Moonsorrow – “Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa” (2011)

Artist: Moonsorrow
Title: Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa
Label: Spinefarm Records
Year: 2011
Genre: Viking/Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “Tähdetön”
2. “Hävitetty”
3. “Muinaiset”
4. “Nälkä, Väsymys Ja Epätoivo”
5. “Huuto”
6. “Kuolleille”
7. “Kuolleiden Maa”

Rumori ambientali, angosciosi respiri affannati di stanchezza, di fame, di disperazione grigia ed un vento sibilante morte manifesta fanno da solida cornice alle quattro monolitiche, effettive composizioni che vanno loro volta a dare forma a “Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa”: album che, al netto di qualche essenziale miglioria tecnico-espositiva rispetto al recente passato della band ormai giunta con il suo sesto full-length a sfondare per la seconda volta le porte di un nuovo decennio, continua qui a cavalcare un inimitabile ed irripetibile mix tra le desolazioni di un Black Metal sempre più in risalto nella palette espressiva impiegata dai cinque finlandesi -in ciò in congiunzione diretta con l’evoluzione intrapresa senza ritorno con il monumentale trittico di lavori precedente- e che procede nel solidificarne ancora più tangibile l’amalgama insieme alle complementari sonorità epico-folkloristiche ed una onnipresente vena Progressive.

Il logo della band

Entriamo quindi nel suo mondo visibilmente scabro, asciutto e senza stelle ad illuminarne la strada maestra, fortemente impettiti per i risultati già ottenuti ma anche pieni di rispetto dopo l’accoppiata del precedente ed impeccabile “Viides Luku: Hävitetty” più la coda stilistica non dichiarata nell’anomalo EP e nella sua omonima tempesta di fuoco e fiamme “Tulimyrsky”, contenenti nel complesso tre tracce di trenta minuti ciascuna che scaraventano i Moonsorrow fuori da ogni schema, rendendoli un’entità quasi astratta ai nostri occhi e protagonisti creativi dotati di una capacità artistica senza uguali, apparentemente privi di qualsivoglia limite che non sia un cielo quanto mai plumbeo. L’interesse per la band nel 2011, giunta peraltro al suo primo lavoro per Spinefarm al posto che per l’affezionata parente minore Spikefarm (nonché l’ultimo, sulle ali di un successo crescente che evolverà nel contratto con Century Media per la pubblicazione, quasi sei anni più tardi, di “Jumalten Aika”), è dunque alto più che mai e, ieri esattamente come oggi, come del resto in ogni occasione in cui si va o andrà ad ascoltare un album concepito da Sorvali per la prima volta, la propensione inevitabile è quella di premere play con un grosso punto di domanda stampato in fronte, tendenzialmente inconsapevoli di ciò in cui ci si va ad immergere fatta eccezione per la tendenza, immancabile nelle sue band, di vivere di eterni opposti in quanto a direzione nello spostarsi da un capitolo all’altro, o per il tasso di qualità a questo punto della carriera dato per assodato.

La band

Ma proprio le caratteristiche progressive già perno dei precedenti album (qui illuminate nei fraseggi più aperti da un dichiarato bagliore di memoria Gentle Giant), insieme ad una quasi inedita sensibilità di Doom estremo per concretezza e rocciosità granitica nelle sberle di riff pesanti e pienissime, escono coprotagoniste indurite all’interno del disco considerando il modo in cui le tracce si sviluppano e confluiscono l’una nell’altra (l’incipit ed evoluzione pre-conclusiva dell’opener “Tähdetön” a cascata nel primo punto di raccordo ed interludio “Hävitetty” è solo un assaggio in tal senso, sebbene sia altrettanto emblematico nello spiegare un discorso incarnatosi suono), dimostrando nel farlo una cura maniacale nella composizione dell’intero progetto che diventa musica omnicomprensiva; così tanto da spingere la band, per l’occasione, ad abbandonare il modus operandi ad accumulo d’elementi di “Tulimyrsky” (e così gran parte del suo bagaglio tecnico, in favore di una lentezza schiacciante eloquentemente e senza complimenti posta in apertura) per scrivere sia il concept che la struttura della sua tracklist prima ancora della musica, creandola poi nell’ordine di inclusione finale come un veicolo granulare e non filtrato direttamente in base alle necessità espressive. Il feeling principale che trasuda da ogni singola, trascinata nota è così una sensazione avvolgente di pura drammaticità, di un viaggio che percorriamo dolorosamente soli, nel buio più totale e nel freddo dove la pace dell’anima viene sfiorata solamente a tratti grazie ad una serie di passaggi più epici e teatrali (le accelerazioni mozzafiato e totalmente inattese di “Muinaiset” dopo una simile apertura, ad esempio, al cui centro il tempo sembra fermarsi), benché purtroppo inutili alla salvezza di un fantomatico protagonista ultimo della sua specie che, metafora di un’umanità irrimediabilmente condannata e spacciata, vedrà invece il suo personale epilogo in una delle tracce più agghiaccianti, serrate, magniloquenti ed annichilenti mai composte fino a quel punto dai Moonsorrow: la fine a cui tutto va restituito e che, schiacciasassi emotivo e fisico, marcia vittoriosa ed austera sulla terra divenuta patria dei morti e trionfo dell’ineluttabile, ampiamente previsto ed altrettanto umanamente inaccettabile in “Kuolleiden Maa”.
Nonostante il primo accordo di “Tähdetön” serva quindi come punto di partenza evidente per la congiura della catastrofe fatta suono su cui costruire il resto, nonché chiudere letteralmente l’intero album adagiandolo sulle ali della tradizione funeraria (tra organo a pompa e strumenti acustici) che serpeggia nella musica Folk scandinava e nordica del 1800 (nonché sul finale di “Pagan Prayer” degli Hades, l’epilogo di disco da cui proviene qui velatamente tributato non dal solo luttuoso violino, l’organetto invece un rimando a “Byrjing” dei Windir, da “Arntor”), le frequenze dei riff si sparpagliano nel mezzo anarchiche, volatili, difficili e lancinanti sulle doppie pedalate riempiendo i polmoni di sangue, affogando l’ascoltatore (in “Kuolleiden Maa” soprattutto, ma anche tra i sentori di un’antichità perduta in “Muinaiset” e nell’urlo silenzioso di “Huuto”), proprio nel momento in cui per suono i Moonsorrow scelgono una direzione di linguaggio opposta: una pesantezza inedita, soffocante, fatta di strutture chitarristiche non solo ricoperte di feedback rumorosi più che mai e di pinch harmonics dal sapore quasi Death Metal incastonati sulla rotondità atmosferica, ma di un riarrangiamento incanalato sulle corde più basse, suonate con estrema predominanza al posto delle alte e più comuni nel genere – per tono e colori, non troppo dissimilmente a quanto fatto dai Thyrfing nel solo parallelo possibile di “Hels Vite” del 2008.
E sebbene tuttavia “Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa” diventi così, effettivamente e strutturalmente, un monolite di oscurità compatta e zampillata di rifrazioni per scelte stilistiche opposte al panorama coevo Post-Black Metal, non si presenta d’altro canto nemmeno necessariamente come un disco complicato di per sé; infatti la sua qualità complessiva ed assolutamente fluida, preservata soprattutto da una musicalità facilmente afferrabile nelle sue linee melodiche serpeggianti con un gusto onnipotente, unite allo spessore sonoro ruvido di riffing pungente e vocalismi laconici, gretti e strazianti, permettono comunque di apprezzarne il fine lavoro anche senza entrare doverosamente nei suoi più minimi dettagli. Sono altresì proprio questi, tuttavia, di cui si consiglia la considerazione vista l’incredibile quantità e varietà di strumenti, registri tastieristici tanto freddi da far gelare il sangue nelle vene, stili, timbri sotterranei e sonorità utilizzate all’interno dell’album, ad elevarlo verso la realizzazione dell’ennesimo capitolo completamente a sé per visione complessiva -e ad oggi il più apocalittico in assoluto- eppure al contempo uno sempre così inquadrabile nello stile e nell’operato del gruppo dei cugini Sorvali; in fondo, proprio quel che a ben sentire rende ogni loro passo, ivi presente non escluso, semplicemente insuperabile da loro stessi quanto immancabile per l’appassionato.

“Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa” dimostra dunque da ormai dieci anni come la band stesse e stia continuando a perfezionare il proprio personalissimo concetto di musica che parte dal Black/Folk Metal riuscendo a non risultare eccessivamente complicata nemmeno quando si tratta di impiegare una produzione quanto mai spessa e ricolma di sfaccettature provenienti da una molteplicità di strumenti, di influenze ed inventiva. Giusto nel 2010 esce infatti “Eparistera Daimones” dei debuttanti Triptykon e i finlandesi ne rimangono comprensibilmente fulminati: proprio in quel filo rosso che collega l’operato dei sempre apprezzati Celtic Frost all’emblematico accordo iniziale e conclusivo del loro sesto full-length, filtrato tramite le stesse scelte di post-produzione della terza band di Fischer e delle meccaniche dei primi Bethlehem (fin dagli esordi presenti nella scrittura e sensibilità di Sorvali), caricandolo di Skepticism ed Esoteric, i Moonsorrow sporcano dell’inevitabile il loro Black Metal progressivo, ricolmo di folklore, cinematograficità ed evoluzioni nonché visioni pagane, di un vuoto interiore che in esistenzialismo, fatalismo ed abbandono totale si fa pienezza e remunerazione estrema; evidenza del fatto, forse anche banale all’inizio dello scorso decennio quanto giunti a questo punto dello scritto, che ormai la band domina il proprio sound e non ha nessuna intenzione di smettere di evolvere o di impressionare.
Per questo, volendo riprendere le parole iniziali, se alla sua uscita dieci anni fa non abbiamo magari sentito di aver vissuto chissà quale stravolgimento rispetto a quanto non fossimo abituati dal gruppo, abbiamo in realtà assistito non solo ad un’ulteriore limatura di una creatura in costante crescita; ma una in costante ridefinizione, passo per passo, disco per disco e questo incluso, di un linguaggio di cui è già nel 2011 imprevedibile ma assoluta portavoce come nessun’altra band forse sarà mai più.

Giacomo “Caldix” Caldironi

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