Månegarm – “Ynglingaättens Öde” (2022)

Artist: Månegarm
Title: Ynglingaättens Öde
Label: Napalm Records
Year: 2022
Genre: Viking/Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Freyrs Blod”
2. “Ulvhjärtat”
3. “Adils Fall”
4. “En Snara Av Guld”
5. “Stridsgalten”
6. “Auns Söner”
7. “Vitta Vettr”
8. “Hågkomst Av Ett Liv”

Eptir þat fór hann norðr þar til er sjár tók við honum, sá er þeir sǫgðu at lægi um ǫll lǫnd, ok setti þar son sinn til þess ríkis er nú heitir Nóregr. Sá er Semingr kallaðr, ok telja þar Nóregskonungar sínar ættir þar til hans ok svá jarlar ok aðrir ríkismenn, svá sem segir í Háleygjatali. En Óðinn hafði með sér þann son sinn er Yngvi er nefndr, er konungr var í Svíþjóð eptir hann, ok eru af honum komnar þær ættir er Ynglingar eru kallaðir…

Fu dunque così che Odino in persona fece rotta per la prima volta nonché per primo Uomo dotato di sacra conoscenza verso il vasto Nord, in quel frammento di tempo che magicamente precede e succede il tempo; in marcia costante, partito dalla fertile terra degli Asi, dalla sua celestiale fortezza nel cuore dell’orbe tripartito e di Evrópa (o Énéá – un antico toponimo che non può lasciare indifferenti nella sua perfetta aderenza morfologica all’eroe classico che, non dissimilmente all’Óðinn dipinto da Snorri Sturluson, parte proprio dalla Troia che l’islandese erudito identifica in Ásgarðr per fondare di lì a poco un’eterna città sul Tevere), raggiungendo le più fredde coste bagnate dal Miðjarðarsær, il mare oggi detto Mediterraneo che circonda l’intero mondo di mezzo sotto lo sguardo di quel suo infinito serpente che vi si cela quieto e terrificante. In questa sorta di terra promessa dal destino, di ritorno dalle mitiche avventure immortalate nelle fornaldarsögur, valsegli i maestosi possedimenti e ricchezze nel Tyrkland, nel sud dell’Asíá, fondò un regno: Nóregr. A capo di questo dominio e futuro reame mise i suoi figli, la sua stirpe. E dal sangue maledetto versato come linfa da uno di questi suoi primogeniti, Yngvi, meglio noto forse come Freyr nell’antico tempio dell’Östra Aros oggi Uppsala, nasce a sua volta un mito che odora al contempo di realtà storica e di fiaba: di un primo re di Svíþjóð, fondata dal dio degli dèi nel pantheon germanico – e di una dinastia che da lui e dal suo stesso nome proviene, la più antica delle dinastie svedesi e norrene, di sovrani direttamente imparentati con le divinità e detta degli Ynglingar.

Il logo della band

Ma tutti i regnanti il cui sangue di Freyr scorre nelle vene sono destinati a morti della più variopinta quanto disgraziata fattura: come si trattasse di una specie di sventurato leitmotiv a percorrere ed allungare, filo e rigagnolo di rubinescente, ancestrale liquido che fu organico, le tracce di quel che iniziò con l’etnometastasi dei germani verso settentrione; del þróun guðshugmyndar, lo sviluppo del concetto stesso di Dio fin dalle storie e concettualizzazioni dello Sturluson nella sua Heimskringla e nel Formáli, che oggi definiamo dopo oltre un millennio di studi sull’argomento, forse nemmeno più così propriamente, everismo – vale a dire l’origine degli dèi tutti tramite le narrate gesta d’individualità eccezionali finite, col tempo, per prendere fattezze divinizzate.
Insomma, da qualunque parte la si voglia guardare, la leggendaria e primordiale storia perpetuata come nordico archetipo nell’Ynglingatal (la saga che fornisce del resto l’incipit al testo che prende titolo dall’orbis terrarum, dipingendoci la preistoria scandinava) continua ad affascinare e trovare potenziale nuovo canto ad oltre mille anni dalla sua prima concezione scaldica; a suggestionare e rivelare dettagli del rapporto dell’uomo con la figura della sua divinità anche a due secoli abbondanti dalla sua più ampia scoperta nel mondo moderno con la prima traduzione straniera. In quest’ottica, il percorso dei Månegarm giunti al decimo disco in studio è non sorprendentemente un cammino a ritroso per procedere in avanti: dal “Fornaldarsagor” che portava nel 2019 indietro a prima della colonizzazione dell’Islanda coi suoi racconti di magia e stranezza, di battaglia e fuoco stregato, procedendo cronologicamente alla rovescia e distaccandosi dal concetto di tempo verso altri reami del mitico che si mescolano finemente con eventi storici e regnanti i cui racconti al riguardo non possono che essere finzione o follia popolare.

La band

Från Oden… “Till Oden…”

E in fondo “Ynglingaättens Öde” di questo curioso gioco di un eterno ritorno al passato e di aggiunta simultanea in tasselli di novità si fa estrema forza; in questo continuo scambio e in questa compenetrazione genealogica da disco padre a disco figlio -e viceversa- trova il suo pieno carattere come il singolo, individuale membro di un’antica stirpe reale che porta nel suo sangue e nella sua stessa esistenza i motivi fondamentali e ricorrenti di una progenie, di un ceppo familiare nobile. I tre musicanti di Norrtälje riescono così a far suonare l’insieme di sei singole storie (dedicate ognuna alla reinterpretazione poetica della misterica e spesso orribile fine del singolo sovrano selezionato, corredate di esposizione teatrale per tutti gli altri e commiato universalmente valido) come una favola lontana ma esponenzialmente efferata al pari, in uno stato di grazia musicale che rapisce nella sua interezza e nei suoi profondi contrasti che diventano materia unica come mai accaduto in precedenza con una simile compattezza e scorrevolezza. Non dissimilmente a cantastorie sospesi in un regale stato narrativo misto al poetico, come scaldi alla corte della discendenza Ynglingar, in “Ynglingaättens Öde” i Månegarm plasmano uno dei dischi più immediati e al contempo più stratificati, più accessibili eppure più maturi, più memorabili e squisitamente melodici eppure graffianti, duri ed incisivi della propria intera e ormai sostanziosa discografia: fortissimi della scelta di rendere sempre più compatti i loro album, rispetto ad esempio all’eterogeneità contenutistica dei vari “Vargstenen” o “Legions Of The North”, il precedente “Fornaldarsagor” resta piuttosto la matrice, la blueprint con cui riprendere un infinito discorso rinnovandolo; e la solidificazione concettuale prosegue pertanto di pari passo a quella di un timing centralizzato dei vari brani che rispecchiano di nuovo il più classico e quasi esoterico numero complessivo di otto non allungandosi (fatta splendida eccezione per gli oltre dieci minuti della sorprendente, ambiziosissima e progressiva opener “Freyrs Blod”) bensì arricchendosi di elementi ed intuizioni sempre più prestanti nel caratterizzarli e renderli unico l’uno dall’altro.
E se dal significato simbolico della mannaz che è runa iniziale del monicker della band, passando da uomo ad essere integro e quindi a dio sul piano terreno, sappiamo che coloro i quali raggiungono il più elevato stato coscienza e consapevolezza umana possono essere considerati divinità essi stessi (con tutte le loro imperfezioni, come in fondo gli dèi nelle epoche arcaiche), allora i raggiungimenti di cognizione musicale e lirica dei Månegarm parlano da sé e sono quelli più che evidenti in una voce cantante e narrante mutevole oltre misura, espressiva più che in qualunque altro disco del gruppo da trio, quartetto o quintetto che sia stato: partendo dallo screaming più tagliente di sempre (che lacera i timpani anche quando la musica sotto l’accoppiata di fauci e batteria sul fronte del mix si rivela tra la maggiormente melodica mai composta – si pensi alla ritmatissima, spavalda “Adils Fall”), passando per passaggi più frammisti di toni e pienezza (“Stridsgalten”, con la rotondità di tutti i suoi scacciapensieri, in cui addirittura troviamo lo joik-singing di Jonne Järvelä), giungendo alle squisite armonizzazioni di timbri e cori enfatici nelle vette emotive inaudite di “En Snara Av Guld”, creata in comunione con la voce bianca di Lea Grawsiö, figlia del nostro ormai storico frontman svedese.
Ma la storia della lunga famiglia degli Ynglingar, sembra sussurrarci il gruppo, mostra anche e soprattutto un’altra cosa: che una qualsiasi forma percepita come altissima, col suo ingresso in materia, acquista inevitabilmente meccanismi tipici della foggia umana che conosciamo non potendo più sottrarsi a cose come decessi e imperfezioni; a tutti i difetti in parte limati nel processo tramandato di divinizzazione orale eppure ancora pieni di quell’oscurità e quello spavento che il folklore porta in sé, esplorata qui con ma soprattutto senza i violini -sì notevolissimi, gitani ed inquieti, stregati in “Auns Söner”, ad esempio- e racchiuso invece come un vero tesoro da scoprire nelle più insolite o mutevoli pieghe chitarristiche à la Storm. “Ulvhjärtat”, per dirne giusto una, cambia colori ad ogni giro del concretissimo, irresistibile riff portante mentre Grawsiö strappa le carni dai timpani come fossero le fibre del cuore di lupo ritualmente divorato dall’autodistruttività di Ingjald Illråde; nella soprannaturale “Vitta Vettr”, aprendosi con sollenità all’improvviso sporcata di nero e malevolenza in minore come in un incubo vivido, accade poi un piccolo capolavoro di scrittura tra le più variopinte ma barbariche mai prima d’ora messe in campo dai Månegarm, pur risplendendo di pura melodicità appena dopo, tra bridge e ritornello, come a voler accompagnare verso l’amara dolcezza acustica e retrospettiva di “Hågkomst Av Ett Liv” – memorie di una vita che sfiorisce e viene cancellata dal tempo se priva di merito nel ricordo di chi le sopravvive, coloro in grado di rievocare e tramandare alla posterità; un commiato insomma in cui il gruppo pare sussurrare, abbracciata interamente l’anima acustica di memoria “Urminnes Hävd”, che persino quegli stessi dèi e divinità che vestono abiti materiali e troppo umani per realizzare i più grandi piani per loro e l’umanità, nel farlo, non restano di rimando immuni dalle leggi che governano la corporeità. Che i loro poteri saranno anche sovrumani in essenza, e che nondimeno quegli stessi dèi -definiti non a caso nel mito norreno Uomini– sono passibili di quella dimenticanza e di quell’oblio da parte dei figli degli uomini nella loro supposta modernità che angustia la sopravvivenza di storie così come avviene con la lunga leggenda e misconosciuta cronaca degli Ynglingar – uomini discendenti diretti di dèi; dèi essi stessi, e tuttavia mai immuni dal potere spaventoso della logica umana.

Ma “Ynglingaättens Öde” è il luogo in cui ritrovarli: il posto in cui questi vivono perché ricordati e riportati in vita una volta ancora, con passione, interesse, uno studio non comune, con approfondimento e amore. Il luogo dove, musicalmente, i Månegarm raggiungono commistioni di una regalità inedita nel loro nutrito repertorio di canti ed inni: dove ogni transizione sfuma nell’altra quasi per diritto e naturalezza divina, senza alcun bisogno di sezioni più epiche o più stordenti contrapposte per sé, nella tipica alternanza solitamente impiegata al fine regalare freschezza, impatto o longevità all’ascolto di un album. Il trio svedese in “Ynglingaättens Öde” ha infatti raggiunto capacità di scrittura talmente alte e raffinate nella loro pure enorme immediatezza da poter esplorare qualunque anfratto delle loro peculiarità descrittive in musica senza dover ricorrere all’ostentatezza del contrasto estetico tra anime effettivamente opposte e complementari che diventano, al contrario, una cosa unica ed inscindibile, gemellare nella loro enorme diversità; dissolvendosi ed integrandosi, invigorendosi vicendevolmente, non più perfettamente distinguibili ma singolare cosa rara come il mito, la leggenda e il ricordo, la tangibilità, la verosimiglianza e il racconto tutti insieme, mentre ogni pezzo si arricchisce di elementi ed intuizioni sempre più memorizzabili e caratterizzanti, inconfondibili dall’uno all’altro – un po’ come fossero indimenticabili capitoli di una più grande favola, di una saga infinita ormai totalmente fuori dai confini del tempo e che si tinge di realtà. Ma chi può poi dire, in fondo e con assoluta certezza, che non lo sia?

Matteo “Theo” Damiani

 

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