Prison Of Mirrors – “De Ritualibus Et Sacrificiis Ad Serviendum Abysso” (2020)

Artist: Prison Of Mirrors
Title: De Ritualibus Et Sacrificiis Ad Serviendum Abysso
Label: Oration Records
Year: 2020
Genre: Atmospheric Black/Doom Metal
Country: Italia

Tracklist:
1. “The Unquenchable Visions From The Abyss”
2. “Blaze Of The Ecstatic Liturgy”
3. “Sigils For The Ritual Exhumation”
4. “Ascending Through The Majesty Of The Dark Towers”

Immersi a bagno nelle tenebre, o col prezioso favore di esse a sud del Paradiso, quattro su cinque dei sensi umani ne fuoriescono particolarmente affilati e, ne consegue, maggiormente attenti a ciò che accade nello strato più interiore, inferiore e recondito della percezione; l’udito può così, ad esempio, concentrarsi sulla sola musica, sul disegno di cui questa è composta non solo in superficie, e farlo in una maniera decisamente diversa rispetto a quando è corroborato dal senso visivo. Che sia poi quest’ultimo rivolto all’osservazione degli esecutori intenti a performarla o meno, nel caso specifico, poco importa.

Il logo della band

Muovendo da tale significativa premessa, dovendo quantomeno giudicare dalla nitidezza con cui la descrizione esteriore ed interiore di “De Ritualibus Et Sacrificiis Ad Serviendum Abysso” procede -nonché dal quantitativo di immagini che questa trasmette lungo lo scorrere interconnesso dei suoi brani-, più che di un indistinto e poetico ritualismo è infatti della più precisa e persino efferata deontologia tematica del rituale e del suo sacrificio trascinato nel reame dell’espressionismo musicale, seppur questo della più mutevole natura meta-fisica (quella in cui a ben vedere ogni versione di rito trova comunque il suo punto di generale inizio o fine, voglia poi più o meno essere questo associabile all’estetico climax del processo nell’esempio particolare), che i Prison Of Mirrors sembrano non essere assolutamente dei semplici amatori, né banalmente dei soli studiosi. Dalla teoria alla pratica, piuttosto, il lavoro infusovi odora di conoscenza approfondita ma ancor più di trasversale applicazione.

La band

Ed è banalmente solo con un approccio simile, in quell’inevitabile processo di trial and error riservato all’autentica crescita artistica, che la complicatezza di infiniti spigoli e spine su una corona d’individualità, e la scorrevolezza di una processione in tappe dal crescente carattere di risolutività possono integrarsi a vicenda, e con assoluto successo, fin dalla creazione di un debutto su full-length dalla struttura incredibilmente intelligente che fa delle convulsioni aurali e degli spasmi riflessivi il suo motore di barbarie uditive; una pannychis di misteri proferiti in quattro parti contigue e difficilmente comprensibili -o anche solo afferrabili e pienamente godibili- senza l’attenta continuità e soprattutto l’ordine scelto dai Prison Of Mirrors. Sebbene, infatti, non vi siano singolari sezioni da ritenersi quali principali, o più immediate, remunerative e di primaria importanza, è invero assolutamente cruciale la scelta operata in principio di disporre e far evolvere i brani proprio dal temporalmente più breve al più lungo, dilatando il timing progressivamente ed esponenzialmente fino a toccare il picco degli oltre ventidue minuti della sola “Ascending Through The Majesty Of The Dark Towers” posti nella cornice di una cospicua conclusione, ove -diversamente che in un semplice compendio- la band tributa tanta carne al fuoco dell’esplorazione quanta ne ha versata nell’insieme complessivo delle prime tre sezioni di disco; una conformità di fondo ad un criterio che svela definitivamente come l’apice di ogni lungo pezzo sia non per caso da ritrovarsi nell’inizio del successivo.
In questo sistematico modo le candele vengono spente una ad una con lo scorrere dell’ora scarsa, densa di un vorticoso coinvolgimento che consuma, e l’Ufficio delle Tenebre viene celebrato tramite inconfondibili step (i canti gregoriani che sono veglia ed epifania sul finire di “Blaze Of The Ecstatic Liturgy” -impossibile scinderli dall’inizio di “Sigils For The Ritual Exhumation”, in cui ricorrono centrali- e poi mescolati a quelli di gola nell’ipnotico finis mundi verso le torri oscure e quell’omicidio rituale che è chiave del processo nell’antifona conclusiva) lasciando la musica risuonare totalmente in tenebris solo una volta passato un terzo del disco qualora preso come unità inscindibile nella sua interezza. La spirale gorgogliante, dal centrale cuore d’attrattiva droning, è evocata anche con soundscapes indistinti e rumorosi di fondo, che si raffinano lungo l’album facendosi sempre più palpabili, nitidi e linearmente atmosferici – metafora di un fumo incensato che dirada e permette di nuovo la visione (per questa ragione, è altamente sconsigliabile apporre valutazione o gradimento al disco prima della sua conclusione e sedimentazione), nel mentre e da principio travolgendo invece per la claustrofobica mancanza di appigli puramente melodici che lasciano l’ascoltatore in balia di un lavorìo sicuramente difficile da seguire, ma anche di una rara sensazione di sacerdotale sopraffazione; parimenti, il coinvolgimento è immediato non tanto nella somma delle singole parti o scelte impiegate, quanto nell’alchimia assolutamente corale che queste riescono a raggiungere.
Così, l’Officium Tenebrarum è rispettato nella sua disciplinata dottrina rituale ed al contempo rovesciato in discesa verso le profondità eterne, una volta ricalcato l’elemento di terrore e contrizione, senza la pretesa di un conforto e senza la speranza dell’avvento di luce, senza lodi. Nell’apparente caos, che richiede svariati ascolti per essere ordinato come da copione, screaming vocals marce, cavernose ma piene di toni medi, gracchiano da mefistofelici abissi mentre lo sconquasso è garantito dalla posizione peculiarmente alta nel mix e dall’originalità in suono dell’apparato chitarristico notturno, ricco di atonalità ronzante che di classico non ha nulla specialmente nei rozzi accenni di caracollante melodia fanatica e sghemba, sempre suonata in dispersione nella frenesia delle composizioni. A queste, soprattutto nei momenti di rallentamento, si lega il batterismo intricato ma pregevolissimo nello spendersi equamente tra la finezza d’accenti per completare quelli di chitarre e basso, e la smania bestiale conservata invece nella labirintica disgiunzione ritmica con le reiterazioni chitarristiche che mordono e strappano inique ed impietose durante i minuti più asfissianti.
Ma forse la più grande capacità espressiva dei Prison Of Mirrors è proprio quella di creare rincorse che nonostante la consistenza si dissolvono encomiabilmente in silenzi ora tratteggiati di rumore, poi sporcati di suono; momenti ancor più farraginosi delle rasoiate febbrili e sregolate, e nettamente più paludosi, sporchi e Doom, che non sono distensioni ma fumo opprimente a compromettere le vie respiratorie della salvezza comunemente intesa: una Leçon de Ténèbres di François Couperin virata al nero, così le pause diventano eloquenti tanto quanto le sfuriate -se non di più ancora- per accompagnare l’animo dell’ascoltatore in paesaggi desolati di crescente apprensione spirituale coerentemente con lo sparito da seguire, musicalmente viscosi e quasi strangolanti, che con originalità sfilano gli strumenti alla tradizione esoterica in musica e la reinterpretano facendola innegabilmente propria.

In “De Ritualibus Et Sacrificiis Ad Serviendum Abysso”, lavoro dunque di pregevolezza sotterranea che risuona in una platonica grotta buia e piena di echi e reminiscenze usando la tenebra come allegoria più occulta che non semplicemente mistica, i Prison Of Mirrors procedono a simboli ed analogie che parlano direttamente all’inconscio abscondito, al nascosto e al celato nelle viscere di un dialogo senza filtri con la divinità, invitando così mediante linguaggio assoluto ed atemporale l’ascoltatore alla più individuale introspezione verso un luogo senza luce dove l’atto di divenire cosa sola con la morte non è affatto la fine, né il fine, quanto piuttosto il metaforico cancello da oltrepassare – e lo fanno non imbastendo la rappresentazione vivida di un rituale, non veicolandolo soltanto con (seppure innegabilmente invasata) passione: lo vivono, e soprattutto lo fanno vivere in prima persona pur nella sua più inafferrabile e vasta comprensione fenomenistica.

Matteo “Theo” Damiani

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