Inquisition – “Invoking The Majestic Throne Of Satan” (2002)

Artist: Inquisition
Title: Invoking The Majestic Throne Of Satan
Label: War Hammer Records
Year: 2002
Genre: Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Embraced By The Unholy Powers Of Death And Destruction”
2. “Enshrouded By Cryptic Temples Of The Cult”
3. “Kill With Hate”
4. “Rituals Of Human Sacrifice For Lord Baal”
5. “Invoking The Majestic Throne Of Satan”
6. “Hail The King Of All Heathens”
7. “The Realm Of Shadows Shall Forever Reign”
8. “For Lucifer My Blood”
9. “Imperial Hymn For Our Master Satan”
10. “Outro”

Essere di nuovo al cospetto delle fondamenta di una qualunque emanazione espressiva, ovviamente con negli occhi, nelle orecchie e nel cuore pure ciò che il soggetto di tali sforzi ha saputo proporre nell’arco temporale da suddette origini intercorso, cela dentro di sé tra le altre cose un indubbio fascino voyeuristico non per forza legato ad istanze nostalgiche soltanto marginali in questo discorso, ma più per il gesto di ritrovare e cogliere (per non dire spiare) le sofisticate menti dietro enormi capolavori nei loro attimi di incoscienza adolescenziale, idealismo giovanile ed in generale alle prese con scelte che tutto paiono indicare tranne che il sofisticato genio poi dimostrato con l’età e l’esperienza. Codesta forma di passatismo, a nostro dire ben più sana rispetto al misero vagheggiare dei trascorsi forse nemmeno così entusiasmanti ed in ogni caso lontani anni luce da ciò che i nostri beniamini sono e rappresentano attualmente, ci dovrebbe a rigor di logica spingere verso quello che gli Inquisition incidevano durante la formativa decade novantiana, verso insomma l’acerbo esordio su formato esteso Into The Infernal Regions Of The Ancient Cult” qualora non fino agli EP intrisi fino al midollo di violento integralismo Thrash Metal e figli dell’esperienza colombiana del solo Dagon; tuttavia, e sebbene rilasciato a quattro considerevoli anni di distanza dal debut (i quali oltretutto si sentono benissimo una volta premuto play), “Invoking The Majestic Throne Of Satan” ha lo stesso se non ancora superiore potere di mostrarci i due autori di sfavillanti perle nello scrigno nero d’ogni epoca qui lontanissimi dalla raffinatezza anche e soprattutto concettuale raggiunta in seguito, ed anzi ben lieti di decorarne l’artwork con pentacoli ed entità caprine in bella vista in quella che, ad oggi, parrebbe la copertina di un qualunque discaccio rilasciato da una qualsiasi band peruviana di quart’ordine.

Il logo della band

Due autori, esatto: poiché nel medesimo quadriennio è stata archiviata la questione bassistica con l’abbandono del misterioso Debandt, e ciononostante gli Inquisition nel 2002 hanno già all’attivo una manciata di concerti addirittura nel vecchio continente in cui il frontman inizia a sperimentare nuovi modi per rendere la propria chitarra allo stesso tempo un’ascia di precisione e taglio invidiabili ed un valido surrogato alle quattro corde necessarie alla visione del Black Metal massiccio, pachidermico che il duo porterà avanti per la gioia di tutti gli aficionados sparsi per il globo, allora molti meno che in futuro ma in ogni caso già sicuri di aver puntato sul cavallo vincente.
Di questa ricerca sonora “Invoking The Majestic Throne Of Satan” si fa dunque esito primigenio, in seguito sottoposto ad ulteriori migliorie eppure dopo due decenni ancora ricordato quale punto fisso nell’affermarsi di una creatura ai vertici della catena alimentare nel reame estremo: ambito dove, peraltro, gli Stati Uniti hanno impellente bisogno di nuovi leoni in vista dei bruschi stop in quella stessa annata di veterani portabandiera quali Judas Iscariot ed Absu. In questo vuoto, sempre con un’attitudine underground che frutterà loro grande esperienza e coriacea credibilità quando ci sarà da mandarne in pezzi il fragile glass ceiling, la seconda prova in studio della diarchia ormai stanziatasi a Seattle deflagra ribadendo una volta per tutte come anche nel paese senza storia per definizione si possano elaborare formule inedite nel genere – specie se preso in tandem col distantissimo ma nella stessa misura dirompente The Mantle” pubblicato di lì a un mesetto nella stessa Cascadia ora scelta come base d’operazioni da Dagon ed Incubus; tutto questo poi mentre, sempre nell’evergreen State, due fratelli danno vita ad una congrega di lupi destinati anch’essa a dire tantissimo nel panorama statunitense a seguire.

La band

Si respira insomma un’aria di svolta portata dai venti di nord-ovest, e per quanto la coppia pittata avesse già modellato parecchie linee guida del proprio stile con l’opera prima (dalla scrittura dei pezzi al classico muggito del vocalist) è qui che vengono fissate le vere fondamenta sulle quali si reggeranno almeno altri due maestosi full-length di lì a venire. L’avvio a colpo di cannone di “Embraced By The Unholy Powers Of Death And Destruction” non tarda a schierare subito in prima linea la base sonora definitiva che questa band manterrà lungo vent’anni di scorribande in studio e sul palco: ribassato, grasso e soffocante ma tuttavia capace di slanci ritmici tanto semplici quanto spettacolari, tipo il pantano groovy conclusivo innescato dalle melmose sei corde e da cui si esce con grumi di fango tra i capelli ed il collo assai dolorante. L’apparente caoticità la quale serpeggia sulla travolgente opener, sui primi tre movimenti in toto, e che sempre in apparenza dovrebbe in qualche maniera giustificare certi farseschi paragoni con gli Immortal, viene in realtà smorzata dall’altra arma nemmeno troppo segreta, ma solo ben camuffata degli Inquisition, ovverosia il batterismo quadrato e limpido di un Incubus che lima ogni orpello e dirige le mosse in maniera diametralmente opposta all’atletico Horgh – per non dire dell’Abbath sentito nel ’95.
Se però la tripletta inaugurale vede il pedale del gas quasi sempre ben premuto, la seguente si fa al contrario maggiormente tridimensionale aggiungendo alla già squisita ricetta il marziale rigore ritmico della title-track così come i luminosi lampi che costellano i riff di “Rituals Of Human Sacrifice For Lord Baal” e “Hail The King Of All Heathens”, episodi di cristallina classe melodica esibita ben prima del salto di qualità fatto verso la fine della decade. Alla pari di qualsivoglia altro grande artista, Jason Weirbach e Thomas Stevens gravitano del resto tra molteplici poli opposti ed infine li sincretizzano in composizioni supreme del calibro di “The Realm Of Shadows Shall Forever Reign”, dove ferocia e meraviglia si uniscono e danzano tra i corpi celesti facendoci intravedere quel radioso avvenire su cui pochissimi, di fronte a forma e sostanza di “Invoking The Majestic Throne Of Satan” come del suo predecessore, avrebbero osato realmente scommettere.

Ogni album di svolta degli Inquisition arriva prima della firma di un importante contratto discografico, magari volto proprio a premiare il loro coraggio di mettersi in gioco in ottemperanza alla versione diabolica del tanto vituperato sogno americano di cui questi signori saranno protagonisti: subito dopo l’avanzamento in produzione e tiro su “Invoking…” si apriranno infatti le porte della prestigiosa bottega sotterranea No Colours, mentre il masterpiece di un’intera poetica e carriera “Ominous Doctrines Of The Perpetual Mystical Macrocosm” varrà l’ingresso nel dorato quanto caduco reame di Season Of Mist. Nonostante un simile confronto possa tagliare le gambe ad ogni altro lavoro, l’opera seconda degli statunitensi ha dal canto suo retto splendidamente i suoi vent’anni di esistenza rivendicando per di più il proprio ruolo centrale nell’insolito cammino di Dagon ed Incubus, riconfermatisi reparto da prima linea instancabilmente devoto alla causa del Black Metal lontano dai riflettori, nonché menti dalla sensibilità in continuo evolversi.
Ci sarebbe stato ancora molto altro per il duo da trasmettere e per il suo pubblico da ammirare prima della consacrazione alla fama mondiale, sia con l’ulteriore miglioramento di fattura di nome “Magnificent Glorification Of Lucifer” sia con i piccoli hint sparsi lungo il propedeutico Nefarious Dismal Orations”, ma la strada già indicata nel 1998 ed intrapresa nel 2002 non avrebbe infatti tardato a rivelarsi quella giusta sotto qualunque aspetto la si sarebbe poi guardata.

Michele “Ordog” Finelli

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