Nasheim – “Jord Och Aska” (2019)

Artist: Nasheim
Title: Jord Och Aska
Label: Northern Silence Productions
Year: 2019
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Att Sväva Över Vidderna”
2. “Grå De Bittert Sådda Skogar”
3. “Sänk Mig I Tystnad”

Mettiamo nel lettore “Jord Och Aska” per l’ennesima volta. Quel che filtra in uscita dalle casse non smette di essere pura magia, infinita classe, fine maestria compositiva e grandiosa originalità nel comporre un Black Metal atmosferico che non è tale, così ricco e profondo da rifuggire ogni classificazione stretta.
Un genuino incantesimo sotto la forza del quale l’ormai rodato ma freschissimo Erik Grahn tiene in pugno con estrema semplicità l’ascoltatore in un processo di spire inestricabili che si fanno sempre più strette: ardere, appassionarsi, rimanerne dunque sfibrati, emotivamente svuotati. Tre immagini simboliche si legano tra loro. Il fuoco, la cenere, la terra. Una, tipicamente esistenziale, ne scaturisce sovrana.
La morte.

Il logo della band

Cinque anni sono volati dal maestoso “Solens Vemod”, che aveva fatto conoscere e amare ai palati più fini tra quelli avvezzi alle sonorità più cupe e dilatate il nome Nasheim, altresì monicker dell’esistenzialista e meditativa creatura spirituale del talentuoso quanto solitario e schivo ragazzo svedese. Un lasso atemporale che, complice l’assoluta concentrazione sul progetto di chi vi partecipa, ha permesso ai Nasheim (in questa sede coadiuvati dalla batteria dell’ottimo David Ekevärn e dal quanto mai pregevole inserimento del violoncello e del violino, rispettive materie di R. Shakespeare ed E. Harper) di maturare ulteriormente, di sbocciare dal suo involucro di dolore raffinandosi, arricchendosi, evolvendo in direzioni inesplorate – eppure così naturali e pacifiche da sembrare ovvie od inevitabili quando dirette a realizzare nel secondo full-length, “Jord Och Aska”, un gioiello che trascende aspetti musicali e sfiora la perfezione emotiva, quando non quella formale, raggiungendo vette che fanno impallidire la remota concorrenza.

Erik Grahn

Tre quarti d’ora – una canzone, una sola suite di movimenti ininterrotti e fluidi tra loro: un segmento di una manciata di note che si ripete in minimalismo perifrastico per costruzione e s’impreziosisce, finendo per non esaurirsi o scomporsi mai. Siano queste declinate in arpeggi, coercitate in riff distorti o in linee vocali le cui modulazioni finiscono in vette di puliti che dal profondo dell’animo provengono, e pertanto proprio in tale locazione tornano a scavare impietosi, le emozioni fluiscono e volano sulle ali del tempo che diviene rarefatto, impalpabile ed insignificante perché nessuna nota è gettata a saturare inutilmente la formula.
La progressione è in ogni caso continua, lo stile più ampio che mai e pertanto la palette di colori si impreziosisce: il grigio della terra, della cenere, delle ossa; il colore ambrato e caldo di tizzoni, braci che infiammano l’anima e la riportano ad essere cenere – ma anche il luccicare opale delle lacrime attraverso le quali osserviamo scivolare visioni cangianti, limpide ma adombrate, di paesaggi immacolati tutt’uno con l’anima. Il nero della morte; così inevitabile, così vicina. Croce, ma anche delizia: destino beffardo, certezza esistenzialista da accettare con il carico di dolore e sbigottimento che ne consegue, o un porto sicuro? Una madre, più verosimilmente, la madre di tutto al cui abbraccio non ci si deve poter, o voler, sottrarre.
La struttura è un crescendo di difficile descrizione, ma si parte da quattro note acustiche ben sgranate. La cifra luttuosa di un violino sommesso, un inovviabile grido silenzioso, interviene magistrale; dopodiché le emozioni si ingarbugliano e districarle diventa impossibile in quanto al diretto cospetto di ciò che risiede dentro. Non è un cliché, non vi è nulla di ovvio, niente di scontato, di banale, di ripetuto, ripetitivo o statico nell’essenza e nella realizzazione di “Jord Och Aska”. Vi è solo tanta, tantissima verità, enorme sincerità di quella così candida e senza filtri da sorprendere e lasciare esterrefatti ad ogni secondo.
Oltre venti sono i minuti del primo movimento che, col suo sviluppo progressivo, vivo, pulsante, ci fa ritrovare all’interno del cuore dell’album in meno che non si dica. Non vi è modo di rendersene conto e dal grigio perla della quiete ci si ritrova travolti da mulinelli di scarlatte sezioni più estreme (circolarità di chitarrismo sparpagliato e blast-beat a vortice; splendido lo stile e gusto di Ekevärn nel legarsi all’approccio così personale del resto, giostrato dal tuttofare Grahn) prima di poter fare la conoscenza di iridescenti contrappunti Dark, maturazioni di quel Goth Rock à la Fields Of The Nephilim irradianti una tela che, gradualmente ma incessantemente, si annerisce e sporca. Il climax è irripetibile, schiere di aspiranti e professionisti dell’Atmospheric Black Metal in crescendo rimangono a bocca aperta e convulsi, impacciati, estraggono dalla tasca un taccuino stropicciato che da troppo tempo non vedeva nuovo inchiostro: l’intensità che i Nasheim sprigionano e poi mantengono non si estingue sul primo picco metrico e d’apprensione ritmica (di tanti), la voce in pulito smuove più di un brivido ma è destinata a ritornare, e l’aggressione che sfuma in modulazioni armoniche di enorme inventiva diventa gradualmente down-tempo, così l’estetica Doom può infiltrarsi e strisciare come un serpente (la prestazione vocale nelle parti lente stupisce e rapisce) per cominciare la risalita.
Archetto elettrico a trascinare in lunghezza note apparentemente infinite, che da riverberate e pulite si fanno acustiche; una plettrata acustica silenziata getta una rifrazione armonica soltanto, basta un accordo, e l’esplosione che segue lascia a bocca aperta: le melodie s’inseguono, dal vortice non vi è più scampo perché la sezione ritmica si accartoccia su sé stessa e riprende in deissi rialzandosi agonizzante ma indomita ad ogni giro. La fine, col suo carico di oscurità penetrante, si avvicina a grandi battute e lo percepiamo senza smentita. Il battito rallenta di nuovo, il violoncello va a saturare e graziare tragico le basse frequenze, i tempi si fanno gradualmente strazianti – il cantato diventa grido di dolore sgraziato, spietato e spaventoso.
L’aferesi è ribaltata, il gioco quasi fatto. Grandi, immense ali smuovono l’aria ormai incandescente, le visioni sono febbrili e le lacrime salgono – ma sono di sollievo. L’ultima fiammata di dolore ustiona lo spirito e con il rimbombo di un tuono l’ultimo battito d’ali fa calare violentemente il sipario. Il vuoto prende il suo posto. Senza preavviso, la madre ora abbraccia suo figlio in silenzio.

Il secondo full-length dei Nasheim è senza giri di parole un viaggio toccante, a tratti insostenibile. Uno di quelli di limpida bellezza, di prosperità stilistica originalissima, di una maturità che diventa quasi capriccio scontato, di approccio senz’altro difficile ma unico e di integrità artistica così incontaminata da non poter lasciare indifferenti anche al primo ascolto; uno di quelli che fanno male per davvero e che cambiano qualcosa all’interno di chi li intraprende – sia questo l’artista o l’ascoltatore.
Non c’è pertanto motivo per non ritenere “Jord Och Aska” uno dei dischi più superbi e commoventi usciti negli ultimi anni, quel che ha già tutte le carte in regola per poter essere definito un futuro classico.

Matteo “Theo” Damiani

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