Negură Bunget – “‘N Crugu Bradului” (2002)

Artist: Negură Bunget
Title: ’N Crugu Bradului
Label: Code666 Records
Year: 2002
Genre: Atmospheric Folk/Black Metal
Country: Transilvania

Tracklist:
1. “I (Primăvară)”
2. “II (Vară)”
3. “III (Toamnă)”
4. “IIII (Iarnă)”

Le mutazioni spesso avvengono solo per chi ha l’attenzione di notarle, di farle proprie, di descriverle, cosicché quello che potrebbe essere percepito come un minuto e trascurabile cambiamento dell’ordinario possa invece assumere, sotto una certa luce, le sconvolgenti proporzioni di una vera e propria rivoluzione. Ma per chi è osservatore per natura, la differenza tra il percepire che una variazione dal flusso costante e ciclico del cosmo sia così degna di nota da puntarle sopra la grande lente dell’indagine e, al contrario, attingere da quel fiume in piena pascendosi di un qualcosa ormai interiorizzato da un’eredità secolare, prende le sembianze di un confine sempre più labile quanto più ci si avvicina ad esso.
Proprio a cavallo fra il quadrato eterno dell’infinito scorrere del tempo e la moltitudine di dettagli della realtà in perpetuo perfezionarsi, i romeni Negură Bunget, nel 2002, compiono l’ennesima muta silenziosa. In un momento in cui il progetto della più arborea Transilvania sembra aver raggiunto infine un’aurea simbiosi fra i suoi tre membri e una visione d’insieme in grado di abbracciare nel più autentico e viscerale dei modi le loro radici musicali e culturali, prende forma quel “’N Crugu Bradului” che è prima definitiva maturazione di un’idea forse sognata e segretamente ambita fin dai tempi in cui in cui ancora i musicisti rispondevano al nome di Wiccan Rede; un cruciale punto di svolta artistica per i singoli individui che ne prendono parte ed esempio cristallino di un certo modo di intendere gli aspetti più introspettivi, spirituali ed atmosferici del Black Metal che nel terzo millennio troverà terreno fertile e lascerà solchi profondi e dolorosi.

Il logo della band

Ma non è con l’esuberanza di chi insegue evidentemente un sogno d’avanguardia che Negru, Hupogrammos e Sol Faur ricercano il proprio mondo delle idee, bensì partendo proprio dalle infinite possibilità che il più oscuro genere del Metal ha da offrire: dalle direttive di quel nero paradigma, intese da loro come inesauribile fonte d’ispirazione e non come confine, i romeni inseguono una forma tutto loro di suonare, giungendo con “Măiastru Sfetnic” a volerne dare dichiaratamente un’interpretazione ideale. Ed è nel perseguire questo obiettivo che emergono finalmente dal caos gli strumenti arcani, le nervature linfatiche, che da quell’uscita in poi si legano indissolubilmente al monicker Negură Bunget: se il già caratterizzato debutto “Zîrnindu-Să”, così come -e soprattutto- il fondamentale EP successivo “Sala Molksa”, tradisce una legittima passione per i versanti più sinfonici e pagani dei ‘90s norvegesi ed est-europei, il full-length color carbone del 2000 è il primo in cui la complicità fra corde e tastiere modella qualcosa di davvero nuovo e straordinariamente evocativo, con le prime a sferzare l’aria in ipnotici movimenti zanzarosi e le seconde a supportarle su tonalità mai così cupe, fataliste e Dark Ambient.
E ciononostante, quegli scenari per quanto opprimenti e malevoli sono solo una delle tante espressioni a cui i tre incantatori transilvani vogliono dar vita; un sentimento d’insoddisfazione legato ad una produzione caliginosa aveva ai loro occhi castrato l’efficacia complessiva di quel nuovo mondo da loro creato. Quel sentimento d’incompletezza porta la formazione a scavare a fondo per trovare un contatto fra le componenti irrazionali e misteriche del microcosmo musicale dell’estremo e quel variegato macrocosmo invece di sensazioni, visioni, racconti che dall’autoctono terriccio della Transilvania si protendono verso un ideale universale di trascendenza e pura espressione artistica. Questo nuovo approccio si sublima del resto proprio nei quattro ampissimi paesaggi sonori di “’N Crugu Bradului”: materia nuova e terrosa, frammentaria a suo modo ma saldamente unita da una struttura concettuale in cui l’inedito apporto di strumentazione tradizionale non è che la conseguenza ultima e spontanea di questo processo evolutivo, tanto singolare da rifuggire qualsiasi paragone diretto. Un afflato mitico e naturalistico di scuola Ulver completamente stravolto dagli scenari della Dacia; un uso della sinfonia a descrivere e smussare paesaggi astratti o reali ormai ben distante dalle impostazioni di Enslaved e Nokturnal Mortum; un impetuoso corredo acustico e folkloristico che dalla poliedricità sui generis dei Tenhi si espande verso scelte ben distanti dall’universo Neo-Folk di quegli anni. Infine, sebbene senza fine in sé, un’infinita e convoluta equazione ricca di incognite che si arricchisce di un’imprevedibilità d’estro dal respiro settantiano -tra gli altri- di Aphrodite’s Child, Gentle Giant e Gnidrolog.

La band

Tuttavia, sempre in quel complesso equilibrio fra consuetudine e stupore affondano le radici tematiche di “’N Crugu Bradului”: un viaggio iniziatico nei recessi della spiritualità romena le cui tappe e sfaccettature si dipanano nei capitoli stagionali che, dall’alba dei tempi, danno il ritmo al mondo naturale e, solo conseguentemente, alle abitudini, alle mietiture e alle celebrazioni della comunità. Quattro capitoli segnati così da quattro linee verticali che sono primitivi graffi sulla pietra e che precedono qualsiasi tipo di numerazione sovrastrutturale, ad una prima occhiata presentati senza alcun titolo e soltanto per quello che sono, così come lo erano stati gli altrettanto simbolici episodi di un “Nattens Madrigal” e legati fra loro dallo stessa matrice ancestrale di quel meraviglioso e sperimentale racconto durato anch’esso un anno ch’è “Srontgorrth” dei Nagelfar, ma dalle finalità ben differenti e rivolte verso quell’analisi intima e dell’universo ancestrale transilvano.
Dopo il supremo olocausto di gelo a cui la terra si piega una volta all’anno, il sogno di rinascita si compie involandosi fra i cancelli spalancati dalla brezza equinoziale di una nuova e prima insperata primavera: in pochi istanti le possibilità si moltiplicano esponenzialmente rispetto al passato, con una struttura che si riempie con elegante spontaneità di elementi spesso sottili e sommersi, ma dalla chirurgica potenza visuale; è infatti fra un letto di oscillanti frequenze ronzanti nel quale si amalgamano tintinnii di campanelli e mormorate formule che il gain si accende rivelando in tutto il suo calore valvolare ed una stupefacente vena Progressive che porta il già famigliare riffing a graffiare le pareti tonde di un ispiratissimo, magistralmente inventivo basso in continuo contrappunto.
Le cromie con cui i Negură Bunget tracciano come in estasi le linee frammentarie e convolute della narrazione non si limitano più alle consuete e più immediate associazioni di caldo e freddo, evitando invece l’eccessivo contrasto di colori primari e preferendo una continua sfumatura di oro, terra e roccia che fluidamente descrivono e tingono il pentagramma di sensazioni sensoriali più che visive, in un intrecciarsi di odori, abitudini, certezze e paure che si fondono nella memoria storica di un popolo diventando essenza stessa delle membra del singolo. I toni più diafani e le ombre si confondono e si mischiano dunque come esplosioni di luce ma vissute ad occhi chiusi, e l’estate diventa il periodo delle lunghe giornate e della violenta dicotomia fra l’afosa stasi e l’irruenza violenta del divino, in cui la tempesta come implacabile falce cala a recidere il filo dell’esistenza, la quale si affloscia come stele di grano appena mietuto: così si gonfiano variopinti d’iridescenze chiaroscurali i cieli che nel secondo mastodontico brano vengono perturbati dal rintocco ritmico di una solitaria lastra di legno che, con disinvoltura, porge la mano e cede il passo ad una batteria che nei suoni quasi dimessi e sempre cauti sui piatti segue e comanda con disarmante semplicità i tempi e le variazioni in un’impalcatura cangiante e vitale. Quel sentore arcadico rigato di nero in “’N Crugu Bradului” è infatti portato avanti come un filo unico, con strumenti che si intrecciano e dialogano continuamente, scomparendo e ripresentandosi poco più in là, ma senza mai sormontarsi in un nembo dalle appendici ad infinito e contorto frattale come faranno nell’altro capolavoro “Om”, bensì tendendosi e rilassandosi, sovrapponendosi a tratti in modo discontinuo.
Proprio quell’ondeggiare di frequenze ed energie crea però un continuum con il pizzicare delle corde, in particolare rilievo nella intensa sezione acustica della composizione dedicata ai mesi del lento deperimento e delle piogge battenti: un metodo peculiarissimo di usare lo strumento che nella prova precedente aveva caratterizzato non per casualità uno dei brani più particolari e sperimentali mai scritti fino a quel momento dal gruppo (“Al Locului”), e che da questo momento entrerà infatti nel lessico unico del progetto romeno, intessendo finemente con le sue reiterazioni un tappeto ipnotico dal quale nel terzo brano emerge con vigore un altro elemento unico nel suo genere; i fiati modulati e sordi dei tulnic, che tanto rilievo avranno in “Vîrstele Pămîntului” e nella Transilvanian Trilogy, così come nell’eredità lasciata poco più avanti ai Sur Austru.
Ma è proprio da quella patina oscura e nebbiosa legata alla produzione cenerina di “Măiastru Sfetnic”, che secondo i suoi artefici in qualche modo impediva a tutto il nuovo potenziale compositivo di fuoriuscire (e che difatti viene in gran parte ripulita nella ri-registrazione “Măiestrit”, che risulta de facto una rivisitazione quasi completa di quei brani diventando uscita a sé stante dal grande valore), che prende vita tuttavia quell’anima Dark Ambient e fumosa che sarà materia coesiva fondamentale da qui in poi: una patina fitta e costante, anch’essa in mutazione imprevedibile, ma che nell’ultimo capitolo del disco si tramuta del rumore candido e ovattato di una pesante coltre bianca a coprire e smorzare tutta quella violenza impetuosa che riesce a divincolarsi solo dopo diversi minuti di muta agonia e attesa.

Quella dei Negură Bunget, l’abbiamo detto ormai tante volte (e letto troppo poche), è la storia di una delle band che maggiormente hanno piantato semi scuri e ruvidi nelle profondità nel terreno, germogliando nei recessi del sottosuolo e sbucando qua e là a cercare spiragli di luce ma rimanendo fondamentalmente invisibili ai più. L’impianto incredibilmente nuovo e moderno con cui “’N Crugu Bradului” si pone infatti con il suo ideale sfumato di folklore e musica estrema è in fondo quello di una comunione estetica a tutto tondo, in cui la componente musicale è supportata da un corredo visivo e contenutistico ampissimo fra un comparto grafico studiato nei minimi dettagli, il contenuto multimediale presente nello stesso supporto fisico in CD e un’intera ‘zine sfiorante nello stesso periodo della sua pubblicazione tutto il substrato artistico e saggistico più prossimo alla band (si fa riferimento al Negura Magazine, che proprio in quegli anni era portato avanti dallo stesso Gabriel Mafa, e le cui rimanenti foglie possono essere raccolte e conservate qui); sono i segni di un’attenzione al dettaglio e di una sincera passione nei confronti del proprio operato che furono forse solo trasversalmente ascoltati, anche se raramente riconosciuti, anni dopo da formazioni che si svilupparono tra grandi avanguardia ed ipnoticità – dai Wolves In The Throne Room ai The Ruins Of Beverast, dai Fyrnask ai Mosaic; fino ai Dordeduh o agli stessi Negură Bunget che dal 2010 in poi, dopo la scissione della formazione, ricominciarono proprio dalle linee progressive e varie di quest’opera.
Dopo due decadi in cui l’atmosfera nel Black Metal è stata esplorata a fondo, dilatata, appiattita, riempita e interpretata di nuovo in un’infinità di modi e declinazioni, si fatica forse ad immaginare come quattro blocchi musicali di circa un quarto d’ora l’uno possano impensierire o stupire un qualsiasi ascoltatore, o addirittura rappresentare un unicum. Ma proprio dischi come il terzo full-length della formazione di Timișoara hanno illuminato e aperto gli occhi su come un certo spettro emozionale applicato al Metal possa richiedere il suo tempo per svolgersi, esprimersi e manifestarsi nel brano in un susseguirsi crescente, sfaccettato ed oscillante di sensazioni libere che evolvono fra cali e picchi; un qualcosa che, per certi versi, parte da Varg Vikernes fra 1994 e 1996, ma che viene realmente compreso, alterato e riplasmato per la fortuna e la rifioritura di un intero genere proprio nei primi anni 2000 da menti altrettanto geniali come Negru, Hupogrammos e Sol Faur.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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