Árstíðir Lífsins – “Saga Á Tveim Tungum II: Eigi Fjǫll Né Firðir” (2020)

Artist: Árstíðir Lífsins
Title: Saga Á Tveim Tungum II: Eigi Fjǫll Né Firðir
Label: Ván Records
Year: 2020
Genre: Viking/Black Metal
Country: Islanda

Tracklist:
1. “Ek Býð Þik Velkominn”
2. “Bróðir, Var Þat Þín Hǫnd”
3. “Sem Járnklær Nætr Dragask Nærri”
4. “Gamalt Ríki Faðmar Þá Grænu Ok Svǫrtu Hringi Lífs Ok Aldrslita”
5. “Um Nætr Reika Skepnr”
6. “Heiftum Skal Mána Kveðja”
7. “Er Hin Gullna Stjarna Skýjar Slóðar Rennr Rauð”
8. “Um Nóttu, Mér Dreymir Þursa Þjóðar Sjǫt Brennandi”
9. “Ek Sá Halr At Hóars Veðri Hǫsvan Serk Hrísgrísnis Bar”

Quando in cielo la stella dorata si tinge di rosso, il presagio è di sangue – fuoco – morte: sangue che scorre bollente, nettare di un cupo scarlatto, al cantare mortale di lame, spade e pugnali che danzano intonando rime tramite una lingua pagana affidata al vento e cifrata nelle leggi di osservazione del naturale, incomprensibile al seguace della religione del pallido dio dei monaci dall’abito bianco; il fuoco che è chiasmo d’inizio e fine, rovente ponte di Surtr verso l’aldilà e la valle delle ombre, verso il sogno angosciante ed il sonno eterno – accettato nel suo mistero ma non per questo meno foriero di domande; la morte come pioggia dal cielo in oniriche visioni notturne di terribile, macabra e nera efferatezza che risponde ad un nome simbolicamente ripetuto tre volte: Óláfr.

Il logo della band

L’oro purissimo colato nelle incisioni runiche su pietra da un dio di luce che non ha tuttavia mai parlato di effettiva pace (l’oro ricorrente del regno dei cieli, iconografia di maestosità nella cultura del sud, è lo stesso chiarore emblema cromatico di codardia in quella germanica dell’Età Antica) si tinge della forza virile, oscura e virulenta di un rosso cremisi che è coraggio cieco e temerarietà di giganti – il punto di vista cambia simbioticamente di protagonista e narratore, dalla lingua di un fratello a quella dell’altro, ma la storia raccontata resta con preziosa sagacia la medesima: temporalmente, geograficamente e persino umanamente.
Gli Árstíðir Lífsins non proseguono dunque il viaggio intrapreso lo scorso anno in “Vápn Ok Viðr” (prima parte della “Saga Á Tveim Tungum” che giunge con “Eigi Fjǫll Né Firðir” ad eclatante conclusione, finissima cronaca vissuta da due protagonisti speculari e storicamente ambientata durante la sanguinosa conquista dell’Islanda contadina e pagana ad opera del re norvegese Óláfr Helgi Haraldsson, al cui precedente scritto si rimanda per un maggiore approfondimento riguardo il background concettuale ed estetico dell’opera), bensì tornano al suo incipit per farlo questa volta riportare -in differita spaziale e con sottile maestria narrativa- dalla lingua rimasta saldamente pagana, quella del fratello il cui legame col primo non viene spezzato nemmeno dall’apostasia di quest’ultimo; una visione gemella cantata all’imbrunire da una sensibilità più incline alla riflessione, più salda in profondità proprio perché avvezza alla domanda che sgorga continua e porta il protagonista a questionare (pur fedele a quel carattere d’ineluttabilità e predestinazione tipicamente nordico) gli accadimenti circostanti – e l’ascoltatore/lettore, tramite il confronto, a collegare le due parti.
Non è un caso, quanto solo la prima di svariate e sottile metafore sensoriali, che il precedente capitolo si aprisse con una caotica esperienza di pre-morte, di oscurità, gelida tempesta e relativa perdita di certezze esistenziali, mentre “Eigi Fjǫll Né Firðir” veda dal canto suo la distensione acustica e il tepore di un benvenuto, di una nascita fisica e nuova vita come incipit di grande armonia (cfr.: “velkominn”, benvenuto – come evidente contrapposizione semantica a “fornljóts” con cui si dischiudeva il dramma interiore un anno fa).
Né monti, né fiordi: l’opposizione è solo apparente, di nuovo – in un magnifico gioco di prospettive complementari tra loro, e risponde piuttosto a quella di un’aspra guerra di religione in corso, di una croce cristiana che si fa ruota solare -o viceversa- fra tentativi di conquista e resistenza, dell’appartenenza individuale alla fazione spirituale o social-politica che sfuma in una propensione alla vita tanto nel sogno quanto nella realtà, nella battaglia tra certezza ed incertezza ricamata infine dal medesimo jormungandr; il trio islandese mette al centro -al contrario- la dimensione più piccola, incolore ed insignificantemente umana mentre l’esterno si fa sottilmente impalpabile lungo l’esposizione in prima persona. I continui rimandi dispersi durante i sogni del protagonista corrono quindi paralleli più che intrecciarsi esplicitamente al primo capitolo (si confrontino elementi come la mano del fratello inghiottita dalle onde ed il villaggio a cui viene dato fuoco, tra gli altri), ma la nebbia di collanti narrativi viene immancabilmente diradata nell’inaudito finale, che è non per sola circostanza costruttiva l’episodio più stilisticamente speculare e di palese collegamento tra i due album.

La band

La dimensione onirica e notturna, lo scenario crepuscolare che è tramonto di certezze e degli dèi mentre il protagonista viene costretto da un’alba di sangue a scappare dalla sua valle nativa, lupo solitario che medita sul concetto di fine prima di unirsi alla resistenza a quello che è innanzitutto un Ragnarǫk spirituale, è pertanto cruciale nella comprensione della natura poetico-stilistica di “Eigi Fjǫll Né Firðir”. I passaggi affidati allo stratagemma del sogno premonitore o divinatorio, in cui gli artigli della notte strappano l’oro del giorno sono difatti addirittura tre, diversificati in sensibilità e stile ma tutti espediente compositivo per permettere agli Árstíðir Lífsins di danzare come creature mitiche ed esplorare come mai prima d’ora la loro inclinazione verso un Ambient dai tratti arcaici ed estremamente verosimili, inquietantemente reali, pulsanti e filmici ma mai transitori, bensì necessari a rendere ancora più pesante e coinvolgente la scrittura quando affidata allo schiacciante linguaggio Black Metal: non intermezzi per prendere fiato, ma parte essenziale della narrazione (persino culmini di tensione, come nel caso del penultimo brano) e del continuum musicale che il trio orchestra con la più grande naturalezza nonostante la complessità d’intenti.
La composizione scorre torrenziale, e per una totale comprensione necessita di essere vissuta nella sua interezza, ma il lavoro è strutturalmente composto da due blocchi – difficile separare tra loro le prime quattro tracce per funzione, quanto il materiale che compone a nastro le successive cinque. Lo storytelling è pertanto più grandioso e coinvolgente che mai, ma il fiore all’occhiello sono le dinamiche della musica enfatizzate oltremodo: ogni secondo cattura l’attenzione a sé e catapulta negli scenari che si susseguono trasferendo in musica -che è immagine incredibilmente nitida- il significato di parole universalmente comprensibili, di rune che bruciano infuocate nell’intensità fuori dal comune di riff urticanti dal gusto sopraffino, ritmi tritaossa e narrati che fanno dell’elegante cambio di registro continuo la loro cifra stilistica più sublime; struggenti dunque le aperture melodiche delle chitarre, avvolgente l’incendio di riff grattanti e contrappuntati di venature cupe e basse, sacre e tiranniche, tremanti come foreste in fiamme e legna che arde (“Gamalt Ríki…”) o solidi come cesoie (quello che battezza l’ingresso del Metal nel disco), rasenti movimenti d’ispirazione classica e drammatica (“Er Hin Gullna Stjarna…” o la suite conclusiva), mentre le melodie più ampie vengono affidate ai maestosi cori maschili dal baritonale vigore ormai trademark distintivo del gruppo quanto le sovrapposizioni e gli inseguimenti di canti urlati in diversa guisa.
L’emozione (difficile definirla recitazione) espressa dalla voce impastata che richiama il sogno lucido, invece, insieme ai grugniti ed i rantoli nel mezzo dell’orrido rituale, è magistrale invocazione di divinità dall’aspetto sinistro che fa il paio con l’uso di nyckelharpa, viole e violoncello ancor più teso ed angosciante che in passato – del rombo di tuono che è preludio di un epilogo imminente, nonché di eccellenza su ogni singolo fronte, mentre visioni apocalittiche riempiono gli occhi vitrei di terrore prima della battaglia conclusiva di ancor più estremo, violentissimo impatto: un gran finale in ondate di lapilli e morte, tempeste di corpi, maree di spade – in Black Metal assetato di sangue, selvaggio, virulento, rovinoso ed epico nell’accezione più scabra, nuda e dura del termine; la furia cieca, il massacro, un impeto travolgente, contorto, spietato nell’azzannare con crescendo strumentali in un incontrollato montare di tensione e adrenalina, nel ribollire di rabbia che cresce nei colpi di rullante misti a rilasci di pura devastazione e magia d’arrangiamento per sentimento e resa cinematografica. E quando la morte ha ormai falciato enorme parte del suo prato di carne e rimangono solo rovine e silenzio, in quel commovente finale affidato agli strumenti acustici, alle lacrime di un fratello e all’apertura meno cronistica e più umana di sempre degli Árstíðir Lífsins nel tratteggiare con estrema grazia la tragedia finale, l’anima folkloristica si mostra più integrata che mai col suo carattere cupo, austero, inquietante e quanto mai legato in sinestetica condanna all’anima di resilienza e perdita (più che conquista) dell’Islanda: in barba alla propria weltanschauung, entrambi i figli della sua durezza piangono e pregano inutilmente per una pace che non troveranno mai, non in vita il secondo – non in morte il primo.

Oggi più che mai, emerge impossibile non riconoscere dalla completata figura complessiva la strabiliante attenzione al dettaglio e la competenza di valore accademico del gruppo non solo per chiunque maneggi materie storiche o linguistiche, ma parimenti per coloro i quali mastichino anche soltanto i linguaggi più squisiti della musica più oscura: nel criterio in cui gli islandesi selezionano e sviluppano a totale piacimento ulteriori colori musicali, variazioni e relative esplorazioni stilistiche in strettissima e perfetta sintonia con le sfumature richieste dalla narrazione pur rimanendo inconfondibili, nella perizia di arrangiamento sotto gli aspetti più sottili e difficili, nella convivenza strabiliante di Black Metal scorticante e delicatezza degli strumenti acustici (non ininfluente un suono più ruvido e performante, soprattutto nelle percussioni, rispetto al primo capitolo), nella realizzazione ultima dell’infinita battaglia di civiltà fatta saga dal duplice punto di osservazione, tra granitica certezza millenaria ed il nuovo che avanza violento con perdita di senso – se “Vápn Ok Viðr” poteva già essere dichiarato eccezionale, persino sfiorante la perfezione nonché senza remore il miglior disco mai incastonato nella già preziosissima corona del re pagano Árstíðir Lífsins, “Eigi Fjǫll Né Firðir” che ne è fratello assolutamente non consequenziale supera ancora una volta ogni eccezionalità in precedenza regalata dalla band e, anche solo preso singolarmente, si mostra uno dei dischi più enfatici ed intelligenti probabilmente mai realizzati nel suo genere; considerata, valore aggiunto, l’ambizione riversata nella coppia di album, un’opera bipenne di monumentale ambizione e lontanissima dallo svago ma di riuscita che non ha pari né simili, si può parlare di effettivo futuro termine di paragone, quello che ad oggi è un risultato totalmente introvabile altrove.
Mentre le terre sempreverdi diventano quindi nere e la natura assurge a torre d’avorio e crisma di protezione incomprensibile a chi non vi vive in comunione, tra pragmatismo stoico ed eversione culturale insomma, gli Árstíðir Lífsins compongono un’ora e un quarto di musica fuori dal tempo, elegantemente intrisa di studio, letteratura antica, storia e personalità, tutte conglomerate in un’evoluzione fatta di profondità e dettagli che creano arte totale ed eccezionale – la perfezione, con ogni probabilità, questa volta davvero raggiunta.

“Þat hefr hverr, er verðr er, loks.”

Matteo “Theo” Damiani

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