Marzo 2020 – Chotzä

 

Marzo non è stato sicuramente un mese semplice, simpatico o anche solo lontanamente memorabile per pregi,  pertanto in futuro difficilmente ricordabile col sorriso sulle labbra dalla grossa maggioranza di chi leggerà questo articolo, non vi è dubbio al riguardo. Volendo dunque tacere sulle difficoltà che sembrano profilarsi all’orizzonte anche durante il corso di aprile, non da ultimo in un mondo musicale in questo momento particolarmente prossimo a valangare dall’alto, procediamo comunque a tirare un piacevole sospiro di sollievo dato che tempi duri chiamano in campo musica durissima: se non altro, nell’ultima trentina di giorni il panorama di oscurità che quotidianamente scandagliamo su queste pagine si è mostrato agguerrito abbastanza da consegnare la (in)solita manciata di quattro dischi finiti per più di un motivo tra le grazie di qualche beneamato redattore; certo, è un risultato innegabilmente figlio più di piani e trame precedenti al disastro (e che quest’ultimo non è fortunatamente riuscito a rovinare in tempo) che altro – ma, qualunque sia la tutto sommato trascurabile ragione, uno in particolare sembra essersi ampiamente meritato la quasi unanimità di apprezzamento con ben quattro nomine ed altrettante singole discussioni a tesi.
È difatti in barba ad ogni limitazione, ogni virus, ogni difficoltà di vita (a)sociale che i Chotzä, veri eredi spirituali e stilistici dei meglio Carpathian Forest d’annata rinati e filtrati tramite fuoco, sputi e tutta la sporcizia possibilmente ancora maggiore del panorama svizzero attuale (nonché delle menti dei Grusig, fattore certamente non trascurabile…), propongono in “Tüüfuswärk” (uscito ufficialmente l’ultimo giorno di marzo via Northern Fog Records, ma con copie fisiche il cui arrivo sugli scaffali è stato rallentato da tutti sappiamo benissimo cosa) una miscela ardente e smaccatamente terrena che ha sbaragliato -con cinquanta minuti di sberle e sberloni da orbi- il folklore stregato, il misticismo orientale trascendente e la testardaggine old-school da sala prove che lo seguono in lista oggi. Per dirla con le urla sgraziate degli Osculum Infame: kein Entkommen!

 

 

In Svizzera stanno malissimo, e “Tüüfuswärk” ne è la prova provata: l’eleganza perversa dei Grusig si lorda beatamente col sangue versato dai Chimæra, dando vita a dieci fucilate che umiliano quanto inciso sia dai Chotzä stessi in precedenza sia da chiunque di recente abbia flirtato col Black Metal più stradaiolo. La sincera cafonaggine estetica e sonora dei bernesi riveste in realtà una scrittura ineccepibile (ogni riff una manata, ogni linea vocale uno sputo in faccia) e delle prestazioni individuali sopraffine: basso e batteria tirano come buoi sotto doping, Szibilis si riconferma un’ugola fuori controllo, ed il suo indiavolato compare Gruäbähung infila una mitragliata di lick e solos a getto continuo. Quando poi i bpm diminuiscono la sporcizia già accumulatasi non fa che aumentare, grazie al malatissimo pianoforte ed ai suoi duetti irresistibili con le sei corde. Vero Rock ‘N’ Roll: tenere fuori dalla portata dei bambini e dei fan dei Midnight.”

Black ‘N’ Roll perfettamente in tiro quello degli svizzeri Chotzä, autori del terzo disco della propria carriera: “Tüüfuswärk”, tra una cafonata e l’altra, fluisce in tracce che funzionano con estrema naturalezza, semplici e coinvolgenti (nemmeno prive di qualche diversificazione interessante come in “Sex, Suff & Satan” e nella title-track), perfette per aggiungere un po’ di brio a queste serate di quarantena. Al di là delle generalizzazioni derivanti un po’ dalle scelte stilistiche e un po’ dagli argomenti trattati, è comunque indubbio quanto i Chotzä riescano a costruire un’intrigante combinazione tra Black ed Heavy Metal, segno anche di ottime capacità compositive: produrre infatti un album del genere, dalla durata di oltre cinquanta minuti ben scorrevoli, non è sicuramente un compito semplice e soprattutto non è una cosa da tutti.”

Spogliate i Grusig della vena Blues e folkloristica, stracciate le rituali vesti melodiche e occulte dei Chimæra, e davanti a voi troverete bene o male gli stessi ragazzacci di Berna ma nella loro forma più disinibita, spaccona e intransigente: i Chotzä suonano Black ‘N’ Roll e lo fanno sfruttando al massimo la pochissima pacatezza di refrain coinvolgenti spesso supportati dall’irruente incursione di cori trascinanti e una lead guitar che riversa solismi che corrono indefessi fra le caotiche e violente schitarrate. Se fra i brani che spiccano e che rimangono saldi in testa vi sono l’opener “Dräck Am Schtäckä” e la title-track, che conclude il disco con l’entrata in scena persino di qualche inaspettata nota di pianoforte, va anche detto che il lotto non si lascia sfuggire qualche brano sottotono e che forse un minutaggio più snello avrebbe giovato al brio della release nel suo complesso; tuttavia, e solo in special modo in un mese in cui le uscite sembrano scarseggiare, una buona dose di ultraviolenza elvetica con cui muovere ritmicamente la testa non può che essere un toccasana.”

“Che negli ultimi anni sia tornata una certa attitudine al marcio in Svizzera è sotto gli occhi e le orecchie di tutti, specialmente per quel che concerne la scena più fieramente underground del paese; i Chotzä non fanno assolutamente eccezione, alfieri di sporcizia sonora e concettuale nel consegnare alle stampe il loro terzo lavoro, “Tüüfuswärk”, dove troviamo sì un Black ‘N’ Roll relativamente classico, grezzo e scanzonato, ma in cui non mancano altresì spunti interessanti. Dai classici riff di gelido Black Metal, tanto cari alla dottrina scandinava, al miscuglio con gli inserti di pianoforte come sono presentati nella quarta traccia, “Sex, Suff & Satan”, il tutto è reso in maniera bizzarra e notevole, a sigla di un disco perfettamente capace di miscelare momenti rozzi ed episodi eccentrici; non a caso all’interno della band troviamo entrambi i componenti dei Grusig, un’altra band alquanto sui generis.”

Gli slovacchi Malokarpatan, autori con “Krupinské Ohne” del loro terzo rientro in pista a cavallo di un full-length (nuovamente rilasciato dalle mani irlandesi di Invictus Productions, il 21 del mese), che facendo saggio uso del loro Heavy Metal sporco ed incupito, tassello non dimentico di una First Wave che a sua volta non scorda il carattere folkloristico natale della band, ha stregato (in tutti i sensi!) il nostro Feanor che ce ne parla così:

“Grazie ad un album costruito per testi ed immaginario attorno ai fatti di stregoneria in quel di Krupina, gli slovacchi Malorkapatan tornano a mettersi in mostra con il loro classico (nonché assolutamente nostalgico) Black/Folk Metal vecchia scuola, intriso quindi di oscuro gusto Heavy alla Mercyful Fate, Venom e Master’s Hammer in quantità. Non mancano tuttavia delle vivaci sferzate di novità a cominciare dall’atmosfera resa più cupa e stregata, in comunione con il concept lirico, in cui le tastiere hanno il compito di rendere lo scorrere dei brani surreale e magico; il risultato è favorito anche dall’impiego degli ormai classici intermezzi orchestrali e folkloristici riesumati da film sovietici d’annata – un compendio che non intacca per niente la ruvidezza dei riff dal retrogusto classico del quintetto, al contrario, restituisce quella sensazione di forte dualismo fra le parti grezze e le controparti magiche di quella che è una vera e propria storia est europea riversata in musica e narrata egregiamente dallo scream roco di HV.”

Originalità ormai assodata? Check. Attesi al varco dal 2013? Check. Doppio album per giustificare i sette anni? Assolutamente check. La musica? Ce ne parla il nostro Ordog, estimatore di ciò che i Cult Of Fire hanno escogitato per dare seguito all’interessantissimo “मृत्यु का तापसी अनुध्यान” (ai più giustamente noto come “Ascethic Meditation Of Death”): “Moksha” e “Nirvana” (che poi, è un doppio disco o sono due dischi? Boh!) potrebbero risultare prolissi o eccessivamente slavati a molti, ma non a tutti.

In analogia coi geograficamente prossimi White Ward, il riverito trio ceco ha la sua ragion d’essere nell’atmosfera e nelle sonorità così singolari piuttosto che nell’articolazione concreta della loro proposta su disco; motivo per cui, nel loro particolare caso, la scelta del formato doppio si dimostra non solo adatta ma anche in grado di favorire, tramite la fruizione di una delle due metà, un ascolto più rapido che faccia apprezzare le comunque tante sfumature dei Cult Of Fire anche ai meno convinti dal successo del più complesso “Ascethic Meditation Of Death”. Ciò non toglie che, dopo qualche tentativo donato ad entrambe le parti, anche l’intero prodotto uscito per la loro stessa Beyond Eyes Productions divenga un’esperienza davvero da provare per tutti, guidata da melodie lucenti e meno intricate che in passato ma sorretta dalle percussioni tribali sapientemente occultate nel mix.”

Senza tappeti rossi né cerimoniale, così come -vi è da esserne certi- gradirebbero loro, “Old Old Death” ci ripropone da ultimo i norvegesi Tulus che mai avremmo pensato di risentire in primo luogo; non solo con nuova musica (ad opera della ormai norvegicentrica Soulseller Records) a distanza di otto anni dal dimenticabile “Olm Og Bitter”, ma anche intenti a riprendere un po’ del solido carattere sinistro e sardonico del celebre “Pure Black Energy”.

Mentre parecchi colleghi dallo stile analogo si buttano sulla velocità fine a sé stessa, senza tuttavia possedere quella punta di ironico sadismo che ci fa tanto amare l’attuale, giovanissima scuola elvetica, l’approccio al Black ‘N’ Roll di “Old Old Death” è molto più rilassato, genuino e -se vogliamo- quasi da sala prove. Premuto il tasto play, difatti, l’aggressività è spesso tenuta a freno dalla flemma da veterani scafati del trio di Oslo, autore di un disco che in trenta minuti secchi intrattiene a dovere con ritmi comunque sempre ben sostenuti, lodevole gioco di incastro beneficiante delle registrazioni in presa diretta ed un bel basso rumorosamente metallico onnipresente nel corso dei compatti brani; non che vi sia forse da aspettarsi una longevità esagerata da un lavoro tanto quadrato tra i meno appassionati di queste coordinate, ma senza dubbio i Tulus si rivelano abili come pochi nel ricreare quel mood divertito e persino cantinaro oggi molto di moda, e qui finalmente lontano da manieristiche quanto inutili autoindulgenze lo-fi.”

Fine del fracasso e del trambusto da parte nostra anche per oggi, perché ora sta a voi provare a replicarlo tramite il vostro riproduttore di fiducia mettendovi sotto coi fantastici quattro di marzo. Tempo libero, del resto, sembra essercene nel bene quanto nel male – e sperando che aprile non riservi brutte sorprese di penuria fisiologica tra rimandi, posticipi e cancellazioni di uscite attese e non, il prossimo appuntamento (di questo tipo) che proverà a riassumere lo scorrere del mese corrente è come al solito fissato per i primi di maggio; stessa cripta, stesso altare – non cambiare.
Grazie e buonanotte!

 

Matteo “Theo” Damiani

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