Helheim – “Woduridar” (2021)

Artist: Helheim
Title: Woduridar
Label: Dark Essence Records
Year: 2021
Genre: Viking/Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Vilje Av Stål”
2. “Forrang For Fiende”
3. “Woduridar”
4. “Åndsfilosofen”
5. “Ni S Solu Sot”
6. “Litil Vis Maðr”
7. “Tankesmed”
8. “Det Kommer I Bølger”

La sovrannaturale e spaventosa caccia selvaggia, lo spirito di quel che fu e che torna nel presente come non l’avesse mai veramente lasciato né mai avesse smesso di tormentarlo con i suoi graffianti ed autunnali artigli di brace, condotta da una figura dalle molte forme, dai molti nomi e dai significati diversi di narrazione in narrazione, dai molti volti e dalle ancor più numerose e singolari storie. Sulla sua testa una corona di origine divina, sul suo volto celato dall’oscurità misteriosa un solo occhio visibile nell’assenza, sotto di sé la sua immancabile cavalcatura grigia che tanto rassomiglia una silhouette equina fin troppo familiare allo sguardo umano, benché provvista di otto ferrate zampe invece che quattro – e colui il quale nella notte, tra le fronde ingiallite ed imbrunite divenute color fuliggine al passaggio della ridda che adombra la luna, con le foglie sotto i piedi immobili secche come la morte e fredde come l’inverno, avesse la sventurata occasione di esserne sgomento testimone diretto ha ormai anche il destino marchiato da un presagio nefasto: essere spettatore del male a cui non è possibile dare nome, il prossimo in fila a dover essere scortato verso quella valle delle ombre o di luce che è il regno dei morti in qualunque tradizione europea centro-nordica comparabile; dalla Norvegia alla Svizzera, dalle terre dei germani a quelle celtiche del nord Italia e di Francia, oltre monti impervi e vallate brulle che non possono fermare l’avanzata di una tale corsa.

Il logo della band

Che siano dunque, com’è del resto verosimile che sia, non diversamente a un astro che acceca nell’alto del cielo norreno guidati dalla figura di Odino o da quella del Diavolo in persona (dall’åsgårdsrei o vilda jakten alla wodujagd, dalla wild hunt alla caccia morta o chasse gayère, questa baraonda fantastica ha in fondo tanti nomi e forme -e comandanti stessi!- quante sono le cittadine esistenti nell’universo), gli Helheim dell’eterna battuta d’esplorazione invasata dall’ebbrezza d’origine trascendente che risiede nel creare musica la quale puntualmente passa la prova del fuoco, da bronzo ad oro per coppellazione, continuano a non averne assolutamente abbastanza; ad avere sempre nuovi ed imprevedibili obiettivi, sinceri studiosi ed appassionati difensori quali sono da una vita e per la vita di un retaggio mitologico ed etnografico che va ben oltre la superstizione in direzione dell’ancestrale e del filosofico. Questa infinita ricerca per le origini, per le radici profonde del proprio folklore, si traduce esteriormente oggi ancor più di ieri in arcaismi linguistici dal gusto e dal suono più che nazional-romantico ancora pre-moderno, paleolitico; di un’identità sì forte ma dai confini nordici e proto-scandinavi privi di qualunque trono o monarca, decisamente spirituali, di musicisti còlti a tutto tondo che nella lettura di rune e profezie tramandatevi trovano come scaldi le chiavi di un’ispirazione testuale a guidare la ventura musica da scrivere, la quale -nel caso di una band che si fa onorevolmente medium di un qualcosa più alto che parla con, per ed anche nel tramite di sé come un veicolo di cui si è sia conducenti che passeggeri- risulta evidentemente sempre un passo avanti alle intenzioni razionali dei suoi stessi autori.
E in questo senso il metereologico “Rignir”, con la sua boreale psichedelia Dark e le sue nuove aperture eteree nettamente più soft rispetto all’operato del gruppo fino a due anni fa, ha avuto veramente il merito di concludere in sé un troncone di ricerca, ovvero la trilogia di sensazioni iniziata con quel diversissimo “Raunijar” che, oltre ad essere stato fino ad oggi l’ultimo capitolo veramente interessante nel percorso comunque sempre ricercato, valoroso e in evoluzione degli Helheim, è insieme al suo immediato predecessore anche la matrice compositiva, l’argilla morbida ed eclettica da cui ripartire verso le nuove strade aperte e ritrovate in “Woduridar”; verso la caccia selvaggia che riprende il coraggio delle varie differenze progressive da ritrovarsi ad inizio millennio in “Yersinia Pestis” come in “Kaoskult” e le mescola irriconoscibili ad un nerbo, una efferatezza che, fin troppo diluita nel nero “Landawarijar”, guarda all’atemporalità immortale del capolavoro “Jormundgand” e all’eleganza di un “Av Norrøn Ætt” senza macchiarsi del reato osceno della replica ad oltre venti anni di distanza per via di un’ammaliante serie d’inferenze ed influenze squisitamente interne e stratigrafiche, che corrono e ricorrono dialogiche a sorpresa, e di cui l’interezza della musica del nuovo ingresso nel bunker del quartetto è puntualmente innervata con lo spirito, guida e mistero, dell’eterno ritorno.

La band

Notturno quando estremo e rude, puro ed ammaliante come un’aurora quando graziato da un’emotività inedita e pazzesca (quasi agrodolce in “Forrang For Fiende”, in cui vi è l’epos tragico ma distaccato proprio della fine di un’era, e nel finale a ripetizione straziante nelle evoluzioni incastonate nel crescendo del brano che in maniera più che adatta battezza l’album), l’intero “Woduridar” trova nell’incantatrice diversità spesso anche erculea dei suoi capitoli un saldissimo filo logico e sistematicamente stilistico, di suono e weltanschauung al pari; una salda omogeneità che fa confluire coi più giusti tagli un brano direttamente nell’altro senza fratture, in modo che l’avanzamento nelle intimità del disco (e la comprensione delle sottilissime novità in una scrittura tanto scarna quanto grandiosa, dove l’innovazione può nascere e sgorgare in un qualunque punto senza che assurga necessariamente funzione apicale o zenitale della forma-canzone) avvenga tramite avamposti talvolta anche difficili da superare ad un primo approccio. Così il tono sporchissimo e frastagliato, grattato, preistorico per ferocia, corrosivo, aperto e tagliente nella sua secchezza, lotta ferreo come in un nodo norreno fatto di teste dagli occhi vuoti e dalla foggia inespressiva con l’irrealtà totale trasmessa dalle aperture pulite, sia quando vocali che quando chitarristiche, tanto nel turbinare selvaggio e furentemente Black Metal di “Vilje Av Stål” quanto nel Rock quasi desertico, magniloquente ed annerito di “Ni S Solu Sot” con tanto di twist finale da veri prestigiatori rapsodici. E non solo per le erosioni convulse e strettissime di un’opener che incontra i Movimento D’Avanguardia Ermetico sulle zone alte e più sfrigolanti, caustiche delle sei-corde che diventano iscrizioni magiche nella vicinanza a Burzum di “Fallen” (si pensi all’ipnoticità apotropaica di ghiaccio nelle non sole ma più evidenti invocazioni della title-track “Woduridar”), risulta pertanto difficile se non impossibile separare le prime tre tracce fino all’oscurità magica e penetrante delle varie “Litil Vis Maðr” (verosimilmente arrembante quanto la compagine non era da dieci anni buoni, anche e non di meno quando si abbandona alle sognanti ed oniriche aperture delle importantissime clean vocals), della nerissima bolgia spumante lo-fi memore del debut anno 1995 di cui è imbevuta l’apertura dell’album, o della coraggiosa ineluttabilità triste, epica e trascinante di “Tankesmed” e soprattutto del flavour atipico nella sensazionale “Åndsfilosofen”: qui non diversamente che altrove, sebbene in particolare, la band scrive un brano da brividi sia in incipit che evoluzioni dove, per un solo ma sorprendente attimo ripetuto due volte nel cuore della canzone, finisce in territori quasi-Gaze à la My Bloody Valentine sporcati della pesantezza del Doom Metal prima di recuperare il sinfonismo tetro e maledetto di “To Mega Therion” con grancasse e tromboni già presi in prestito nel 2011 di “Sindighet” o “Stolthet” da “Heiðindómr Ok Mótgangr”, come nel 2015 della title-track in “Raunijar”. E quando quest’ultimo accorgimento viene replicato con un’ancora maggiore evidenza ed un approccio meno oscuro, come avviene nell’inizio poi abrasivo della successiva e decisamente più polverosa “Ni S Solu Sot”, non diventa nemmeno il motivo per privare il pezzo delle sue immense dilatazioni e vastità centrali. Ma mentre il cielo brucia tra queste e tra le fiamme della fine del giorno, l’ultima dimessa cavalcata all’imbrunire da cui è impossibile tornare indietro per il cacciatore mitologico dopo l’attesa sottilmente filmica creata è incanalata nella forza visiva e cinematografica di un flauto distante, di un’alba attesa come il giudizio divino dal solitario in un’atmosfera impalpabile, anelante, carica di elettricità, quasi alata: nell’inizio di “Det Kommer I Bølger”, durante la cui crescita spasmodica ed irreparabile V’gandr, H’grimnir, Hrymr e Noralf salpano con la grazia del vento e la forza del tuono totalmente liberi e senza più alcuna fissità di una meta predefinita, ma con il cuore pieno di sincerità ed impressionismo uditivo verso le grandezze di una sensibilità compositiva rara, suadente, avvolgente con quei cori che provengono da un’altra età -musicale e non- come le onde del mare del Nord che la band chiama casa.

Gli Helheim nell’anno 2021 si posizionano dunque là, schietti ed orgogliosi, ambiziosi ed umili, antichi e sperimentali, dove gli scenari progressivi e sospesi ormai più tipici della band incontrano al contempo una maggiore chiusura e sconfinate ampiezze fatte di una varietà completamente mancante nei precedenti capitoli discografici. “Woduridar” si candida infatti ad essere uno dei lavori più originali, unici, più ricchi di pathos e lentamente ma altrettanto decisamente stupefacenti dell’intera carriera della band; una sorpresa in sé, per il disco numero undici di un gruppo tanto seminale, stabile e longevo, e ricca a sua volta di motivi che ne rendono la scoperta tanto poco immediata quanto profondamente ammaliante ed inevitabile sul lungo percorso. Un approccio spudoratamente artistico che, invero, agli Helheim non è mai mancato e che tuttavia ad ormai un solo dito proteso dai trent’anni dalla formazione si dimostra più ferocemente a caccia del nuovo che mai mentre questa gioca con mille generi che perdono di confine metonimico restando tuttavia estremamente fedeli ad uno soltanto: Viking Metal altamente sofisticato, raffinato e adulto, di respiro amplissimo, che non cerca nella modernità la sua maturità bensì in una evoluzione che resta coriaceamente aliena al passare del tempo – e proprio per questo autentica, vera, attuale in eterno come la vita di un antico culto tramandato che prospera con coloro i quali hanno, tra errori e clamorose vittorie, la volontà d’acciaio necessaria a non tradirlo né tradirsi mai.

Matteo “Theo” Damiani

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