Deathspell Omega – “The Furnaces Of Palingenesia” (2019)

Artist: Deathspell Omega
Title: The Furnaces Of Palingenesia
Label: Norma Evangelium Diaboli
Year: 2019
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Francia

Tracklist:
1. “Neither Meaning Nor Justice”
2. “The Fires Of Frustration”
3. “Ad Arma! Ad Arma!”
4. “Splinters From Your Mother’s Spine”
5. “Imitatio Dei”
6. “1523”
7. “Sacrificial Theopathy”
8. “Standing On The Work Of Slaves”
9. “Renegade Ashes”
10. “Absolutist Regeneration”
11. “You Cannot Even Find The Ruins…”

The hand that strangles and the hand that heals is the same…

La sempre agognata libertà come nauseante costrizione, con più o meno moderate concessioni da parte di Sartre, l’ironia più brutale e soffocante; la descrittiva, folle lucidità di un punto di vista particolarmente mutevole, metànoia bugiarda per ammissione, eppure inevitabilmente rigido se non dogmatico, programmatico nelle sue fibre e nelle sue figure – Thomas Müntzer, il 1523, gli eletti, l’ultra-violenza dell’ala più ferventemente integralista, fondamentalista e fanaticamente ribelle di quella rivolta protestante nata come specchio pulito di una corruzione da debellare, di ingiustizie da sanare; l’unione dei calpestati, l’annullamento individuale di chi è già nulla come individuo, il sangue che chiama sangue e l’amore che integerrimo chiama morte, rimando con dolore, a nobile penzolone da una forca. Il suono, l’olezzo della rettitudine.
Cercavi forza, giustizia, splendore. Cercavi amore. Ma la fossa aspetta di fronte a te: silenzio, il suo nome.
Apocatastasi – rivelazione, l’inizio del ristabilimento. Ecpirosi – la lava ossificata della conflagrazione. Palingenesi – la rinascita.
Qualunque cosa sia stata fatta, a qualunque immagine si sia giunti per il Risultato dell’Ordine; quel che è stato fatto è giusto – e quel che rimane, è giusto.

Il logo della band

La quantità di indizi letterari, di riferimenti (non sorprendentemente) teologici e soprattutto squisitamente classici (specialmente di tradizione greca, non casualmente più universale dell’oscurantista latina) che i Deathspell Omega disseminano in “The Furnaces Of Palingenesia” è letteralmente infinita; la possibilità interpretativa di questi dettagli, poi, specie qualora sconosciuti, supera con ogni probabilità il concetto stesso di smisurato.
Quel su cui tuttavia chiunque può concordare con un certo grado di elasticità è che il settimo full-length della rinomata band francese si stagli nel suo corpus come quello più terreno, meno metafisico, e per molti aspetti più irrimediabilmente legato all’intimo dell’essere umano – forse, proprio per questo, il più spaventoso e inquietante.
Anche volendo quindi prescindere dall’addentramento negli aspetti lirici del disco, in quanto composto a partire dallo scheletro di un concept semplicemente titanico e -davvero banalmente- vergato da un approccio alla materia ricchissimo e d’intelligenza nonché cultura fuori dal comune, che meriterebbe piuttosto diverse analisi per sé senza nemmeno finire alla musica, risulta difficile non spendervi almeno una (incredibilmente) sommaria introduzione – inevitabile, finanche, dal momento che la band dall’alto del suo pulpito di assoluto mistero e silenzio ha comunque deciso di non celare un velo, in una sola e programmatica occasione quindici anni or sono, sul fatto che nel suo caso sia la musica a seguire con disciplina l’ideale ontologico riversato nel concept da sviluppare in un -qualsiasi- determinato momento.

Il sigillo della Palingenesi

Cruciale è quindi l’illustrazione quantomeno basica dei temi e di alcuni dei brillanti spunti di riflessione da cui l’intero disco sembra partire; perché, nemmeno a dirlo, la musica segue perfettamente in atmosfera come minaccioso veicolo sensoriale all’attacco di due dei più grandi pericoli per la vita dell’individuo: speranza e verità.
L’élite segreta che ha intessuto le fila per l’ecpirosi in “The Synarchy Of Molten Bones”, deflagrante miccia, esce allo scoperto dogmatico in “The Furnaces Of Palingenesia”: quel che viene descritto con efferata, assiomatica lucidità è un mondo distopico che, tuttavia, passo dopo passo, non sembra poi essere totalmente alieno all’ascoltatore/lettore.

distopìa: s. f. [comp. di dis- e (u)topia]. – Previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano […] sviluppi […] altamente negativi.

Prefigurazione di sviluppi […] altamente negativi; eppure, non pare così distante dalla conoscenza personale di chi legge -con terrore- tutto quel che non è vomitato dalle vocals acide sparpagliate dalla lingua velenosa che le recita con varietà e distacco impeccabili sull’acrimonioso continuum musicale degli undici capitoli (totale altamente simbolico, come enorme parte di quel che i Deathspell Omega tendono a inoculare nella loro musica, basti mettere in relazione il numero della traccia finale con quel che vi trasmette). In mezzo a quel fluire di narrazione scrosciante che risparmia alle orecchie enorme parte di ciò che viene incluso nel booklet (punti del programma e dell’indottrinamento, quella cantata, rivelazione di menzogna e riflessioni a fior di labbra, quella più cospicua -fondamentale- e taciuta), si tracciano archetipi, iatrogenesi, contraddizioni paradigmatiche ben note – forse è proprio questo il motivo per cui “The Furnaces Of Palingenesia” suona alla percezione così grave e spaventoso? Il processo evidenziato è così banale, così chiaro. Così veloce.
L’Eden è rovesciato, la natura delle cose con conseguente generarsi di situazioni casuali ed incontrollate un abominio; prendere in mano il controllo sociale significa controllare maggiormente le distorsioni, le dissonanze, i let-ring in cima alla scala gerarchica delle esplosioni a-ritmiche, delle geometrie asimmetriche che da quindici anni sono bagaglio esecutivo più caro dei Deathspell Omega. Ne fuoriesce, nero e strisciante come fetida bile, un magma di basse e bassissime frequenze di preponderanza assolutamente inedita nell’operato del gruppo, soprattutto perché crucialmente accostato all’impiego mai così importante degli ottoni che provoca sincera apprensione emotiva per risultato in ogni sezione in cui vengono inclusi; la congiura nei confronti del caos è ordita e tutto quello che è sempre stato frutto di meticolose attenzioni e calcoli diviene ancora più rigoroso, schematico nella sua ponderata imprevedibilità jazzistica doppiata dai fumi melodicamente stridenti e atonali. L’ampiezza fluida della ri-scrittura del gruppo continua ad essere la chiave dell’innovazione che la musica dei DsO comporta, la spada tratta e fiammeggiante ogni volta che gli urticanti attacchi Black Metal vengono sciorinati e gradualmente destrutturati con l’incredibile torsione di strategie sempre differenti che pongono i tratteggi stilistici di un genere come mero medium coercitivo, così come le più impensabili e paurose armonie sperimentate (la cui analisi, si ostini contrastiva alle similarità di “Chaining The Kathecon” e “Paracletus”, o viceversa, risulterebbe puro e sterile esercizio retorico).
La coerenza con cui i francesi portano a termine la loro missione è spaventosa proprio perché si fa più memorabile guadagnandone anche in novità e persino sintetica vastità; nonostante manchino i leitmotiv che caratterizzano “Paracletus” (con cui “The Furnaces Of Palingenesia” condivide comunque diverse strategie comunicative o espressive, nonché un inaspettato carattere di tragicità epica), ci troviamo comunque di fronte al disco più coeso, fluido, trasparente e indivisibile di sempre dei Deathspell Omega – allo stesso tempo, al più impenetrabile ed opprimente per atmosfera, ricercatezza stilistica delle soluzioni e spessore del concept artistico.

Meravigliosamente, inafferrabilmente complesso, senza mai scadere nell’incomprensibilità ostentata o nell’avanguardia fine a sé stessa (anzi, forse mai così incredibile la relazione biunivoca tra musica e testi), “The Furnaces Of Palingenesia” lascia inoltre a bocca aperta (come se la scrittura non bastasse) per la maestria sconcertante che la band dimostra registrando la spigolosità chirurgica di un simile disco in presa diretta in studio, per di più con attrezzatura e metodi analogici: il risultato che risiede nella naturalezza con cui suona la batteria senza sovrapporsi alle altre frequenze nemmeno nei momenti più concitati, e che valorizza la lentezza di molti degli episodi più squisiti dell’album, il peso magnifico del basso e il tono delle chitarre come accento in cima al mix, contribuisce a creare una dinamica stupefacente, nonché a trascendere perfino i momenti più paludosi e tetri del resto della discografia in una superiorità che è pienamente manifesta.
Un lavoro di rinnovamento su cui riflettere e tornare per anni a venire, ascolto dopo più attento ascolto, lettura dopo ancor più attenta rilettura, di un collettivo che dimostra di essere ad ogni uscita sempre un passo avanti anche al suo più attento e fedele ascoltatore, in guisa splendidamente iniziatica, probo a somministrare la chiave (o una delle chiavi?) di lettura di ciò che è stato fatto in immediata precedenza solamente mediante un nuovo capitolo discografico che possa svelarne i corretti e più nascosti -ma sempre immancabilmente dotati di una spiegazione incredibilmente logica- significati, creando così arte inumana, asettica, distante – eppure commoventemente ricca di pathos e passione; e anche gli antri più nascosti del paradiso non possono che tremare di puro orrore in rimando.

The Light that illuminates us is the very same that blinds us, too.

Matteo “Theo” Damiani

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