Thyrfing – “Vanagandr” (2021)

Artist: Thyrfing
Title: Vanagandr
Label: Despotz Records
Year: 2021
Genre: Viking/Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Döp Dem I Eld”
2. “Undergångens Länkar”
3. “Rötter”
4. “Fredlös”
5. “Järnhand”
6. “Håg Och Minne”
7. “Träldomsord”
8. “Jordafärd”

Molti sono gli uomini nel Valhalla, e molti altri arriveranno prima come dopo la fine dei tempi. Eppure, qualunque possa essere il loro numero e valore, si dimostreranno sempre troppo pochi nel momento in cui la terribile creatura dalle sembianze di lupo e dagli occhi d’Inferno, dalle fauci d’acciaio e dall’alito di pece, farà la sua apparizione dalle profondità in cui era stata esiliata: Vánagandr, Fenris, fratello di Hel dell’altro mondo di sotto e della serpe Jormungandr che è invece padrona della vita e della morte nelle acque del Midgard, padre di Sköll ed Hati nemici giurati degli astri Sól e Máni, il più terribile figlio nato dalla genia dell’incontro nefasto di Loki ed Angrboða – colui che, predetto e previsto quale l’assassino consumatore dell’antenato padre numinoso degli Asi e di ogni divinità norrena, è nato nello Jötunheimr e cresciuto nel lontano Est della foresta di Járnviðr in una covata di ladri di Luna in pelli di troll. Fenrir: principe nero del Ragnarök, che viene da solo ma lascia il palco da protagonista e come fosse una legione di mille soldati armati fino ai denti, emblema di come uccidono gli dèi; e di come gli dèi vengono uccisi.

Il logo della band

Ma quel Vánagandr, Fenrisúlfr, colui che è stato per secoli celato e l’unico sopravvissuto portato ad Ásgarðr nella sua progenie nonché imprigionato per via di una profezia di disgrazia infinita che le divinità temevano troppo -ben più della natura malevola di madre e padre messi insieme- ma non abbastanza per poter provare ad invertire il corso di eventi immutabili, è anche qualcosa di più: è la manifestazione prima ed ultima di una profonda relatività morale, di un’ambivalenza e dell’assoluta compenetrabilità di bene e male; la dimostrazione per assurdo che le forze più grandi ed intoccabili dei primi -degli dèi a protezione della stirpe umana perfino- possono agevolmente spostarsi dalla parte della menzogna e dell’iniquo, dell’omicidio e della disonestà più tristi. Proprio quel Týr, dio della guerra ma soprattutto della giustizia e della verità, mentirà in un misto di coraggio e spregiudicatezza di fronte al lupo sacrificando la sua mano destra ed il suo onore nel tentativo di salvare il mondo, in una concatenazione di avvenimenti che porteranno dritti e beffardi alla fine di tutto ed al principio di ogni cosa; la sua, quella della belva omicida di Odino a propria volta materialmente esiliata da Víðarr, è una storia di forza senza alcuna accezione etica ma anche di profondo dolore e tradimento malcelati dagli intenti cronistici di coloro che l’hanno -fino ad oggi- narrata nei secoli, nonché dalla grandezza tale che tutti e tutto ciò che esiste nel creato vi è correlato. Anche una spada maledetta, creata dal dito della mano destra di quello stesso dio della battaglia che l’ha persa come pegno della promessa non mantenuta, e che cade presto, nell’atemporalità propria solo della leggenda, in quelle insanguinate del re dei goti per darne più tardi epiteto presso i romani: Tervingi, Tyrfing – Thyrfing, dell’Hervararkviða, di Oddr e di Hervör, il fendente sciagurato dagli incantesimi di fabbri nanici che mai e poi mai avrebbe potuto mancare un corpo, mai si sarebbe spezzato e mai deteriorato. Che mai, nemmeno in otto dischi, altrettanti anni, nella defezione apparentemente insormontabile di Peter Löf ed oltre il doppio delle ere, avrebbe conosciuto ruggine o sporco sul suo oro nobilissimo che evolve vivo come fuoco e rifulge accecante e gemmeo come platino – e che avrebbe mozzato altresì le montagne, gli scogli, le rocce, gli imprevisti, le stagioni ed il ferro stesso come Leyding, Dromi e Gleipnir, quei tre prototipi di catene come tre sono i grandi mali che portano, come il palato del lupo che con la sua saliva mista a sangue in un ululato orribile genererà il fiume della speranza. Ma soprattutto, una spada che avrebbe ucciso ogni volta che sarebbe stata e verrà impugnata ancora.

La band

Così, dal “De Ödeslösa” la cui title-track e chiusura apre dritta i cancelli per l’Helheim e fa più di qualunque altro esempio compositivo della legione di Stoccolma da ponte per la materializzazione di “Vanagandr” con il suo mutamorfismo cinematografico ora sfruttato al massimo delle possibilità (e questo fin dal battesimo di scure e fiamma che è un risveglio dal sonno oltretombale e che sa di un’invincibilità oltre la morte in “Döp Dem I Eld”), si apre un oceano intero di sensazioni trasportanti in ogni canzone con l’eleganza ed il tocco del violinista esperto, le quali godono loro volta tuttavia d’identità e carattere fortemente e peculiarmente propri, ognuna rispetto ad ogni altra. Qualcosa di parimenti vero partendo dal cuore della splendida ed altrettanto mutevole “Undergångens Länkar” (l’inizio di una ribellione spirituale dall’incipit che, in un solo e semplice arpeggio, contiene tutta l’indicibile tensione malinconica di un intero crepuscolo degli dèi), battente spietata come il martello del tuono nel profondo groove d’autore di ogni mid-tempo marchiato Thyrfing, come finendo con le imprevedibili stranezze d’arrangiamento e d’inquietante eclettismo esecutivo (siano le sovrastrutture vocali, corali o melodiche, quelle ritmiche o d’archi) di una “Rötter”, con il suo peso frantumante ossa ed ammaliante l’anima mediante sospirati canti di follia, che strega ed imprigiona anticipando afflato cinematografico ed ambizione avvolgente totalmente inediti: le tastiere, soprannaturali, misteriose, sinfoniche, folkloristiche ed incantate al pari diventano un nuovo modo per avvinghiare l’ascoltatore come i sei mitologici ingredienti usati per la terza e più indistruttibile delle catene che fermeranno temporaneamente Fenrir nella sua attesa millenaria. Ogni calcificazione, rimanenza vertebrale e radice d’albero dei mondi viene poi polverizzata e disciolta in visioni apocalittiche con l’agilità di colui che divora corpi e vita in una pioggia senza fine di acciaio che cola cromato nella fonderia sacra del più bruciante e amaro dei Viking Metal, di riff più solidi del titanio, delle complesse bordate di un dirompente Black Metal che parte dalla omonima traccia nell’album del 2013 per arrivare a “Träldomsord”, ad “Håg Och Minne” o “Järnhand” e all’opener – tutte fatte di bronzo e argento, del cremisi di sangue e fuoco con cui plasmare il feeling degli assoli ed il modo in cui questi o le concretizzazzioni più estreme si posizionano eloquenti e parlanti sempre al vertice di un climax narrativo e lirico. Si prenda come esempio quello di chitarra del già citato gioiello “Undergångens Länkar”, o per lo stesso motivo il Folk sgraziato di “Rötter” nei suoi riff gitani (non meno irresistibili negli slanci verso la memorabilità più smaccata nei refrain di “Fredlös”) e negli archi e fiati delicati come velluto che si scontrano con i balzi di un Black Metal combustibile nella nuovissima, ricercata e teatrale “Håg Och Minne” – le esplosioni ritmiche diventano precisissimi denti predatori in carne incendiaria con la potenza della tempesta sotto di sé, dirompenti dalla terra e verso le profondità di ricordi e mente.
E proprio nell’istante di una carriera in cui maturare ulteriormente significherebbe marcire, i Thyrfing si spostano e accelerano con freschezza paradossale, reinventandosi in più punti: nell’estrema dinamicità tra parti nelle canzoni e tra le canzoni, fra ritmi e nei modi in cui questi confluiscono l’uno nell’altro, nel clangore urticante del suono dei gain nelle chitarre che si slegano e ritrovano in danze dalla frenesia ora battagliera – ora in assonanze rotonde in dispersioni di dettagli cromatici che spargono ceneri in un vento d’incendio su ali di corvo (la completissima “Järnhand”, in cui risuonano trombe sullo spumare dei blast-beat da sogno), ora invece dal tono massiccio come l’imperscrutabilità di fondo in steli e rocce incise (“Fredlös”), immobili a sacrificio eterno sulla sponda di un lago sulle cui acque il cui gemello cielo si specchia grigio. Questa consumante oscurità totale già di “Farsotstider”, forse per primo, si ricolora infine di arcaica e singolare magia nera norrena negli arpeggi della sezione più centrale di “Rötter” e soprattutto nei dettagli orchestrali e fiabeschi della spietata “Träldomsord”: episodio tra i più intensi mai vergati dalla band che, con la freddezza di un inverno eterno cantato dalle urla e zannate sopraffine di un Rydén mattatore sbalorditivo come non mai in ferocia (in una splendida calata di parti nel concept lirico dell’album rispetto alle tonalità più disturbanti, aspirate e strozzate usate in “Hels Vite” e soprattutto nel penultimo disco di otto anni fa, con eccezione del ritornello della omnicomprensiva “Undergångens Länkar”), è un ultimo passaggio obbligato e di travolgente splendore prima della conclusione in distensione dai tratti Doom regalata alle fattezze arcane che si sprigionano, come volessero dipingere un rito attorno al falò di voci che rimbalzano da una parte all’altra della caverna dell’umanità, da percussioni, violoncelli e un assolo dal sentimento e calore incontenibili nel cuore della discesa inesorabile verso il regno invece di gelo e nero che è “Jordafärd”; dove il mondo intero finisce risucchiato in un vortice di pece emotiva, meditabonda, lunatica, che ingoia ogni forma di luce in una produzione magistrale e nell’inaspettata voce operistica di Natalie Hernborg.

Oscuro e drammatico ma conciso senza tagli, e con un livello di densità, di aggressione ed intensità maggiori di sempre nella performance singola come complessiva di ogni musicista oggi coinvolto in quel percorso di ricerca verso un risultato più grande e senza tempo, che vada ovverosia ben oltre i confini dei suoi membri (e non è del resto un caso che il profilo di questi sia costantemente tanto basso, sinceramente anonimo ed asservito alla musica), “Vanagandr” non solo è (cosa che, francamente, l’autore del presente scritto ammette senza alcuna reticenza) un disco superbo per la sua completezza, la sua raffinatezza, lo strabiliante bilanciamento tra diversità e compattezza, la ricchezza sia d’idee che di dettagli; ma uno tremendamente intriso di poesia, dell’enormità di arrangiamenti ultraterreni (dalle mere narrazioni e in tutto il suo filo logico, volendo finire con l’utilizzo mai tanto integrato del fedele clean-vocalist Toni Kocmut) al servizio di un songwriting più che impeccabile, di una visione continuamente sporcata di vitalità. Di una riflessione, se si vuole, di un punto di vista -mitologico, magico ma anche dolorosamente pratico- di esseri umani che si sentono intrappolati fino all’inevitabile momento in cui è troppo tardi per cambiare qualcosa in vita.
Che si tratti realmente di questo o invece dell’arenarsi, dello stallo, della stasi più in generale, o ancora della ribellione alla morte e alla sconfitta nonostante la ciclicità del tempo e l’ineluttabilità, poco importa: con un tale grado d’introspezione e personalità nel leggere una storia eterna -vecchia sì come il mondo stesso, ma dalle potenzialità giovani come quelle dello sguardo di un neonato- se ne crea una nuova e per troppi versi totalmente differente. Un’esperienza che riesce a parlare diretta all’ascoltatore del suo punto di vista e a farlo su più livelli, uno dei quali resta tuttavia granitico: solo dopo che Hati avrà ingoiato la Luna impallidita e Sköll il Sole diventato nero, ogni stella scomparirà in un singolo baleno dal recipiente del cielo – tutta la terra tremerà terremotata e scossa con violenza imponderabile, ogni albero verrà rovesciato e sradicato, qualunque montagna cadrà sui suoi stessi pendii, e tutte le catene terza inclusa rovineranno a terra come spaghi usurati dalle maglie del tempo. Vánagandr libero, le sue fauci d’oscurità nuovamente spalancate a toccare il punto più alto nel cielo e le profondità della terra all’unisono, libere di chiudersi in una stretta mortale, e la spada estratta, rilucente e mortale più che mai. E da tutto questo, con il sangue rovente e colante da occhi e narici del figlio prediletto e più pericoloso di Loki al fianco, nonché la lama che da venticinque anni dona loro un nome adatto, premonitore e significativo come pochi altri al mondo salda nella mano destra, emergeranno nuovamente non guidati dal caos ma cavalcanti i venti della fine del mondo conosciuto, vittoriosi, soli ed impareggiati proprio i Thyrfing.

Matteo “Theo” Damiani

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