Solefald – “World Metal. Kosmopolis Sud” (2015)

Artist: Solefald
Title: World Metal. Kosmopolis Sud
Label: Indie Recordings
Year: 2015
Genre: Avantgarde Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “World Music With Black Edges”
2. “The Germanic Entity”
3. “Bububu Bad Beuys”
4. “Future Universal Histories”
5. “Le Soleil”
6. “2011, Or A Knight Of The Fail”
7. “String The Bow Of Sorrow”
8. “Oslo Melancholy”

“The Kosmopolis Crew have dressed for the tropics
Back to the late 90s with the fluorescent topics
They forgot “to yourself” in the device “stay true”
The Total Orchestra come howling back at you…”

Così si (auto)introduce il ritorno discografico del duo più stilisticamente coraggioso ed audace dell’intera terra norvegese.
A distanza di ben cinque lunghi anni da “Norrøn Livskunst” (l’arte del vivere norvegese), ultima creatura del duo formato dallo sturmgeist poetico di Cornelius Jakhelln e dal suo fido compare Lazare, giunge “World Metal. Kosmopolis Sud” (a dire il vero anticipato dal complementare EP dell’anno scorso “Norrønasongen. Kosmopolis Nord”), ennesima dimostrazione di imprevedibilità del norreno sole calante.

“The bad kids are getting old but [what] they played is not
Open the Black Metal Order
This is pain immortalized
The future is said to be many things but I predict it to be Transatlantic
Who is able to carry on through?
Who is able to stay courageous?”

logo
Il logo della band

Coraggiosi.
Coraggiosi, sì. L’audacia nella sperimentazione e nel non avere, né aver mai presentato, vincoli stilistici o concettuali è senz’altro il primo dei moltissimi vanti che i Solefald possono a ragion veduta attribuirsi.
Coloro che sono in grado di essere coraggiosi.
Ecco, ci sono ricascati: sono ricapitati in quel -a tratti- fastidioso voler stupire e colpire ad ogni costo, esagerando ed oltrepassando la sottile linea invalicabile che separa il genio della ridondanza come accadde in “Neonism” (Avantgarde Music, 1999).
No, nella maniera più assoluta no.
A distanza di venti anni esatti dal componimento di “Solefald”, la breve poesia dello stesso Cornelius (che, preannuncio, si trova tra l’altro nel vero e proprio pezzo conclusivo del disco) dalla quale prese il nome la band formatasi lo stesso anno, vede la luce l’ottavo full-length dei paladini dell’Avantgarde sempre-meno-Metal norvegese, ancora una volta appannaggio dell’ottima Indie Recordings.

La band

Fin dall’apertura del disco, affidata a “World Music With Black Edges” (manifesto ed autoproclama di ciò che rappresenta e vuole essere “Kosmopolis Sud”), capiamo che la band non si è adagiata sugli allori di una facile vincita a mani basse quale sarebbe stata la riproposizione (non, nel loro caso) scontata degli stilemi del precedente disco o della discograficamente poco lontana coppia che prendeva il nome di “Icelandic Journey”, costituita da “Red For Fire” e “Black For Death”. Certo, il trademark della band (e la classe che li contraddistingue da sempre) sono presenti per tutta la durata del platter: le soavi e quasi eteree partiture adagiate su clean-vocals del magico Lars sono ben presenti e distribuite, così come le sarcasticamente taglienti (intelligenti come non mai!) e profonde liriche del nostro Sturmgeist Cornelius indissolubilmente legate a doppio filo alle musiche.
Quello che stupisce è, ancora una volta, la presa di posizione dei Nostri nel voler confermare che le variegatissime sfaccettature musicali e stilemi che compongono l’intero “Kosmopolis Sud” non sono altro che barriere mentali, create dall’ascoltatore e (nel peggiore dei casi) dall’artista stesso.
Sono barriere mentali, ma non per questo la loro valicabilità è alla portata di chiunque.
Ed è qui che entrano in gioco la sfacciataggine e la supponenza (quasi arrogante) del duo, che traspare ben poco velata nell’autocelebrazione dell’opener-track di cui si accennava poco sopra.
La fantasia e l’estro del duo, in questo pezzo, sono a dir poco sorprendenti ed il titolo stesso è emblematico: musica dal mondo, venature Pop, Techno, musica tribale, folkloristica, free-Jazz dai tratti Fusion ed elettronica si fondono tra loro con semplicità e raffinatezza nei particolari, ma paradossalmente immediatezza di ascolto, fornendo il nucleo di ciò che verrà solo rivestito e sporcato dal Black Metal.
Un punto cruciale del disco è sicuramente l’ampio spazio riservato alla musica del Sud del mondo, in particolare tribale africana, l’occhio di riguardo per strumentazione (ad esempio le Congas presenti in più pezzi, di sostegno alla batteria ma anche in gustosi solismi) e partiture che cercano il più possibile di ricalcare lo spirito originale di tale musica, fondendola con quello che è lo stile personalissimo dei Solefald.
Particolare, a tal proposito, la laconica e velenosa frecciata ad una giovanile e famosa dichiarazione del ben noto batterista Hellhammer (Mayhem, Arcturus e molti altri) riguardante il fatto che il Black Metal fosse musica solamente per “bianchi”… Il nostro Cornelius, alla luce della loro nuova cosmopolita opera, giunge alla sarcastica conclusione: “There are no Blacks in Black Metal, the name must be an error…”.

Il testo del primo pezzo, oltre ad essere emblematico, fornisce la vera chiave di lettura di quello che è il nuovo disco dei Solefald che non può (e non deve) essere privato né separato dall’immancabile ed intelligente, folle ma geniale, parte lirica.
Segue “The Germanic Entity”, che conferma l’idea di fondo al concept (stilistico) con però non poche variazioni sul tema: più spazio all’elettronica, mai fine a sé stessa, e finanche uno stacco dubstep che farà storcere ben più di un naso non in linea con la sperimentazione del duo. Notevole anche la prima parte cantata da Cornelius in uno stile molto vicino alle metriche Rap.
Il connubio tra elettronica e Black Metal iniziato probabilmente (in ambito bensì diverso) dai finlandesi Beherit e fatto proprio da formazioni come i Mysticum, era già ritrovabile in quello che fu il pezzo presentato in anteprima al pubblico per questo disco: “Bububu Bad Beuys” offre spunti al limite del geniale ed è destinata a far discutere più di due appassionati del genere per la sua stravaganza (Black Metal, si spera non Avantgarde), inoltre vede la particolarità di un testo completamente incentrato sulla lettera “B”, posta come iniziale di ogni parola componente le strofe.
Altra particolarità del brano è che -lo scheletro compositivo- nasce da un’improvvisazione totale in un villaggio africano.
In “Future Universal Histories” troviamo la traccia più legata al metal in senso lato, condita però nella sua interezza dai cori di Lazare e dal parlato di Cornelius, con un Baard Kolstad alle pelli (guest su molte parti del disco, come anche altri componenti degli In Vain, quali Petter Hallaråker e Sindre Nedland) che esegue partiture batteristiche varie e talentuose come sua abitudine, e in questa occasione l’elettronica che permea il disco è lasciata da parte. La ritroviamo però riaffiorare questa volta come contorno nella successiva “Le Soleil”, canzone dal sapore poetico contrastata dalle partiture e stilemi Black Metal, che vede il suo testo (dedicato al centrale astro) contemporaneamente cantato sia in norvegese, affidato a Lazare e la sua delicata quanto espressiva ugola, che in francese da Cornelius con le sue harsh-vocals.
Le tematiche del disco vanno ad incupirsi notevolmente con la coppia “2011, Or A Knight Of The Fail” e “String The Bow Of Sorrow”; la prima vede per forza di cose l’atmosfera farsi plumbea per i racconti dettagliati della celebre strage perpetrata da Anders Breivik ad Utøya, su partiture questa volta lente ed inesorabili come inevitabile ed inesorabile fu lo stesso massacro. Il finale del pezzo s’incentra invece sulla morte della madre (figura centrale nella vita dell’uomo, simbolo di nascita ma anche di crescita) e si collega liricamente a quello che è l’episodio più straziante e triste dell’intero platter (che vede un incupimento progressivo durante il suo sviluppo).

“You’re no more in the phonebook
The statements have been written
Goodbye, Norwegian mother
The quiver of time is empty…”

“String The Bow Of Sorrow” vede anche al suo interno la dedica alla figura del genitore morto prematuramente, ode al dolore ed occasione imperdibile per mettere in musica (come anticipato nell’introduzione) il breve passo poetico creato dallo stesso Cornelius e che, venti anni or sono, diede nome alla band. Impossibile è citare qui tutto il testo del drammatico pezzo, quanto stupido sarebbe non goderne mediante un ascolto previo di lettura, che dimezzerebbe letteralmente la bellezza ed il significato dell’arte dei Nostri.

“Where bumblebees hum and blackbirds sing
As the evening breeze sways the firs in the sunset…
Solefald.”

Il duo si congeda infine dall’ascoltatore con classe mediante le note della soffusa e quasi patriottica coda “Oslo Melancholy”.
Il cenno e plauso alla produzione, merito di Jaime Gomez Arellano ed i suoi Orgone Studios di Londra, che ha reso il tutto perfettamente definito e ha fatto dei veri miracoli nel valorizzare al massimo tutti i vari dettagli in fase di missaggio, è assolutamente obbligatorio.
La genialità mischiata alla follia (il confine è invero assolutamente labile) dei Solefald non è mai stata così immediatamente assimilabile in passato, tuttavia il disco potrebbe presentare più di un difetto di fronte a coloro che, quando si trovano davanti ad un lavoro Avantgarde di questo livello, non lo “ascoltano” ma lo “sentono” cercando di analizzarlo o di trovare della logicità a tutti i costi (i passaggi considerabili strani o inizialmente forzati non mancano di certo).
Ci troviamo di fronte ad un platter orgogliosamente im-perfetto (i più pragmatici potrebbero comprensibilmente asserire che la perfezione non esiste), e forse non al migliore in assoluto della carriera dell’eclettico duo norvegese, ma è altresì vero che sicuramente “Kosmopolis Sud” rappresenta il più maturo e completo lavoro della discografia dei Solefald, con tutto il loro carico di sfrontatezza, imprevedibilità, e la consapevolezza di chi ha una marcia in più e non ha paura di dimostrarlo a più riprese: pur sempre in nome dell’Arte.
E tutto ciò, dagli autori di gemme di avanguardia sonora come “The Linear Scaffold”, “Neonism” e “Black For Death”. Pare forse poco?

Matteo “Theo” Damiani

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