Inquisition – “Black Mass For A Mass Grave” (2020)

Artist: Inquisition
Title: Black Mass For A Mass Grave
Label: Agonia Records
Year: 2020
Genre: Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Spirit Of The Black Star”
2. “Luciferian Rays”
3. “Necromancy Through A Buried Cosmos”
4. “Triumphant Cosmic Death”
5. “My Spirit Shall Join A Constellation Of Swords”
6. “Ceremony For The Gathering Of Death”
7. “Majesty Of The Expanding Tomb”
8. “A Glorious Shadow From Fire And Ashes”
9. “Extinction Of Darkness And Light”
10. “Hymn To The Absolute Majesty Of Darkness And Fire”
11. “Beast Of Creation And Master Of Time”
12. “Black Mass For A Mass Grave”

Tempo e spazio convolano a teosofiche nozze, partecipanti attivi, fluido ma granuloso sangue nero nella maestà di un purpureo cielo notturno costellato di occhi puntati sull’infinità dell’assoluto mistero della creazione, nell’universo esteso tra morte e decadimento, tra vita ed espansione, nel giardino di arcane delizie di origo deittica che gli Inquisition colgono con la fermezza rituale di mantra apotropaici per messe nere, brusiti in ottempramento di quella ricerca, di quella investigazione nei confronti della natura antroposofica del male, del Palladio e del suo segreto scavato fuori dalla macabra potenza visiva di archeologiche fosse comuni; l’immagine di ciò che, in una tradizione iconografica che va tratteggiandosi da Atena fino all’Avversario, dalle grandezze di un Paradiso cadde fin giù per placarsi.

Il logo della band

È lo spirito di un passato, insomma, quello che risplende nella coltivazione di una cosmosofia luciferica sondante l’architettura dell’essere umano, dell’essere del Sole trino, quell’indimenticato e massimo tesoro spirituale di steineriana memoria dell’umanità, che offre al contempo il la per lo sviluppo ancor più attento ed introspettivo di una sovracoscienza nella vita oltre la morte, così come -più materialmente parlando- al cambiamento annunciato in una tradizione che, rispettata con fede, si evolve; di mezzi comunicativi che -il Black Metal non fa differenza in quanto linguaggio esso stesso- appartengono alla sola necessità espressiva e mai a sedicenti guardiani, i quali, barbarici, lamentano con il vuoto sofismo di una fallace ed incompresa purezza gli utilizzi maggiormente ricercati di un lemma per incapacità e scarsa educazione alla sensibilità personale; coloro che non possono dunque soffrire sviluppi che sono vitali e non impoverimenti, perché finché questi vengono compresi alla fruizione mostrano un’ovvia comunanza con le origini – qualora anche, e spesso fortunatamente, tale non lo sia con i suoi standard e aride convenzioni. Il linguaggio, non lo si scordi, è natura umana: dove vi è bisogno ed assoluta necessità di una sfumatura per poter esprimere un concetto, veicolare un’osservazione – questa verrà creata con naturalezza infantile a prescindere da ogni giudizio estetico, incurante di qualunque dibattito attitudinale.
Nel fortunatissimo caso di “Black Mass For A Mass Grave”, ciò si traduce nello sviluppo auspicato di una vocazione strumentale -quasi una terra di nessuno- che nella title-track muta di “Bloodshed Across The Empyrean Altar Beyond The Celestial Zenith” del 2016 forniva pressappoco un elegante indizio, un suggerimento inconscio ma direzionale invito ai suoi creatori affinché potesse esserne propagato il distintivo stile cosmico e fatto divenire finalmente parte integrante, trait-d’union squisito in musica e testi, questa volta in effettive canzoni che assumono così contorni e chiaroscuri più ritualistici che mai.

La band

La riformulazione nelle aperture orientali della ricerca tonale, e si osa asserire metafisica, in un’espansione che così muovendosi respira e pulsa, che si sviluppa e contrae sequenziale tra inspirazioni ed espirazioni ritmiche nel vivere i sacerdozi di una cultura pagana antica, preistorica, si fa evidente nell’eloquenza del distacco: di ali che si aprono e scansano ieratiche la mondanità della massa, inevitabilmente destinata alla tomba a cielo aperto su cui ridono compiaciute le stelle nella notte. L’ascetismo induista diventa un respiro udibile, lento e regolare, nel frusciare di taglienti bandoli d’acciaio freddi ed impenetrabili come le altezze dei monti più candidi ed incontaminati, nella codifica di sfere planetarie rovesciate in musica dalla rotondità spigolosa degli arpeggi distorti pieni di rifrazioni e gain; dalla perizia sempre più scientifica nel metodo con cui vengono costruite le complessità gerarchiche di layer su layer per rendere additive le ripetizioni e sempre più ricche di eloquente grandeur le reiterazioni, create nel processo studiato di apertura degli accordi di chitarre arrangiate imitando la musica da camera (o, lo si preferisca, gli Hades di “The Dawn Of A Dying Sun”) nonostante sovrastino la semplicità Hard Rock dei power-chord più basilari.
Un trademark che si trasforma in sguardo distaccato e quasi divertito alle -e dalle- sorti materiali e terrene dell’umanità, ferita forse non nel fisico ma certamente a morte nello spirito, condannata all’oblio da un mondo che -non senza un ghigno diabolico- già sa che non l’aspetterà, forte di quel diritto inoppugnabile di gettarla nella tenebra dell’eterno del bidone della spazzatura di un progresso che sfugge alle mani del creatore; al contrario, con una nuova ricercatezza dal valore tanto alto da essere quasi psicoanalitico, gli Inquisition lasciano abbandonarsi affascinanti rifrazioni suadenti, aperte e quasi incorporee, evanescenti, come venti dallo spirito siberiano in distensioni musicalmente ipnotiche, traduzioni di riflessioni, meditazioni e di una morbosità oscura fatta quanto mai di lentezze (le atmosfere dal mantello Doom di “Desolate Funeral Chant” fortissime non nella sola “My Spirit Shall Join A Constellation Of Swords”), euritmie, di un fluttuare cadenzato a cui è mandatorio abbandonarsi e lasciarsi travolgere sospesi nell’etere che il duo intesse con una perizia precedentemente nemmeno mai sfiorata.
Le invocazioni del gracidare animista di Dagon, incantatore magnetico tra ambrati rantoli su sfondo cremisi e ronzanti litanie, sprigionano con pesantezza tombale pura devozione e religiosità tramite l’inumana voce che si fa canto di gola ed incarna non di rado gli stilemi della spiritualità di un’America centro-meridionale che apre l’occhio cosmico (in “Extinction Of Darkness And Light”, su tutte); ma è la capacità di tessitura melodica dalle rifrazioni psichedeliche nell’insieme coacervico di rumorismo che presenta qui una maturità da acclamare, che permette alla band di lasciare da parte l’ultraviolenza più esplicita – quella della conclusione “Beast Of Creation And Master Of Time” come dell’opener, ripresa dalle rigenerazioni di “A Glorious Shadow From Fire And Ashes” e che, giunti al disco numero otto e senza variazione sul tema, diventerebbe altrimenti puro esercizio stilistico. Le capacità della band si traducono invece nel metalinguismo che fa dialogare un Black Metal indistinguibilmente marchiato Inquisition alle credenze mistiche e concettuali, ai contenuti cognitivi che vanno necessariamente oltre il cantato, e che vi si esprimono come medium piramidale facendo ancorare immagini inconsce nella mente dell’ascoltatore.
Il risultato è cataforico: va obbligatoriamente riconosciuto come un disco del duo statunitense, a prescindere dalle singole caratteristiche tecniche di suono, mai abbia prima d’ora avuto un tale grado di fluidità, interconnessione tra brani e scorrevolezza fatta di coerenza, coesione e significato; un livello di costruzione complessiva di un testo unico che porta l’ascoltatore ad essere coinvolto nel percorso più che nei singoli pezzi, e questi ultimi ad allargarsi ed espandersi di conseguenza proprio perché forti delle sottili, liminali e straripanti prossimità di tessuto con gli altri, con cui si combinano e convivono per creare il suono di universi che implodono ed esplodono mediante rilasci improvvisi di energia e crescendo compositivi (il dinamismo articolatissimo di “Triumphant Cosmic Death”, tra occultismo negromantico ed esplorazioni oniriche splendenti), di costellazioni celate in diademi affogati da frequenze celestiali, in prismi di complesse stratificazioni armoniche sulle ormai tipiche deformazioni chitarristiche. Ivi viene dipinta la macabra danza delle ombre, proprio nelle sezioni ultralente ammantate di rigogliose, nobili melodie scintillanti (una cascata stellare dorata in “Spirit Of The Black Star”, nebulizzata come il fluire della Via Lattea nella malinconia distante di “Necromancy Through A Buried Cosmos”), tra riff a strascico e slide spioventi mentre un pastrano, un cappotto di note liquide che tagliano il muro del suono (spettrali soffi di morte ridente, aleggianti misterici in “Majesty Of The Expanding Tomb”), fa sgretolare tutto nei rallentamenti sotto al tono pachidermico e fendente della chitarra satura di frequenze come le squame di un rettile, che fustiga e sperona un’aura di corpi eterici e corpi astrali sprigionando vigore cosmico nelle esultanze d’ispirazione ellenica (“Luciferian Rays” forse il più lampante esempio di oscurità e zolfo come fil rouge che collega con facilità il gusto delle nuove composizioni). Nel mentre la velocità assassina si scioglie in ampiezze atmosferiche, in cavalcate e desolazioni western che hanno il sapore folkloristico del lugubre spiritualismo indigeno; si dischiude così con nitidezza un nuovo obiettivo, delle nuove possibilità espressive si aprono e una nuova posizione nel panorama s’intravede per conseguenza: il senso di fine si mischia a quello di un’adombrante estinzione di luce ed ombre in una sola materia, di un nuovo inizio tramite una palingenesia in inni di fuoco e cenere alla gloria dello spirito sacrificante le svuotate corse alla ferocia formale che, quando riappare invece fatua e orchestrata da una band capace più che mai di coinvolgere l’ascoltatore con fini stratagemmi di coercizione, fa emergere megaliti eteni dalle cui ombre si stagliano lucori di astri, un gusto ed una passione inespressa di Incubus nei momenti che trascinanti si adagiano e portano alle estreme conseguenze -nonché successo- l’opulento minimalismo nei toni caldi e squisitamente analogici da oltre vent’anni sviluppato dagli Inquisition con l’originalità sottile di nessun altro, qui chilometricamente distanti da qualunque nemesi di paragone stilistico.

La grandezza è quindi afferrata su vari livelli: dall’originalità delle benedizioni sussurrate a fior di labbra da morte e diavoli che tutto inglobano in un album di profondità inedite più che di immediatezze come raramente rilasciato dalla band, pronta ed armata fino ai denti per il Giorno del Giudizio, mai così atmosferica ed avvolgente le sinapsi come in “Black Mass For A Mass Grave” – un’eulogia scheletrica dal canto suo per il funerale del mondo come lo conosciamo, un successo di disco che prende intuizioni e le mescola per creare una versione che, con ogni probabilità, non era mai stata altrettanto rinnovata dal duo nella sua storia, facendogli raggiungere così la sineddoche più alta, nitida e realistica della sfumatura amorale tra vita e morte, tra bene e male in cui tutto si sfalda, in cui mazze chiodate diventano snelle lance affusolate ancor più letali. Laddove, insomma, la pesantezza della stella del mattino si stempera nella bellezza atonale di vortici di lame dal potere atomico nel senso più stretto del termine: quello di un nucleo forte e al contempo pregno di indivisibilità, per permettere al vuoto di permearvi dentro senza annientare, di banchettare con le emozioni e di distendere il sudario, morta l’anima, sull’inverno della carne per poter abbracciare la primavera dello spirito tramite tutta la dettagliata ricchezza di un macrocosmo fatto musica.

Matteo “Theo” Damiani

Precedente Pagan Storm News: 20/11 - 26/11 Successivo Weekly Playlist N.47 (2020)