Sur Austru – “Obârșie” (2021)

Artist: Sur Austru
Title: Obârșie
Label: Avantgarde Music
Year: 2021
Genre: Atmospheric/Folk Doom Metal
Country: Transilvania

Tracklist:
1. “Cel Din Urmă”
2. “Taina”
3. “Codru Moma”
4. “Cant Adânc”
5. “Caloianul”
6. “Ucenicii Din Hârtop (Part I)”
7. “Ucenicii Din Hârtop (Part II)”

Sulla cima del monte uno sguardo saggio, millenario, fidato custode di quella cultura romena oscura e strettamente legata all’odore forte ed inebriante della sua terra umida, apparentemente immobile nel tempo tra umano e spirito quanto viva e sfaccettata oltre l’immaginabile in strambe luci ed inquietanti ombre per lo straniero curioso, scruta fisso il mondo sottostante senza l’arroganza del giudizio; non un profeta di sventura, non un sentenziente ipocrita – il sentimento dell’osservatore dallo sguardo solcato da rughe secolari mentre indaga quel che sta sul fondo del mondo è piuttosto quello d’attesa di un momento incompreso nel presente ma importante, un fotogramma color seppia fissato sul promontorio sconfinato e vissuto dall’anziana figura vestita di panni sgualciti, adorni di semplici ricami su tela grezza, variopinti e geometrici ma dal sapore antico, primordiale, con la imperscrutabilità ascetica e l’iperborea lontananza delle sue tradizioni, con la forza dell’originarietà ricordata in quelle stesse decorazioni criptiche sul suo corpo. Il grido di una terra morente in “Meteahna Timpurilor” ha sfortunatamente fallito nel farsi udire nella sua tragicità, e in “Obârșie” ci si rende conto che quello stesso mondo ha fine sul risuonar distante di tulnic: il cervo rimasto senza casa in un cimitero di ceppi ingrigiti a cielo aperto è morto, la sua eredità non più di un teschio sporco e pieno di terriccio, per mano di un uomo sopravvissutogli e di cui il narratore prossimo al finire della sua vita centenaria non si sente assolutamente parente.

Il logo della band

Di acque sotto il ponte tra la morte di Gabriel Mafa e l’uscita del secondo album in studio dei conti di Arad ne sono del resto passate a fiotti e fiotti ancora, inarrestabili in quel fiume segreto celato sotto a fronde vetuste, al sicuro e lontano dall’inno alla deforestazione, che costeggia silenzioso il passo fedele di uno sciamano paziente e che tuttavia corre instancabile accanto allo spirito collettivo liquido dei sei (e in verità più) artisti che si avvicendano nascosti dietro al suggestivo nome del gruppo nonché attorno al nucleo guidato dalla cooperazione creativa di Tibor Kati e di Ovidiu Corodan con Mihai Florea e Sergiu Nădăban. Da quel momento di genesi e rinascita, la crescita dei Sur Austru ha fatto forse meno proseliti di quel che avrebbe meritato grazie alle qualità peculiari del suo debutto targato 2019 – ma i due anni di lavori udibilmente meticolosi dalla pubblicazione di “Meteahna Timpurilor” hanno nell’ombra dato la possibilità al compositore principale di creare un’ancora maggiore alchimia di lavoro con le versatilità strumentali di Ionut Cadariu (insieme a Kati responsabile anche delle riflessioni e cicatrici elettroniche non prive di ambientazioni Krautrock -e persino di un sinergico assolo di moog- che tanto spesso serpeggiano in mezzo all’orchestralità dai toni verde abete delle sezioni strumentali) e del vecchio compagno di canti tradizionali Petrică Ionuţescu per mostrare con più forza ancora le caratteristiche che rendono il gruppo, oggi più di ieri, una realtà ben oltre l’essere alternativa eventuale ai più grandi nomi di passato e presente della regione di provenienza, bensì una creatura suggestivamente unica nel suo genere.

Tibor Kati

L’abisso transilvano che tra invocazioni, tensioni e ripetizioni apotropaiche dall’andamento cerimonioso si apre sotto i piedi nudi dell’ascoltatore, accarezzati dal vento ed abbracciati dal tepore dell’humus umido, è innegabilmente più profondo di quello già piacevolmente interessante ma soltanto richiamato in “Meteahna Timpurilor”. Sicuro merito innanzitutto dell’ambiziosa ed estroversa esperienza di lavoro maturata con un’intera orchestra sinfonica locale organizzata in terra natia dal gruppo nel 2019, con il debutto uscito da poco più di un mese (altro indicatore del continuo movimento, dell’approccio di prova e sperimentazione del gruppo mutuato dal dipartito mentore), i nuovi brani si espandono, respirano e godono da subito di tutta una nuova energia compositiva grazie al risuonar di trombe, voci, ottoni ed archi: vibrante e cinematografica ma più inquietante di vari lumi del debutto mentre il gran lavoro di tastiere, di sintetizzatori e delle relative suggestioni Dark Ambient si fa più cupo, strisciante insieme ai sussurri e agli sporadici latrati strozzati, importante nella sinterizzazione atmosferica quando questi fuoriescono come vento dai crepacci di un monte di suono (in ciò sorprendentemente molto più simile ai Din Brad o agli stessi Negură Bunget del periodo “Om”, di cui la line-up dei Sur Austru non ha ironicamente fatto parte ma di cui viene qui portato avanti un discorso), sulle ali di una narrazione dai connotati universali pienamente trascendenti l’affascinante lingua naturale romena a favore di sensazioni ed immagini sicuramente subliminali, eppure tanto forti da permettere a chiunque di penetrarvi e vivere il sentimento parlante di cui sono intrisi i venticinque minuti che legano i primi due capitoli. Si prendano come esempio innanzitutto proprio i fiati nel loro comparto tanto ampio e multi ramificato, tra sentori antichi, popolari e classici, tra modernità e conservazione, veri artefici della magia di scrittura di una musica che scorre ed accompagna dopo annunci di morte tramite il soffio ipnotico ed inquietante dei trâmbiță, dei corni montani rituali, dei tulnic e del bucium: tutti gli strumenti (elettrici e non) convivono senza scontrarsi come fossero partecipanti attivi di una colonna sonora, fluidi come una cosa sola per intenzionalità ed impressioni. Ma anche quando la scrittura al posto di cullare trascina con imprevista violenza, come accade nell’accelerazione della fluida cavalcata “Cel Din Urmă” o nel finale di “Taina”, si resta profondamente immersi nelle acque e nella passionalità di un Doom luttuoso di scuola My Dying Bride (nel cui DNA ci sono tanto il Klaus Schulze più meditabondo -di “Timewind”, di “Irrlich” e forse “Moondawn”– quanto i Monumentum scevri di una certa grigia, coltivata apatia); non serva difatti solamente l’assolo chitarristico armonicamente doppio nell’opener precedente quello della sezione conclusiva a tradirne la propensione, bensì il cantato di Kati più forte e ricco che mai sui puliti che caratterizzano la totalità dei brani: un’aria di dolore per l’iniquo nel genere umano appropriatamente rivista tramite il linguaggio del Black Metal atmosfericamente più incline alla commistione delle stranezze folkloristiche. La squisita alchimia di chitarre, sintetizzatori ed etniche percussioni atipiche -dulcimer, ma soprattutto la toacă, il simandro romeno di tavole in pietra percosse con martello di legno tipiche della tradizione transilvana ancor più udibili nei suoni da richiamo monasteriale di “Caloianul”– è più che innegabile fin dal tema portante ed evoluzioni del secondo pezzo, forte di una parte centrale che è tra i momenti di più alto valore dell’album intero non da ultimo per il modo in cui si lega alla conclusione di invocazioni sciamaniche di uno spirito infine mostratosi in forme inquietantemente tecniche.
Lo stratagemma per sottolineare l’alienità del moderno nel paesaggio circostante è non per caso esercitato anche nel cuore centrale del disco, nuovamente nel finale di tranche aggrappato ai riff Melodic Death Metal dell’antico incantesimo romeno intitolato “Caloianul” dopo quella “Codru Moma” che distende invece con la dolcezza amara delle voci del vento e dei flauti di pan l’animo preparandolo all’ampiezza atmosferica dilatata di “Cant Adânc”, la quale al contrario impiega inizialmente lo stratagemma Selvans tipico di “Lupercalia” in cui tappeti di chitarre suonate ampie e sormontate dalle magniloquenti tastiere à la choir finiscono poi per rimontare sui ritmi tribali di percussioni e cimbali sospesi in mezzo al coro classico prima dell’allarmante rarefazione della seconda parte e del suo tripudio finale. Sinfonici sono del resto anche alcuni degli altri momenti di maggiore riuscita, in cui i toni prevalentemente bassi di archi (fatta eccezione per l’azzardo Progressive Rock dai motivi settantiani e barocchi non totalmente vinto dalla comunque quantomeno atipica prima parte della conclusiva suite “Ucenicii Din Hârtop”, fregiata in ogni caso di un inizio d’atmosfera ineccepibile), di trombe e tromboni donano un’aria apocalittica, sinistra, persino imprevedibile alla composizione: twist presenti nei crescendo spezzati della gitana, già citata e splendida “Caloianul” come nei cinque minuti finali di album in cui, dopo una distensione atta a cogliere l’ascoltatore impreparato con flauti, chimes e soundscape mutevoli, si sgombra il campo al picco di dramma intessuto durante tutta la durata dell’esperienza con l’eleganza di violini, di sporche diramazioni chitarristiche disposte a trama sotto le melodie ricreate dal comparto acustico e dalle peripezie della voce. In questo gioiello in particolare pià che forse altrove, si raggiunge finalmente tutta la finale consapevolezza di quanto, nel caso dell’evoluzione in corso dei Sur Austru, non sia la componente solitamente percepita più astratta e di corredo a fare da vuoto abbellimento ad un Black Metal che, peraltro, sfugge sempre all’essere realmente tale sia per stile effettivo che per sensazioni; è bensì vero il contrario, motivo per cui la musica cosiddetta estrema per stile resta piuttosto il motivo di nerbo, l’intelaiatura maggiormente solida e compatta se vogliamo a musica che, per quantità di interesse alieno alla sua componente, potrebbe benissimo anche farne a meno sebbene con risultati decisamente più impalpabili.

Da un lato estremamente cinematico, narrativo, aeriforme, curato e persino smaccatamente visuale per una faretra di suoni ampi e multiformi, e dall’altro anche più focalizzato e allo stesso tempo ricco, denso ed ambizioso del debutto, “Obârșie” è quindi fin dal primo ascolto un enorme passo in avanti che mostra chiara la visione di un collettivo che piuttosto di proseguire indefesso un percorso fatto di un’arte comunque rispettosa di un retaggio, anziché quindi aggiustarlo alle sue personali inclinazioni, lo fa deviare come fosse un nuovo alveo dello stesso fiume, con la forza altrimenti introvabile di acque limpide e fresche a battezzarne la nascita; e sebbene forse la sua potenza attuale, benché innegabilmente forte di operazioni coraggiosamente progressive, di brani ariosi ed allungati a dismisura come cornice di suite finalmente libere di suddividersi in parti senza strappi né contrasti tra stramberia folkloristica, pesantezza Doom e suggestioni evidentemente ‘70s prestati alla contemporaneità non sia ancora pari a quella del corso maestro da cui è nato (e le difficoltà compositive talvolta ancora presenti) o a quella dei parenti acquisiti nei Dordeduh, la novità e personalità apportatavi è grande almeno quanto la riconoscibilità e la sensazione di appartenenza e di tutela di un mondo: i Sur Austru in “Obârșie” non interpretano mai a modo loro un suono d’altri, non si limitano a ripercorrere con uno stile riconoscibile o meramente locale i solchi di un’atmosfera identificata che potrebbe però al bisogno anche essere un’altra, in base alla fugace predilezione dell’istante creativo, ma sentono e vivono il proprio nel profondo delle loro doti espressive com’è evidente che non potrebbero mai diversamente fare.

Matteo “Theo” Damiani

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