Taake – “Et Hav Av Avstand” (2023)

Artist: Taake
Title: Et Hav Av Avstand
Label: Dark Essence Records
Year: 2023
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Denne Forblaaste Ruin Av En Bro”
2. “Utarmede Gruver”
3. “Gid Sprakk Vi”
4. “Et Uhyre Av En Kniv”

Lengsel, den giftigste kalde gud i menneskeskrid…

Il più velenoso e freddo dio nella storia dell’uomo è forse il desiderio: la brama, l’ardore, la voglia. Non necessariamente un capriccio avido di sensualità, ma una mancanza tanto nella presenza quanto nell’assenza. La necessità stessa di desiderare in absentia praesentia, di avere qualcosa di sempre incompiuto, di ancora lacunoso a cui ambire, verso cui tendere per poter provare quella completezza paradigmatica negataci in principio: tendere in ogni momento, ovverosia, a qualcosa da amare. E l’amore cosa diviene, se non la traduzione in cinque perfette lettere di quel punto di sutura alla irrimediabile separazione con l’altro, con l’opposto e con il differente; con il simile e con il dissimile, e in verità con tutto ciò che non faccia più parte del nostro finito e sensibile guscio d’uomini in quanto eternamente separato dall’origine di comunione che si è fatta troppo presto abbandono, rigetto materno di una congenita depressione post-partum. Condannati insomma alla caduta frigida, disperata verso la vita: dall’Eden dell’amore incondizionato dalla medesima carne al giardino terreno dei più deliziosi dolori. Cos’è dunque quel desiderio struggente, continuo, avvelenante di amore se non l’immancabile ricerca esistenziale di un nuovo porto sicuro in cui spegnersi e abbandonare le difese pre-vita; di un abbraccio caldo in quel freddo mare di distanza, di incuranza e distacco, nell’intero oceano senza attracco dell’esistenza che separa dal punto che precede la partenza di tutto?

Il logo della band

Come miniere esaurite, questo amore lascia tuttavia nella sua tela di rapporti. Giacimenti scavati così a fondo e così a lungo da esser divenuti nient’altro che roccia arida: senza più minerale prezioso tra le vene, senza più linfa nobile all’interno del proprio duro scheletro privo di vita come di valore residuo per il consumante arrivista. Ancora una volta, senza che vi sia possibilità di rendersene conto, quella ricerca di presenza e completezza, di ricongiunzione con l’alterità che fu unità, ha generato una mancanza – un deficit, una ulteriore mutilazione e -se vogliamo- ha riempito quella scatola di vuoto con dell’altra insufficienza lasciando come unico tangibile regalo gli esiti e l’aspetto di una rovina umana. Un corpo lacero, appeso ed esposto alle intemperie, all’aria che ossida, che corrode mentre il vento tira violento e gelido.
Perché l’uomo non è in fondo dissimile da un ponte su quel mare di lontananza, sembra dirci un Hoest alle prese con il suo ottavo full-length: come un pontile proteso verso l’orizzonte, sì – un ponte che solo esistendo e nell’atto di essere collega sempre qualcosa a qualcos’altro, facendosi tramite tra due alterità, ma che pare proprio per questo condannato fin dalla nascita a disfarsi perché vulnerabile ad ogni perturbazione, esposto al tempo, monumento di sacrificio costante della propria felicità sull’altare del contatto altrui. Vi è un’unica alternativa, ma un non diverso sacrificio nel mezzo della propria fuga: camminare in direzione opposta così a lungo da affogare o ricevere come premio il mero isolamento dal resto di quegli esseri mostruosi, aventi la capacità di tagliare l’altro come un coltello più affilato della neve; più duro dell’acciaio – ma che si spezzerà a sua volta nell’infliggere dolore e sofferenza ad un altro corpo come il suo. Infliggere quel dolore porta infatti sempre con sé un rovescio, come fosse una maledizione antica a doppio taglio insita nel rigetto del proprio pari, del proprio simile – e con ciò di ogni possibile e autentica scoperta. L’anima ne rimane decostruita, e l’operato dei Taake ridotti anche filosoficamente alla forma di one-man band ne sono del resto un esempio nell’operato ormai trentennale del suo stesso beniamino e folkefiende all’unisono, dilaniato fra catarsi e punizione, e con il cuore avvolto in mano in “Et Hav Av Avstand” tra il polo del re invernale della frenesia di morte -il doedsjarl che ben conosciamo- e la divinità della fame e dell’anelito di amore che tutto consuma, che brucia e lascia cenere e mosche.

Hoest

Tra i movimenti d’umore ambivalentemente autunnale di “Et Hav Av Avstand” si legge infatti, come suggerito su piccoli bigliettini anneriti dalla fuliggine ma che ancora odorano della nostra infanzia, di un dolore difficile da spiegare – difficile da afferrare perché aleggiante, impalpabile e sempre attorno indistintamente, ma impossibile da non sentire ovunque sia, d’ovunque provenga. Un dolore francamente più grande, più esposto, meno sotterraneo e più grondante sangue di quello mai distillato in qualunque altro disco marchiato Taake, laddove la vena malinconica -nei migliori casi- emergeva piuttosto all’interno del singolo brano o in una coppia particolarmente dedicata alla sfumatura di emozione fattasi coerentemente suono. In ognuno dei quattro grossi pezzi che lo compongono (per la primissima volta non sette: una prima cesura nella regola, un trauma se vogliamo), il nuovo album pensato dalla mente di Ørjan Stedjeberg si esprime e manifesta invece al suo assoluto meglio proprio quando si fa canale di un male interiore sincerissimo, profondo e avvilente come lo scoppio di singhiozzi e pianto che, indistintamente campionato verso la fine del rollercoaster “Denne Forblaaste Ruin Av En Bro”, lascia allibiti e fornisce una prima, esplicita chiave di lettura del fortissimo apparato emozionale che il disco predispone per l’ascoltatore orchestrando alla solita, complessa maniera del progetto norvegese il fluire delle sensazioni che accompagneranno. Non è infatti un caso nella maniera più assoluta che “Et Hav Av Avstand” sia il lavoro in cui i Taake riprendono a fare sul serio in particolare con una tensione melodica di rara ispirazione nonché di davvero squisita fattura: anche in brani mai prima altrettanto lunghi (“Et Uhyre Av En Kniv”) o semplicemente estremamente ricchi, compositivamente curati e complessi (“Gid Sprakk Vi” – se si pensiamo ai cambi di tempo, soluzioni, riff come sempre raramente ripetuti, qualora ripetuti affatto), quel che va a legarsi indissolubilmente all’esperienza di chi lo ascolta è il potere di melodie anelanti che si prendono la scena di peso come non lo facevano da “Noregs Vaapen” (non dissimilmente a “Nordbundet”), scavate grazie all’esperienza di suono altero, algido, rupestre di “Stridens Hus” – una dichiarazione di guerra alla vuotezza delle relazioni umane che sembrano non avere nulla a che fare con quell’amore; al circostante, nel recupero di una profondità di senso da cercarsi nel suono ancor più cavo, medio, ma nelle intenzioni ricolme, ossimoricamente zeppe di materiale in pochi minuti e brevissime sezioni: tanto ricolmo di inventiva -da dissonanze e let-ring quasi voivodiani in velocità funamboliche, ad una strabiliante ricchezza tonale sprigionata sulle distanze tra contrappesi ritmici- quanto di scabra atmosfera e di un nuovo magnetismo freddissimo.
Fatta infatti solo parziale eccezione per l’inedito ipnotismo austero del pezzo conclusivo (reminiscente di esperimenti come “Dei Vil Alltid Klaga Og Kyta” od “Hordalands Doedskvad VII”, ma nemmeno troppo), la complessità di episodi come “Utarmede Gruver” o l’opener è cosa inaudita persino per le inquietudini defibrillanti e schizoidi di strutture a strapiombo del rinomato musicista di Bergen (completamente da solo alle prese con le registrazioni di ogni strumento tra il 2022 e il 2023 – di nuovo, sicuramente non un caso considerato il tenore sensibilmente intimo del disco), soprattutto se si considerano come tentativo esperienziale le tutto tranne che convincenti virate coreograficamente progressive di “Kong Vinter”. Queste ultime ritrovano infatti il dinamismo e il contrasto che sembrava abbandonato in ogni lavoro che non fosse uno dei primi tre dischi o -in maniera nettamente minore- “Noregs Vaapen” – e proprio nella sua eremitica, eretica anima fieramente lo-fi, decadentemente focosa e nondimeno bruciantemente melanconica, “Et Hav Av Avstand” si posiziona quale fratello più simile a un “…Doedskvad” o “…Bjoergvin…” (non da ultimo per degli accenti folkloristici più accentuati del normale), cuore di cenere con lo spirito anarchico di “Stridens Hus” e una non totalmente dimentica passione per gli slanci Rock ‘N’ Roll del celebrato e già citato quinto album del progetto, qui dosati come spezie pregiate.
Proprio il suono riesce intuitivamente dove le parole dell’inconfondibile voce rauca del nostro cantore principe del ville, ville Vestland non potrebbero mai: ancora una volta a cura del Bjørnar Erevik Nilsen (Vulture Industries) già produttore del non solo “Stridens Hus”, degli ultimi Galar e soprattutto fedele alleato degli Helheim, unico attore dietro al successo di sound del “Woduridar” con cui così tante analogie significative potrebbero essere tracciate nell’ingegneria conclusiva di suono poi nuovamente rivestita dalle abili mani del sarto ex-Enslaved Herbrand Larsen. Così cruciale nella stesura del messaggio e nella sua veicolazione, in tutta quella sua caparbia, resistente vuotezza, in quello spaesamento rasoiante che ricorda le fattezze di un turbamento, che coloro i quali troverebbero forse più adatto un altro suono per l’album sembra, a conti ed ascolti ben fatti, non ne abbiano presumibilmente carpita l’essenza e compreso il messaggio: la direzione da cui prendono le mosse i suoi mille artigli, tutte quelle che vanno ad esplorare e soprattutto il vuoto che il suo autore sente nel petto.

Si fa del resto da sempre un gran dire di come spesso e volentieri, già in passato, artisti altresì molto istrionici, teatrali e lontani dall’essere dei normali musicisti in blue-jeans sul palco abbiano ad un certo punto del proprio percorso svestito gli iconici panni di scena regalando, in un modo o nell’altro, uno sguardo più o meno candido sull’uomo che vi sta sotto dal principio – o quello in cui, ad ogni modo, alcuni brandelli di stage-persona possono essere rimasti impigliati, e viceversa. Per molti versi questo è vero anche per “Et Hav Av Avstand” e per Hoest, qui più Ørjan, che scrive di suo pugno e con la sua calligrafia i testi all’interno del booklet su brandelli di carta bruciata; che si copre il volto senza trucco nel cuore del disco puntando sull’esterno un occhio quasi spaventato e in ogni caso completamente umano – senza cripticismo, senza rune, senza misteri e senza giri di parole che non siano una eccellente scrittura poetica capace di toccare sia qualora venga gustata in lettura o ascoltata ad occhi chiusi.
Volendo e reputando pertanto adatto parafrasare in conclusione le parole stesse nascoste dentro ad un disco che, v’è da giurarci, non solo mostra dei Taake molto più differenti di quanto non possa sembrare al primo ascolto ma che è molto più personale e sentito che in altri casi, non resta che attraversare la grande bufera di miele, di detriti, nettare e morte che nevica, abbaia, sanguina ore di cammino a ritroso ponderando sulla prosaicità di un’esistenza in cui nessuno sale realmente al trono e tutti perdono molto più di quello che vincono: nello scenario di un oceano asciutto e congelato, in cui tuttavia si affonda come in un pantano perché, fatta eccezione che nella morte, non sembra esistere ritorno o rimedio fisico all’ingresso in questo mare che chiamiamo vita, una volta passati attraverso il foro nel muro; attraverso la breccia nello specchio, attraverso la separazione biblica di carne che verrà restituita a partire dalla costola simbiotica, gettati nelle prime ore del mattino e con un tempo da cani sul pelo infrangibile di quel mare che ustiona come fiamme, ma che è impietoso come solo sa essere il mare ghiacciato nel profondo inverno del Nord.

Avfattet på gravkammerset – på fjellsiden
i de tidligste morgentimer […]
om et flammehav mimrende og med et ishav kallende…

Matteo “Theo” Damiani

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