precedono l’uscita di “Drought”, gli spasmi fisici derivanti dal chitarrismo convulso di “Mass Grave Aesthetics” si asciugano e si caricano di gravità fatale, in un tormento che è tortura corporale ben più fisica e concreta dell’intimismo febbrile di “Diabolus Absconditus”, nonché in un’atmosfera quasi totalmente sgombera delle saturanti cacofonie Ambient, ora piatte nello smarrimento di un Eden nero e carbonizzato sul quale domina soltanto lo sciamare venefico degli insetti; c’è dunque solo spazio per gli incerti e opachi suoni di una nuova veglia, nell’incedere offuscato di torpore e attesa di una “Salowe Vision” che fra l’immersivo spettralismo Trip-Hop dei Portishead e una pesantezza sgretolante lascia presagire con quale efferatezza verrà accolta la rivelazione della fine e la scoperta di una redenzione mai realmente raggiungibile. “Fiery Serpents” arriva infatti con la violenza di un costone che si stacca dal fianco della più alta montagna per conficcarsi a fondo nel molle terreno: lo spirito che aleggiava è definitivamente sparito e la composizione si assesta su un filo discontinuo asfissiante, in cui le linee collassano fra loro più sfrigolanti e secche che mai, sempre pindariche e imprevedibili ma ancor più potenti e devastanti. Le dissonanze a là Penderecki si fanno sempre meno classicheggianti e maggiormente incanalate verso composizioni affini al contesto delle sei corde, fra soluzioni che sul solco di un sapore Jazz non totalmente inedito per il progetto si incanalano discretizzate in un asimmetrico riffing Math-Rock.
È dunque a prevalere un approccio nuovo, basato veementemente sui tre strumenti cardine, dove a svariare non sono solo le linee di chitarra, ma un ruolo fondamentale è affidato ad un basso dotato di vita propria e libero arbitrio, mai relegato nelle retrovie e sempre insidioso come una serpe saettante nel sottosuolo. Vi è, insomma, un’inedita tendenza ad un impianto power-trio più diretto, volto ad una prospettiva che sarà via via sempre più rilevante nel futuro della formazione sulle orme dei King Crimson più quadrati, pesanti ed angosciosi di “Red”, a sfruttare al massimo le potenzialità di componenti prima usate in modo più orchestrale e caotico, in cui i singoli costituenti folli e schizzati danno tutti e sempre un individuale e sostanziale apporto al brano.
Ma le rincorse turbinanti si fanno ancora più taglienti con “Scorpions And Drought”, in cui le ritmiche estrose che si erigono a muri di suono incalzati da cascate pungenti trovano un momento di requie solo poco dopo nella breve ma drammatica “Sand”, fra urla disarticolate e dilaniate dall’orrore duettanti con la narrazione nera di un Mikko Aspa su questa uscita costante e abrasivo declamatore del degrado; versi solenni e dalla vivida potenza figurativa vomitati in un costante gorgogliare si spargono sulle successioni microtonali che scivolano ammalianti e gravi in continui glissando inerpicati in un saliscendi di disillusione e smarrimento concettualmente parenti di quel “With Hearts Toward None” che non pochi mesi prima consacrava i polacchi Mgła sull’onda di un grigiore dell’anima prossimo per scenari. “Abrasive Swirling Murk” è pertanto l’amaro e definitivo ascesso di disperazione: vite condotte nel nome di dissoluzione, logorio, consumo e sperpero perpetrando il volere di un dio della distruzione ora guardano con disgusto il proprio operato in attesa che quella stessa entità conceda loro l’agognata fine. Chiunque ora spalanchi la bocca avido di un’ultima boccata è destinato ad ingoiare le fluttuanti ceneri delle proprie colpe, rimanendo boccheggiante a subire nel petto i colpi vibranti e fatali dei fill che costellano il sovrastante tappeto ritmico. E “The Crackled Book of Life” si compie quindi come ultimo rassegnato atto, dispiegata sotto un grande sole che brucia la carne ma che si nasconde beffardo dietro una coltre polverosa; conclusione amara e visionaria di un’apocalisse conclusasi in ventuno minuti abbaglianti e profetici che si delineano nella discografia dei Deathspell Omega al contempo come un punto di arrivo e un cruciale crocevia artistico.

La totale dissoluzione umana in un narcisismo delle minime differenze senza ritorno, una diffusa e sanguinante guerra omnium contra omnes in cui qualsiasi legame di fratellanza si dissolve, l’espressione su larga scala della fogna del comportamento di Calhoun: questo è il fondo, la fine ultima di una civiltà corrotta da cui riemergere con la tracotanza spavalda di chi si proietta nell’empireo sfidando Dio in un “The Synarchy Of Molten Bones” che, pur adornandosi nuovamente della grandiosità degli ottoni, per dirne una, mantiene comunque una non dissimile compattezza e violenza strutturale; ma “Drought” è anche il ventre sporco nel quale germogliano i fondamenti concettuali dell’utopia nera e fumosa di “The Furnaces Of Palingenesia”; è il putridume scavante da cui la sagoma di “The Long Defeat” si discosta in cerca di risposte, in quel viaggio che pur successivo di una decade vedrà la sua esplosione in un soffio vitale dalla potentissima e monumentale forza espressiva che, per certi aspetti, proprio nella terrosa figuratività di “Drought” vede a distanza di dieci anni un abbacinante ed ideale inizio.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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