Heltekvad – “Morgenrødens Helvedesherre” (2022)

Artist: Heltekvad
Title: Morgenrødens Helvedesherre
Label: Eisenwald Tonschmiede
Year: 2022
Genre: Folk/Black Metal
Country: Danimarca

Tracklist:
1. “Morgenrødens Åbenbaring”
2. “Ærbødig Er Den Som Sejrer”
3. “Ved Sværdets Klinge Skal Du Forgå”
4. “Eder Og Hæder”
5. “Fornægter Din Æt”
6. “Du Skæbnesvangre Stund”
7. “Døden Står Ved himmelens Port”

Scrisse Karen Blixen una settantina di anni or sono che tra le persone le quali vivono del mare e sul mare, in maniera più che esclusivamente ricorrente, la realtà e la fantasia, la verità storica e la suggestione mitologica sono curiosamente intessute in una cosa sola. Anche senza ricorrere all’esempio più eclatante dello storicamente isolato archetipo islandese con il suo patrimonio fatto di saghe, il fatto sembra del resto trovare più d’una conferma nella stessa terra natia dell’autrice che per tutta la sua vita, tra le altre cose non troppo fiera del titolo nobiliare in von Blixen-Finecke, si fece piuttosto passare per uomo con lo pseudonimo d’Isak Dinesen raccogliendo con esso -abbastanza ironicamente- gli onori del pubblico nelle più disparate terre straniere, prestando la penna alle loro lingue più che in patria: proprio quella Danimarca in cui per ogni Morild ed Afsky si trovano due Mercyful Fate ed Heltekvad, per ogni Nortt sbucano due Angantyr ed Orm; dove insomma per ogni attenzione dedicata al trasversale piano del visibilmente sensibile, se non del sociale, ma comunque del praticamente percepibile e del facilmente sperimentabile con mano, due sforzi vengono invece profusi in una direzione apparentemente contraria: verso un passato anche spiccatamente mitico che, accarezzato dalla salsedine, ne esce così trasmutato in storie di spettri del tempo remoto – ora feroci nelle soffitte delle vecchie e abbandonate case dell’Hovedstaden, i loro abitanti raggomitolati nella notte e nella paura delle infestazioni spiritiche, adesso invece ancor più lontani, periferici e rester, esuli ovvero di altre vite più vicine o di un’epoca distante e intrisa di neri, occulti miti che non smettono mai di affascinare non meno che di turbare.

Il logo della band

Ma a pensarci bene l’esperienza a cui si rifanno gli Heltekvad (giovane band i cui tre membri hanno già casa proprio in Morild, Afsky e Sunken), proprio in virtù del suo essere così oscurantista e passatista, non è in fondo nemmeno esattamente danese in termini. Quantomeno, non strettamente tale – non soltanto. Innanzitutto “Morgenrødens Helvedesherre”, il disco di debutto giunto oltre un anno dopo la presentazione di un singolo brano avvolto dal più solenne mistero prima della firma con Eisenwald finalizzata a lasciare che questa prima opera vedesse finalmente la luce del giorno, o meglio l’alba rosso sangue di cui si fa araldo musicale, è presentata come una fiaba edita in sette capitoli. Et eventyr i 7 kapitker, più precisamente parlandone. Né l’ampliamento da cinque a sette, né il passaggio dal dano-norvegese ottocentesco al parzialmente più moderno danese del sud del paese, possono tuttavia nascondere quella che è una citazione delle più volute e meno velate a cui si possa anche solo provare a pensare: la volontà di dialogare con un caposaldo di un genere, con però la sola forza dei propri mezzi e senza prenderne in prestito altri dal citato caso in oggetto; la dichiarazione d’intenti nel conversare con un valore estetico, con tutto un modo letterario e suggestivo di confrontarsi col proprio passato nazional-geografico che, partendo proprio dalla eeventyr i 5 capitler degli Ulver (l’iconico “Bergtatt” del 1995, vale chiaramente a dire), rimanda fascinosamente ancora una volta a degli spiriti nel tramite della figura emblematica del Peer Gynt e degli spettri del passato che tornano a esigere un conto ai figli del presente: tutte figure da cui era in fondo particolarmente tormentato lo stesso autore dell’eterno ragazzo figlio di Jon Gynt, un certo e illustre drammaturgo dalla fu Kristiania che scriveva le battute e le trame delle sue acute opere in quel dano-norvegese intriso del medesimo dialetto ululato dai lupi della divenuta Oslo un centinaio di anni più tardi, inebriati dal sangue già versato a metà di quella maledetta decade negli immediati circondari.

La band

Nel caso più circoscritto del nostro riverito Black Metal infatti, e non di rado nel corso dei suoi ormai circa trentacinque anni di esistenza (lustro più, lustro meno, in base alla critica preferenza del lettore in fatto d’antesignani e portatori primi di torcia -siano questi “A Blaze In The Northern Sky”, “Under The Sign Of The Black Mark”, o magari “Worship Him” se non “Welcome To Hell”– esempi che possano insomma fornire con un qualche grado d’imprecisione un effettivo punto zero), questa fascinazione per il passato, a non volerla definire una vera e propria fissazione, si esprime principalmente nel tramite del linguaggio figurativo tipicamente attribuito alla media aetas con tutto il suo infinito carico di mise e riferimenti anche estetici; nella lingua di quello sconnesso e turbolento periodo dove, volendo localizzarci maggiormente nel tentativo di venire al disco in questione, ergo nella remota Scandinavia del ‘4-500 ove sopravvive la radice popolare dell’alta cultura europea medievale per come la conosciamo, le corone di Danimarca e Norvegia furono non per caso più sovente una cosa sola e transnazionale piuttosto che due entità distinte. È la lingua che si sbraita in una nave dei pazzi che non vola a pelo d’acqua sulla strada delle balene, sul soffio delle figlie di Ægir, bensì su ruote di legno traballanti come in uno di quegli strambi dipinti fiamminghi del 1500 la cui vista ci fa un po’ sorridere talvolta, per provare a mettere in parole e comprendere in qualche modo il suono di “Morgenrødens Helvedesherre” e ciò che vi accade dentro. Sette capitoli di una scoordinata fiaba che, come infinite altre prima di sé e nondimeno nel suo stesso tramite, spaventa con le sue storie di fantasmi interiori come collettivi da esorcizzare, di rozze queste e profezie da compiere, tiranni da abbattere e di mille altre diavolerie messe non solo su carta ma in primis resi storta musicalità nel lucido albeggiare di melodie maggiormente dissonanti ed angosciose (perfino l’incipit dell’opener “Morgenrødens Åbenbaring” n’è perfetto esempio) rispetto all’abitudine del Black Metal dalla matrice concettualmente e stilistica medievale come sviluppatosi particolarmente negli ultimi quindici anni. La trasparenza opaca di questi riff sghembi, nel loro modo di risuonare e tagliare il padiglione auricolare, è certamente quello teso nell’arco che porta dal panegirico della degenerazione al “Folkfuck Folie” dei Peste Noire più che degli apprendisti troppo spesso indebitamente creditati, e questo è innegabile quanto necessario che venga sempre riconosciuto; e ciononostante i danesi riescono nel far sì che questo ben familiare stratagemma, che ha ormai dato letteralmente vita ad un’intera scuola di cui non vogliono ergersi come bassi o tardi epigoni semplicemente, nel loro singolare caso faccia davvero suonare le corde elettrificate come tozzi fiati medievali e liuti barocchi suonati per le piazze al risuonar di canti dal sapore cavalleresco. In un certo senso è rivelatrice della tendenza melodica proprio l’apripista “Ærbødig Er Den Som Sejrer”, un piccolo manifesto stilistico che con questi acustici strumenti nella loro veste acustica si apre (come altrettanto naturalmente si chiude la successiva traccia) per poi come elettrificarli nell’effettiva partenza del brano.
Una ballade cuntre lo anemi danor che nei suoi sette brani fatti di magiche soluzioni nervine e claudicanti smorzate in strani canti monastici all’ombra inquietante di una cattedrale (“Eder Og Hæder”), di una dinamica sempre avvincente tra tempi seriamente lugubri e tormentati (“Fornægter Din Æt”) spediti col battito di ciglia di uno schizofrenico nella danza tra le più vivaci e veloci, sgraziate fiamme di un’aurora cremisi e infernale (“Ved Sværdets Klinge Skal Du Forgå”), è costantemente capace di abbracciare con l’udito un ampio spettro affastellato di sensazioni irregolari e sdentate che vanno dall’assurdo di una già citata “Eder Og Hæder” al profondamente drammatico con cui si apre il pezzo da novanta “Du Skæbnesvangre Stund” (con quella sua rullata assassina che fa sognare…), sospese e rapsodiche all’interno dello spazio dei singoli brani al pari di una gesta danorum celebrante però il caos medievale. Ma il suo blasone è nondimeno già lucente: le chitarre della magnifica cavalcata in “Døden Står Ved Himmelens Port” ergono alti stendardi dorati nel suo lancio verso il clangor di spade e subito dopo, condite dalle prodezze canore di una voce che non spreca neanche una goccia della sua malata sensibilità in urla martoriate, esasperate ed angustiate verso un cielo muto come la storia in tutta risposta, nonché da sprazzi folkloristici che sembrano campionati direttamente dalle piazze sporche di un’altra e lontana età per tutto l’album, i messeri Ole Luk, Simon Frenning e l’omonimo Skotte danno in un debutto persino lezione di trionfale, finissima tessitura atmosferica a tantissimi nel filone di quel Black Metal che fa ricca incetta di scenari fantastici e medievali, qui vividi e reali come raramente accade di ascoltare.

“Morgenrødens Helvedesherre” è dunque una prima prova d’eccezione, decisamente interessante e diversa, sorprendentemente ricca di carattere benché non totalmente priva di difetti minori che tuttavia non ne pregiudicano mai la bontà complessiva. Impossibile non notare a conti fatti una qualche mancanza di ulteriore spessore di fondo che non gli permette presumibilmente di restare -per il momento- longevo quanto altri esempi del più fino Black Metal dell’annata in corso o anche solo del suo filone (sebbene già infinitamente superiore sotto ogni punto di vista ai vari e ben più rodati Véhémence, Aorlhac, Obsequiae o Darkenhöld); oppure come la composizione di brani anche molto diversi tra loro e sempre perfettamente caratterizzati potesse tuttavia sicuramente svilupparsi e progredire meglio di così al suo interno (cosa che verosimilmente farà in futuro); e tuttavia quel che resta è che “Morgenrødens Helvedesherre”, anche quando gioca al palese gioco d’altri, segue le sue sole regole rendendosi già in più d’un verso unico: tutto il dramma di cui è intessuto un disco come il primo del trio danese si fa beffardo, caricaturale e fiato autoriale di vagabondi, mendicanti e folli quanto delle armature che li vestono al di fuori, come fosse dipinto da un Brueghel degli inferi o di un Bosch assillati da depravazioni e dannazioni in terra, e la proposta si smarca quindi felicemente da qualunque paragone con altri che non sia banalmente estetico ed estetizzante. L’oscurità, ma soprattutto l’angoscia tutta medievale degli Heltekvad irretisce e non lascia scampo perché foriera anch’essa di un fastidio raro e nuovo che è -guarda caso- interiore. Quelle urla di martirio sono il ritratto su pentagramma di quanto seriamente senza voce di conforto sappia dimostrarsi la storia per il singolo e i suoi personali spettri qui curiosamente osservati d’ambo i lati – il sensibile ed il mitico al pari; e di come su quegli sconnessi ed immondi lastricati, sui campi di battaglia in tempi oscuri che ancora perseguitano nel bene e nel male l’inconscio collettivo di mezzo mondo e nutrono l’immaginazione e la realtà dei popoli del mare per cui vivere est vincere, si è perpetrata una storia che ha l’iniziale maiuscola e minuscola al medesimo tempo.

Matteo “Theo” Damiani

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