Árstíðir Lífsins – “Saga Á Tveim Tungum I: Vápn Ok Viðr” (2019)

Artist: Árstíðir Lífsins
Title: Saga Á Tveim Tungum I: Vápn Ok Viðr
Label: Ván Records
Year: 2019
Genre: Viking/Black Metal
Country: Islanda

Tracklist:
1. “Fornjóts Synir Ljótir At Haddingja Lands Lynláðum”
2. “Sundvǫrpuðir Ok Áraþytr”
3. “Morðbál Á Flugi Ok Klofin Mundriða Hjól”
4. “Líf Á Milli Hveinandi Bloðkerta”
5. “Stǫng Óð Gylld Fyr Gǫngum Ræfi”
6. “Siðar Heilags Brá Sólar Ljósi”
7. “Vandar Jǫtunn Reisti Fiska Upp Af Vǫtnum”
8. “Fregit Hefk Satt”
9. “Haldi Oss Frá Eldi, Eilífr Skapa Deilir”

Fin dalla sua primordiale concezione, e fin dalla scelta del monicker, il progetto multi-disciplinare in vena art total degli Árstíðir Lífsins vuole soffermarsi, esteticamente e concettualmente, sulle enormi implicazioni contenute nel frammento d’esistenza (pensiero tanto ricco di potenziale in sé quanto squisitamente nordico per inclinazione filosofica) che possiamo chiamare le stagioni della vita.
Esercizio di stile particolarmente lungo risulterebbe tuttavia lo sforzo di identificare in parole quanto il tempo che compone le stagioni, modo con cui per secoli si è identificato l’intero scorrimento imperturbabile della vita a partire da sensazioni naturalmente empiriche, imprima il suo marchio su situazioni e persone. Ancor più critico, in un processo di hardyiana memoria sarebbe provare a mettere su carta quanto tutto ciò rimanga in profondità irrimediabilmente immutabile, inderagliabile dai binari rigidi che silenziosamente regolano il ripetersi degli eventi sotto forma di arché-tipi come fossero variopinti costumi di un’unica scena in ciclica ripetizione. Da un lato le norne tessono fili imperscrutabili, piccoli frammenti di un mosaico ben più ampio e a cui persino loro sono infine asservite silenti; dall’altro, si staglia invece alta l’impalcatura lineare e retributiva a distinzione del pensiero religioso monoteistico oggi sia occidentale che medio-orientale.

Il logo della band

Non sorprendentemente, la cosmogonia primigenia che plasma le fondamenta più intime e inconscie della cultura del nord Europa (particolarmente quella di retaggio germanico), forgiata dall’ineluttabile ciclicità insita in un pensiero in origine regolato da forze magiche come salda spiegazione di ogni aspetto concernente la vita, bagna da sempre le coste mentali dell’operato di una band dal tessuto -non solo geografico- profondamente islandese come gli Árstíðir Lífsins, la cui assodata ambizione artistica sembra spingere in continuazione oltre quelli che vengono altrove visti come limiti; lo stupore è ogni volta quasi da conto, specie qualora impegnati con la pubblicazione della prima parte di una storia (la completa sovrapposizione semantica dei sostantivi storia e saga nella lingua islandese è fortemente emblematica nella cifra interpretativa del titolo) narrata da due punti di vista diversi, il cui risultato non potrebbe arrovellarsi sul concetto posto sommariamente in apertura dello scritto in modo più nitido, visivo, musicalmente sentito o liricamente poetico.
Torniamo all’inizio dell’undicesimo secolo, tra la Scandinavia continentale e quella insulare che in breve sarebbe diventata l’Islanda colonia norvegese sotto la corona del sanguinario re Óláfr Helgi Haraldsson (o Santo Olaf II di Norvegia, passato alla posterità come il sovrano cristianizzatore) e poi, per osmosi, di Danimarca; cominciamo il viaggio dal titolo, la cui mise tradisce un’ampia possibilità interpretativa a completa rilegatura di musica e testi: “Saga Á Tveim Tungum I: Vápn Ok Viðr” – parte prima di una vicenda narrata da due lingue (o fonti) differenti, da due punti di vista spiritualmente (e forse solo apparentemente) alieni tra loro ma cronisticamente complementari; oppure una storia dalla lingua biforcuta, come quella del celebre serpente tentatore e traditore dell’iconografia cristiana, che tramite la narrazione asettica di un pagano convertito all’agenda del nuovo re martire cristiano dimostra quanto le religioni siano armi a doppio taglio, ben più critiche da maneggiare di una spada.
Entrambe le interpretazioni, oltre che valide, sono assolutamente funzionali alla lettura della simbiosi di musica e testi contenuta nel monumentale quarto full-length degli Árstíðir Lífsins.

La band

L’ora e quasi dieci minuti di musica dalla stupefacente capacità immersiva e dall’atmosfera tesa e minacciosa con cui ci rende partecipi il trio si ricolora quindi di quell’approccio indistinguibilmente a metà tra lo storico e il leggendario, composito di parti originali a compendio di estratti di letteratura medievale che spaziano sincreticamente dalle Víkingavísur di Sigvatr Þórðarson al Sonatorrek di Égil Skallagrímsson, finendo con frammenti più sparsi tra anonimi e firmati; quel che era insomma stato messo in stand-by dal fenomenale EP “Heljarkviða” del 2016 (spezzone discografico dedicato invece, nella sua coerenza concettuale, alla materia fantastica ed escatologica della Vǫluspá), inizia nel modo più brutale, violento, cupo, caotico ed estremo dell’intera discografia del trio. Non è un caso: le acque nere dell’oceano che sono così ambivalenti nella cultura islandese (fonte di ricchezza, di sopravvivenza storica, ma anche di morte e degli occhi estranei in cui specchiare un’identità fortemente isolata e conservatrice – in altre parole l’insondabile contrapposto all’ordine sociale della agricola) sono lo sfondo della metafora di caos che è il naufragio con esperienza di pre-morte necessario affinché il nostro anti-eroe perda ogni certezza e cerchi un nuovo credo a cui abbandonarsi, trovandolo nella conquista del potente Re Evangelizzatore. Tuttavia non avrebbe senso, in questa sede, proseguire nel racconto lirico rischiando inevitabilmente di svelare ulteriori dettagli necessari all’interpretazione individuale e a quella sorpresa che stanno alla base dell’esperienza del disco; ben preferibile è invece provare a spiegare cosa, musicalmente, renda “Vápn Ok Viðr” un disco tanto speciale.
Volendo ad ogni modo spendere un dovuto elogio al comparto lirico pur senza addentrarvisi, va sottolineato come le figure perifrastiche della tradizione norrena (cfr. kenning) siano di eleganza quasi iniziatica, criptica nel suo essere destinata a chi possiede qualche base di conoscenza al riguardo (così come da prassi per la band, in quella rotta tracciata dal lontano approccio “Vikingligr Veldi”), specchio testuale di un folklore elettro-acustico oscuro, angosciante, opprimente (si noti l’utilizzo del tremolo bowing sugli archi dal timbro baritonale, siano viole o violoncelli), segnato dalla forza arcaica di una vita di durezze e morte onnipresente; tuttavia è proprio il fluire della musica ad annullare ogni possibile barriera linguistica (comunque eccellentemente ovviata dalle ottime traduzioni inglesi nel booklet) riassumendo nelle nove interconnesse tracce tutti gli aspetti del sound Árstíðir Lífsins e spingendoli in una direzione, anche qualora particolarmente diversa, più coesa, affilata, quasi d’impatto – un distillato di cattiveria e oscurità stilistica bilanciata invero dalla magia enigmatica di chitarre acustiche ma che perfettamente trasmette l’affanno per credenze perse e rimpiazzate; il sentore maligno di armonie in minore (la cui presenza così massiccia è quasi un inedito nello stile solitamente più ieratico della band) a dimostrare che il tradimento in seno alla conversione del nostro anonimo protagonista è in realtà processo biunivoco e infido.
Non sorprende più, pertanto, che proprio il capitolo narrato -imparzialmente- dall’ottica cristiana sia (intelligentemente) il più duro e nero del canovaccio della band; ma anche quando spinta in attacchi devastanti e fischi armonici impazziti, l’atonalità fredda, tagliente e ronzante delle chitarre è il tappeto su cui far scontrare le onde d’imperitura potenza dei cori profondi e drammatici, in cui ritagliare l’eloquenza dei narrati, o in cui incastonare tutta la teatralità dei sussurrati così lontana dal posticcio, o su cui farvi torreggiare l’efferatezza trascinante delle scream vocals e la pelle d’oca creata dagli splendidi mormorii monastici quando viene il momento di riprendere respiro – o di perderlo totalmente. Qualunque sia l’aspetto preso in considerazione, gli Árstíðir Lífsins lo amalgamano con una varietà in estrema coesione che rasenta la perfezione; si potrebbe citare come esempio qualunque brano, ma la tragicità del quarto d’ora conclusivo mozza il fiato più di qualunque altro, consegnando l’estremo finale all’indescrivibile (non si tratta di cosa, quanto piuttosto di come…) ricchezza stilistica che si decolora di strazianti, lente pennellate Doom e dell’emotività sconvolgente che sua volta si dilata in una narrazione commovente nonostante (o forse così universale proprio per) il distacco gelido delle più immortali saghe nordiche.

Non vi è pertanto conclusione che possa rendere adeguato omaggio al lavoro svolto dagli Árstíðir Lífsins nel loro quarto album in studio, si parli dell’eleganza e finezza musicale o dell’aspetto concettuale e lirico che costituiscono la doppia anima di un viaggio tremendamente buio, attraverso il vuoto interiore di un abisso corvino e mortale, sotto un cielo plumbeo e senza più stelle ad illuminare la perdita di certezze, il tradimento di una vita intera e ciò che ne consegue; molte altre parole si sarebbero dovute spendere sull’abilità di trasporre elementi difficili anche solo da pensare in musica che sembra provenire da un’altra età e da questa abbeverarsi (la valenza apotropaica delle rímur – sopravvivenza nei momenti più estremi e privi di speranza tramite il canto mnemonico di saghe e antiche ballate); ma se comprensibile poteva essere riconoscere la difficoltà nel procedere poi di molto oltre gli altissimi livelli consegnati dal doppio album “Aldafǫðr Ok Munka Dróttinn” prima e dall’ultimo EP poi, inevitabile è altresì ripensarci su tutta la linea all’ascolto del nuovo viaggio intrapreso dagli Árstíðir Lífsins: mai avvicinatisi così tanto alla perfezione come in “Vápn Ok Viðr”, con cui dimostrano di essere artisti eccezionali e consegnano un astro di luce accecante nel firmamento della musica estrema.

Matteo “Theo” Damiani

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