Immortal – “At The Heart Of Winter” (1999)

Artist: Immortal
Title: At The Heart Of Winter
Label: Osmose Productions
Year: 1999
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Withstand The Fall Of Time”
2. “Solarfall”
3. “Tragedies Blows At Horizon”
4. “Where Dark And Light Don’t Differ”
5. “At The Heart Of Winter”
6. “Years Of Silent Sorrow”

Certe volte sembra davvero che l’intero mondo ce l’abbia con te, senza una motivazione precisa ma solo per un qualche disegno del fato che ti ha relegato dalla parte sbagliata della barricata, in mezzo alle riserve di una squadra destinata a perdere la partita — e perderla di brutto. Certe volte pare che le circostanze si mettano in accordo per abbatterti, troncando sul nascere ogni tua spinta vitale col doppio effetto collaterale di farti da una parte ridere amaramente della tua ingenuità, e dall’altra di nutrire quell’accidioso lato del tuo essere affamata solamente di inedia ed auto-compatimento. Ebbene, a costo di risultare a dir poco banali, è difficile andare a recuperare quel magnifico capolavoro di nome “At The Heart Of Winter” senza rinverdire il vecchio adagio per cui, quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare; dicono siano dopotutto le grandi sfide a fare i grandi uomini, ed in certi casi suona senz’altro quantomeno vero per i grandi dischi. Escludere da una retrospettiva dedicata al quinto lavoro in studio degli Immortal la sua dimensione (e conseguente importanza) storico-narrativa all’interno del percorso del monicker costituirebbe pertanto un’esecrabile calunnia ai danni di un’opera dai così tanti risvolti artistici e personali; una che da ogni fibra della propria identità estetica e contenutistica trae un più unico che raro senso di rivalsa contro le ben note circostanze avverse succedutesi nel biennio immediatamente precedente: v’è da una parte il co-fondatore Demonaz divorato dalla tendinite dopo anni spesi a massacrare le sei corde e di conseguenza il proprio braccio destro, mentre dall’altra l’interlocutorio predecessore Blizzard Beasts” che ha lasciato buona parte della fanbase non esattamente convinta da quel rifferama Death Metal abraso da un mixing ampiamente migliorabile; il tutto, così per il gusto di complicare la faccenda, con sullo sfondo un 1999 che come prevedibile porta con sé in un colpo solo le angosce di fine millennio appaiate a quelle dovute all’esaurirsi della decade fondativa del Black Metal, alle quali nuove leve ed attempati veterani al pari stanno reagendo ognuno per conto suo, in un caos scordinato sebbene sia, proprio per questo, sittanto affascinante.

Il logo della band

In parole e povere povere, nonché per continuare con le espressioni di circostanza, nessuno avrebbe nel 1999 scommesso un centesimo sulla riuscita di un nuovo album degli Immortal, ed è con tutta probabilità il condottiero superstite Abbath ad accorgersene per primo percependo una crescente tensione intorno a sé, ma trasformandola così in energia positiva nel riversare all’interno dell’episodio in assoluto più impegnativo di tutta una carriera. Rimasto da solo sotto la luce -ora celebrativa ed un attimo dopo ustionante- dei riflettori, il cantante e fu bassista sceglie come meccanismo di difesa di gonfiare il proprio ego e prendersi qualunque rischio possibile, assumendo il controllo di ogni strumento ad eccezione della batteria saldamente in mano al fidato Horgh ed infrangendo senza timori e ripensamenti il tabù delle megaproduzioni certamente sdoganate da ormai un paio d’anni in Norvegia, e ciononostante distanti anni luce da quello che il logo Immortal aveva rappresentato fino ad allora: lo stesso logo che non a caso nel 1999 viene cambiato in copertina e reso con sfacciata audacia assai più leggibile, di pari passo alla ferrea tradizione dei membri ritratti su anguste copertine fotografiche soppiantata adesso da un disegno a dir poco mozzafiato firmato da Jean-Pascal Fournier, disegnatore le cui vedute a tema fantasy avranno presto abbastanza successo nei filoni Power e Folk prima di alcuni fatti di cronaca ben poco edificanti aventi lui per protagonista.
Ogni aspetto di “At The Heart Of Winter” urla insomma a pieni polmoni la voglia e forse persino la necessità di rinnovamento avvertite da Abbath, anticipate come visto dal non poco rivoluzionato corredo iconografico e concretizzatasi in brani dal minutaggio spesso e volentieri raddoppiato rispetto alla media antecedente, oltre che dotati di titoli e liriche, invero sempre vergate da Demonaz, dalla forza immaginifica anch’essa per lungo tempo trascurata (si compari una “Frostdemonstorm” qualsiasi a “Tragedies Blows At Horizon” o “Where Dark And Light Don’t Differ”). Non si temono i giudizi severi delle schiere di critici rimasti inchiodati al 1995 ed ansiosi di bruciare in partenza un altro prodotto della band di Bergen, e se ciò non fosse già chiaro dalle generalità fornite in anticipo ci pensa allora la conferma di sua maestà Peter Tägtgren alla plancia degli Abyss Studios a prendere una volta per tutte di sorpresa ogni seguace della Nera Fiamma. Gli Immortal, paladini del lato più ferale e sanguigno dell’attitudine True Norwegian, si alleano dunque con colui che fu prima ideologo dell’ondata melodica venuta dalla nemica Svezia, e poi corruttore della purezza norrena attraverso i suoi esperimenti insieme a Gorgoroth, Enslaved ed ovviamente i discussi Dimmu Borgir.

La band

Dopodiché, sul finire dell’inverno del ‘99, è finalmente la musica a parlare: e se da una parte la saga di Blashyrkh poteva già contare su almeno due pietre miliari erette lungo un sentiero fatto di costante mutamento e messa in discussione delle proprie stesse prospettive, poche sono d’altro canto le testimonianze afferenti al reame del metallo nero su cui Tägtgren sia riuscito ad imprimere un sound così dannatamente azzeccato, sia in linea coi tempi e con la sensibilità del direttore d’orchestra in casa Hypocrisy che malleabile a sufficienza da prestarsi alle esigenze creative di un musicista in cerca di una nuova identità. Pur lontana dalla compressione assassina dei Marduk che nel medesimo anno verrà spinta alle sue estreme conseguenze, la nuova veste ricamata su misura per il duo del Vestlandet coniuga gli scricchiolii ghiacciati del gain tanto amato dal monicker ad un’ampiezza di frequenze e respiro invece totalmente nuova, alla quale si deve la riuscita del capitolo dalla potenza scenografica di gran lunga maggiore nel pure ricco curriculum del gruppo.
Dando allora per assunto che ogni grande brano di apertura deve sin da subito mostrare i punti di forza dell’intero opus, “Withstand The Fall Of Time” coi suoi sublimi otto minuti e mezzo spaccati va anche oltre offrendo subito una panoramica sul minaccioso paesaggio ritratto in copertina, ricco di dettagli esattamente come l’ardita composizione in oscillazione perpetua tra incipit blackeggiante, digressioni Heavy e Thrash Metal (da sempre pallino del leader) le quali sono il nocciolo di “At The Heart Of Winter” e della rivoluzione da esso incarnata, come pure dei minuscoli lampi Folk sui malinconici ritmi in levare subentranti al refrain. La scrittura di Abbath si fa inaspettatamente tentacolare, si abbevera dalla grandiosità degli Emperor mantenendo al contempo l’approccio asciutto e oscuro dei Bathory, e così facendo il signor Olve Eikemo lascia una volta ancora il suo nome tra le firme storiche in grado di aprire nuovi orizzonti sia ad un’entità già leggenda sia ad un genere entrambi colti in fasi cruciali del proprio continuo sviluppo; immaginarsi ai tempi di “Battles In The North” gli Immortal alle prese con arpeggi effettati e riff a base di palm-muting e saliscendi di scale minori, in una specie di versione sottozero dei classici borchiati di metà anni ’80, sarebbe stato definito come allucinazione pura e semplice, ed invece ecco che prima “Solarfall” e poi la gargantuesca “Tragedies Blows At Horizon” riformulano il DNA del progetto con un impeto -in songwriting quanto in esecuzione- non solo spettacolare ma capace di scavare veramente sino al cuore di chi ascolta.
L’impatto melodico portato sul palmo della mano dal tellurico sound design fornisce armi mai utilizzate prima dal reparto scelto norreno, il quale si esibisce in piccoli gioielli di metallo sì estremo ma per certi versi accessibile quali “Where Dark And Light Don’t Differ”, con quel ritornello a base di sinistri hammer-on ed epicheggiante malignità, ed in special modo la cavalcata omonima che da un filo di vento tramutatosi in sintetizzatore riversa una heavy song cadenzata, sontuosa nelle sue pennellate color blu azzurrino trasmesse da armonie galvanizzanti ed assoli enfatici, plastica riproduzione di un album dove rischia persino di passare sotto i radar una riuscitissima “Years Of Silent Sorrow”, che di lì a poco chiuderà l’ennesimo riascolto di questo prodigio a sette tracce; e se si tiene a mente il talento degli Immortal nel mettere i punti esclamativi finali alle loro fatiche discografiche, tanto da renderli spesso degli highlight nelle rispettive opere (“A Perfect Vision Of The Rising Northland”, “Blashyrkh”, “Damned In Black”, “Beyond The North Waves”, per non tacere di “Pure Holocaust”), allora appare chiaro lo stato di assoluta perfezione, l’autentico cuore dell’inverno cui essi sono giunti tramite “At The Heart Of Winter”.

Spesso e volentieri i lavori migliori di un collettivo sono quelli dove ogni membro, nelle dovute proporzioni, contribuisce aggiungendo una sua particolare ispirazione all’insieme e lasciando che esso si evolva da sé creando quei cocktail di varie suggestioni e tendenze auto-limitanti l’una con l’altra e per questo capaci, anche nei casi più eccessivi, di una certa misura compositiva talvolta necessaria alla credibilità dell’operazione. In altre circostanze, tuttavia, è come abbiamo visto la semplice fame di un solo uomo a muovere tutte le pedine in campo, magari dopo vicende non soltanto artistiche le quali hanno richiesto la discesa in campo di una personalità forte abbastanza da fare tabula rasa d’ogni impiccio: l’Andrew Eldritch di “Floodland”, il Jerry Only della rinnegata coppia “American Psycho”“Famous Monsters”, e sempre più nel profondo il Tom G. Warrior di “Eparistera Daimones” sono figure che ne sanno qualcosa al riguardo, tutte ad un certo punto chiamate a rimettere le cose a posto; ciascuno armato di uno strumento diverso eppure tutti accomunati dall’umano risentimento col destino, il quale come reazione li ha portati al limite delle proprie forme espressive sublimate in platter che sono il distillato più puro delle loro rispettive visioni del mondo. Barocchi e pesanti, se vogliamo, ma appunto per questo estremamente vitali. Tra simili testimonianze, all’interno del genere per definizione affollato (per non dire appestato) dalle one-man band pascenti nell’isolamento di convenienza, spicca varie spanne sopra gli altri l’”At The Heart Of Winter” figlio di un’autentica one man army in cerca di rivalsa e pronta a giocarsi ogni briciola di status rimastogli per ottenerla.
Si spiega pertanto come mai gli Immortal del Nuovo Millennio (così come del resto, con esiti creativi a dir poco distanti nella sua sciatta carriera solista), siano stati e siano ancora dopo venticinque anni una rincorsa continua da parte di Abbath di quel maestoso full-length registrato con gli occhi del mondo addosso, con tutte le carte sbagliate in mano e con in testa un disegno che quasi sicuramente ha preso forma solo una volta ascoltato il master definitivo; la completa, totale ed a posteriori deleteria simbiosi tra autore e opera, che nel caso specifico dell’icona norvegese avrebbe condotto ad una graduale perdita di senno poi allargatasi all’intera formazione. Un po’ come se “At The Heart Of Winter” costituisse un intonso monolite bianco atto a compromettere la lucidità dei suoi stessi autori, ma uno che nondimeno due decadi e mezzo fa segnò un’altra di quelle resurrezioni insperate che la musica popolare, in qualsiasi forma immaginabile, ogni tanto sa regalarci.

Michele “Ordog” Finelli

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